quello che reggo sono solo le parole

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Ai tempi d’oro dei cantautori a me i cantautori non piacevano granché. Il motivo del mio disinteresse era la scarsa cura degli arrangiamenti musicali delle loro canzoni, secondo il mio metro e i miei ascolti, naturalmente. Penso solo a quel modo di musicare testi irripetibili, addirittura perfetti tanto era la loro intelligenza e profondità, senza conferire altrettanta originalità alla componente strumentale. Ora senza addurre esempi di pezzi chitarra e voce, la classica ballad a impostazione dylaniana, in cui l’accompagnamento è volutamente scarno in virtù del processo compositivo stesso, in tutta l’abbondanza di riascolti dell’opera di Lucio Dalla che si è succeduta nell’anno della sua scomparsa, e soprattutto il suo periodo d’oro ovvero gli anni 70, mi sono accorto di riscontrare la stessa impressione di allora, pur mediata da una maturità e dall’intelligenza di collocare filologicamente il brano nel suo contesto storico quindi culturale e quindi estetico. Che poi è un po’ il peccato originale della musica italiana stessa, quello dell’essere imbrigliato da un linguaggio poco flessibile da adattarsi ad altri generi al di fuori di quello specifico della canzone d’autore. Ora è chiaro che certe speculazioni si possono fare solo a posteriori, ma non è difficile immaginarsi come alcune canzoni sarebbero riuscite se date in mano a uno come Gianni Maroccolo, giusto per fare un esempio impossibile se non altro da un punto di vista anagrafico, o a musicisti con altrettanto background e visione meno provinciale. D’altronde i turnisti e i virtuosi che popolavano l’entourage dei cantautori erano gli stessi che poi magari dovevano esercitare il loro mestiere con autori e interpreti meno nobili, quindi essere pronti a tirare fuori il meglio anche in registrazioni meno raffinate. Sempre per fare un esempio, musicisti del calibro dei componenti della PFM, che hanno arrangiato con un gusto sopraffino l’opera di De Andrè, hanno accompagnato anche molti dei peggiori prodotti musicali del periodo. E la PFM è uno dei rari casi di compresenza di gusto e tecnica, di esperienza internazionale ma di sapore italiano. Altrove, dare un brano nudo e crudo in mano a mestieranti scafati e supertecnici generava rivestimenti sonori sicuramente tagliati su misura ma tali da omogeneizzare qualunque canzone nel calderone della sovraproduzione artistica, condannandola all’oblio nei secoli dei secoli. Affidare la responsabilità di colorare una linea melodica a virtuosi con le mani e la testa zeppe di ascolti unicamente monodirezionali, il jazz o la fusion tanto per citare due degli elementi che in ambito pop nemmeno dovrebbero essere ripresi nei booklet dei cd, è stato enormemente riduttivo. Nel 1979, anno di uscita di  Lucio Dalla che possiamo considerare un album perfetto anche solo considerando la tracklist, nel resto d’Europa la musica si muoveva in tutt’altra direzione e se è difficile immaginarci un brano come “Anna e Marco” con la produzione di Brian Eno è solo perché il nostro imprinting sonoro è lo stesso che hanno i componenti degli Stadio che hanno registrato quel brano. Se posso generalizzare con una battuta, metti un pezzo rock o anche funky in mano a gente che suona troppo bene e il rock e il funky miracolosamente spariscono nel nulla. E a supporto di questa tesi, anzi del suo contrario, ascoltate la versione in studio di “Musica ribelle” di Finardi, che è una delle rare eccezioni di quanto ho scritto sopra in cui addirittura la batteria emerge a un volume straordinariamente alto considerando anno e nazione di uscita, il tutto registrato da alcuni membri degli Area in aggiunta ad altri musicisti italiani “anomali” come Alberto Camerini.