siete tutte così belle a Milano?

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Fare la corte è un comportamento che apparentemente non necessita di grande sforzo perché, spesso, è indotto da una sorprendente naturalezza. Ieri mattina sono entrato nel portone per salire in ufficio preceduto di qualche metro dalla donna che lavora nell’agenzia al piano di sotto, che ha percorso l’ingresso con le sue ampie falcate – è alta come me – e con un casco da motociclista in testa. Il fabbro che stava armeggiando al cancello del cortile per sostituirne la serratura non si è lasciato sfuggire il portamento e le ha detto “Siete tutte così belle a Milano?”. Lei, senza fermarsi, gli ha risposto un secco ma compiaciuto “Ha visto?”. Messa così l’attrazione risulta davvero un gioco da ragazzi, anzi, un gioco tra ragazzi. Altro che quelli che pensano che sia il risultato di una somma di parti, nel senso di parti del corpo altrui. I capelli così, gli occhi cosà, il seno e le gambe e il fondoschiena nemmeno fossimo carne pronta a essere servita al banco macelleria all’Esselunga. E poi vogliamo parlare di certe smancerie o, peggio, della timidezza nel dichiararsi? Per dire, io e Susanna non ci siamo mai salutati, nessuno ha preso l’iniziativa ed è finita come è finita. Chissà cosa penserà di questi approcci diretti il fabbro in questione tra trent’anni, quando nei giorni di festa rifletterà sul piacere di svegliarsi per primo, in anticipo rispetto ai figli e alla moglie che magari sarà davvero la donna che lavora nell’agenzia al piano di sotto. Magari ieri è tornata giù portandogli un caffè e un biglietto da visita, poco romantico ma più efficace rispetto a un post-it con il numero di telefono scritto a penna ma a Milano, dove probabilmente davvero le ragazze sono tutte così belle, funziona così.

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Quel tizio che conosco, quello che che sostiene di avvertire un calore particolare da parte delle persone che sono ben disposte nei suoi confronti (ci siamo capiti) e che gli accade tutt’ora di sovente. Se ne stava seduto in treno, o a studiare in biblioteca, o al tavolo di una pizzeria a celebrare una qualunque ricorrenza con gli amici, e dalla ragazza seduta alla sua sinistra o alla sua destra percepiva quelli che chiamava raggi di interesse, un segno chiaro e forte dell’esistenza di feeling tra di loro. E io pensavo chissà se quelle radiazioni non sono nocive, insomma non sarebbe bello contaminare qualcuno che non ha nessuna colpa se non quella di essere un oggetto del tuo desiderio. Voglio dire, non può pagarla solo per questo.

Perché poi accadeva che tentava pure un approccio partendo da quello, che è una cosa che mi ha sempre fatto morire dal ridere. Tu se un’ignara studentessa tutta presa dal tuo testo di Economia Politica e quello vicino che ti dice scusa ma non vorrei fraintendere eppure sento delle vibrazioni positive. Magari non in questi termini, semplicemente usava il suo sesto senso solo come tecnica di scoperta, una sorta di contatore Geiger, e poi le fermava fuori con la scusa di una sigaretta o che altro e stava a vedere cosa succedeva. A me era capitata una cosa opposta, invece, una tizia con l’aria maledetta che mi aveva approcciato in un locale per maledetti dicendo “sento qualcosa che mi negativizza”. Avrei dovuto prenderlo come un complimento, ma lì per lì mi sono spaventato e ho usato la scusa del disco orario da cambiare.

E, tornando a quello dei raggi dell’amore, non era l’unica tecnica di seduzione che sfoggiava. No no. Sosteneva che fosse un metodo infallibile quello di studiare al limite della stalking tutti i movimenti della preda in modo da farsi trovare “casualmente” sui suoi passi. Che combinazione, anche tu qui e così via. Non so, a me sembrava una strategia troppo aggressive per i miei standard, io che ero così discreto e aspettavo anche mesi l’occasione migliore. Forse era anche un grande amatore, questo non lo potrò mai sapere, di certo sapeva far capire quanto ci teneva a una o all’altra partner. Nel corso di una delle sue relazioni più lunghe, durata anni e consumata anche sui sedili di un treno locale quotidiano da e verso la comune facoltà universitaria, durante quelle trasferte lo ricordo rinunciare anche a far pipì per passare il maggior tempo possibile con l’amata. Aspettava la sua discesa – era un paio di stazioni prima della nostra – perché sosteneva di non voler sprecare tempo. Poi l’accompagnava alla porta pregandoci di tenergli occupato il posto e si salutavano lui dal vagone e lei sul binario fino a quando il treno non partiva. Così ogni giorno per settimane, mesi, anni. Poi tornava al suo sedile, non prima di una meritata sosta alla toilette.