bravo bravissimo

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I partecipanti avevano a disposizione una delle aule della scuola dotate di pianoforte, stanze allestite in numero sufficiente rispetto all’affluenza ma che comunque non si potevano occupare a lungo per assicurare la possibilità a tutti di ripassare i brani prima dell’esibizione decisiva. Il concorso pianistico tuttavia non era organizzato al meglio. La suddivisione in categorie a seconda dell’anno di nascita, nemmeno si trattasse di una gara d’atletica, generava classi di iscritti con disparità tecniche interne mostruose. Per esempio, a undici anni uno poteva essere al suo quinto anno di studi e portare pezzi quasi da Conservatorio, e gareggiare con altri concorrenti sullo strumento solo da tre, pianisti alle prime armi che avrebbero presentato pezzi facili eseguendoli correttamente ma con difficoltà di ben altro livello. Il vizio di fondo era che nessun insegnante di pianoforte avrebbe spinto un suo alunno portato per la musica ma ancora agli esordi a lanciarsi in una avventura del genere conoscendo perfettamente lo spirito che avvicina genitori e parenti a un concorso a premi, in cui l’importante non è certo partecipare. Nessun insegnante di piano tranne uno.

La motivazione un po’ stramba ma per certi aspetti fondata era quella di abituare il giovane alunno a esibirsi in pubblico, un’esperienza propedeutica ad affrontare esami con commissioni sconosciute, per esempio al Conservatorio. Ma una competizione tra piccoli fenomeni pari ad alcune trasmissioni televisive poi venute in auge in seguito non sembrava essere la via più utile allo svezzamento proprio al diretto interessato, quell’undicenne in questione ora seduto tra il pubblico per lo più composto da genitori e concorrenti nella sala da concerti, l’aula magna della scuola scelta come location della gara.

Si stava accorgendo che c’era qualcosa che non andava, comparando mentalmente le tre facciate di sonatina facile il cui spartito fotocopiato teneva in mano con i virtusismi dei suoi coetanei che si alternavano sul pianoforte a mezzacoda posto sul palco, perpendicolare alla giuria. Improvvisi di Schubert, Bagatelle di Beethoven, Debussy e addirittura Chopin. Il suo pezzo di un noto clavicembalista italiano, anche se eseguito alla perfezione, sarebbe stato comunque fuori luogo.

Lo incuriosiva però la presenza di ragazzi provenienti da tutte le regioni d’Italia vestiti con cravattini e mini-abiti da sera, alieni che stavano invadendo il suo mondo fatto di pochi metri quadri di appartamento a popolare finalmente un immaginario, quello del territorio esteso oltre la poca geografia vista dal vivo, a dimostrazione che i nomi delle città che aveva studiato sulla carta politica, il cui puzzle si divertiva a comporre, erano reali ed erano abitati davvero da persone in carne ed ossa. C’era addirittura uno degli iscritti che si chiamava Albertosi, tra l’altro uno dei più bravi, e osservandolo di profilo seduto al piano aveva trovato tutte le somiglianze possibili con il portiere del Milan la cui figurina aveva attaccato e contemplato centinaia di volte, chiedendosi ed estendendo a suo padre, che lo aveva accompagnato lì, l’interrogativo se si potesse trattare del figlio o del nipote del calciatore. Ha lo stesso taglio di capelli, diceva, e viene da Milano. Ma, a parte questa distrazione, trascorse il tempo prima di essere chiamato sul palco pervaso da una forte angoscia e da un sentimento di inidoneità dovuto anche al suo abito da scena, una maglietta Adidas blu a righe bianche e jeans, somatizzando quel complesso stato d’animo nella più immediata e comune attività fisiologica da espletare con cadenze sempre più ravvicinate.

Non è il caso di spendere nemmeno una parola sull’esibizione, tra il dignitoso e il trascurabile. Già rientrando in auto con il padre avvertiva la temperatura interna aumentare vorticosamente, e una volta a casa, aggiornato il resto della famiglia sulla tragica esperienza individuale, fu l’unico a mettere in dubbio i meccanismi organizzativi del concorso adducendo inoltre non poche perplessità circa l’inadeguatezza del sistema al quale era affidato il suo diventare grande, prima di mettersi a letto e trascorrere la settimana successiva con la febbre a quaranta.