dietro a un grande uomo che cade sulla terra ce n’è sempre uno che si perde nello spazio

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Forse non tutti sanno che anche noi italiani abbiamo avuto la nostra “Space Oddity”, e non mi riferisco alla struggente “Ragazzo solo, ragazzo sola” che con la fantascienza c’entra ben poco. Erano i tempi della conquista dello spazio e dei suoi impatti sulla cultura, musica compresa. Di lì a poco si sarebbero imposti i Rockets con i loro capoccioni impiastrati di giallo oro, ma fino a quel momento quando il saggio indicava la luna i giovani di allora vedevano solo ed esclusivamente il Maggiore Tom orbitare da qualche parte lungo scenari kubrikiani. Chissà, forse anche da questa parte delle Alpi c’era un crescente desiderio di colonizzare lo spazio e di perdersi nel vuoto cosmico per non trovarsi mai più e vedere di nascosto l’effetto che fa. E di una canzone come quella di Bowie che potesse assurgere a manifesto di casa nostra delle ambizioni in assenza di gravità non c’era traccia. Almeno non nei circuiti tradizionali della tv di stato e delle manifestazioni estive di genere, perché probabilmente nell’ambiente di quello che in seguito verrà categorizzato sotto la bandiera del rock progressivo qualche composizione a tema ci sarà sicuramente stata.

In questo contesto i Dik Dik presentarono a Canzonissima – siamo nel 1974 – una ballata dedicata a un esperimento aerospaziale finito male con tutti i risvolti strappalacrime del caso. L’uomo che sparisce nel suo razzo mentre è in viaggio per Giove e, prima di esalare l’ultimo non-respiro considerando l’assenza di ossigeno, lancia il suo messaggio alla terra con un triplice “Help me”. In sala controllo c’è la moglie che assiste al tragico esito dell’operazione, come se non bastasse in grembo porta il primo figlio del capitano Mc Kenzie, a nulla servono i tentativi di salvare l’astronauta da qui. Era un diciotto settembre, e tre anni dopo la vedova che non ha nemmeno avuto il corpo del marito scomparso su cui piangere racconta le gesta dell’eroe di famiglia al proprio figlio. Gli parla di un uomo vestito d’argento per dare un volto a una voce registrata su un nastro che chiede aiuto disperatamente, senza sapere da dove. C’è poco da ridere perché non è per nulla patetico, tutto ciò. Il duca bianco sarà il duca bianco, ma io avevo sette anni e questa cosa del figlio che non conosce il papà perché è morto nello spazio mi faceva piangere come niente altro. p.s. ne parlano anche qui.