la vita è quel fenomeno che nei primi vent'anni ci butta contro le cose alla rinfusa e nei rimanenti sessanta ce le spiega per filo e per segno

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La vita è quel fenomeno che nei primi vent’anni ci butta contro le cose alla rinfusa e nei rimanenti sessanta ce le spiega per filo e per segno. In altre parole, c’è un primo periodo che dura maledettamente poco in cui ci capita di tutto e siamo protagonisti attivi delle nostre esistenze e passivi di quelle altrui ma è talmente tanto quello a cui siamo sottoposti che altro non possiamo fare che vivere e basta. Ma non dovete preoccuparvi perché poi avete almeno altri sessanta o settant’anni per cercare di capire quello che vi è successo perché tutte quelle cose lì ve le ritroverete dappertutto. La vita adulta, terza età e vecchiaia compresa, è un unico lunghissimo master di specializzazione in cui appunto hai la possibilità di capirci qualcosa soprattutto perché ogni due per tre ti viene fatto notare che agli albori della personalità qualcuno e qualcosa hanno contribuito a farti dei danni, con tanto di nomi e cognomi. Non che da grandi non ci siano contenuti originali di cui fruire, anzi. Però nel periodo dei nostri esordi nelle cose del mondo è come se scrivessimo il codice di un programma che poi deve tirare avanti per un bel po’, e maturando o almeno provandoci si trova il sistema per fare il debug perché comunque lo abbiamo compilato un po’ alla carlona, d’altronde avevamo ben altro da fare a partire da spaccare tutto, fare sesso, procacciarci un titolo di studio, provare tutte le droghe e gli intrugli possibili e immaginabili, seguire ideali poco proficui, fare ancora sesso, andare ai concerti, fare e disfare band, ballare, passare notti insonni, correre pericoli, correre e basta, fermarsi per fare sesso ancora una volta, riprendere a ballare. Così se ci riuscite provate a fare una sintesi. Oggi faccio cosà perché a tredici anni ho deciso così, oggi reagisco in questo modo perché quando ne avevo diciassette ho subito in quell’altro modo. Quindi mi raccomando applichiamoci con impegno perché non è detto che questo corso intensivo su noi stessi non ci sia utile nella nostra attività di genitori, sempre che i nostri figli abbiamo tempo da dedicarci visto che sono sotto i vent’anni e la vita a loro, come a noi anni fa, gli sta buttando addosso le cose alla rinfusa e se cerchi di spiegarglielo mica ti danno retta.

è un periodo che i bigliettini di quelli che acquistano auto vecchie o danneggiate li prendo sul personale

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È un periodo che i bigliettini di quelli che acquistano auto vecchie o danneggiate li prendo sul personale. Li trovo infilati nei cristalli lato guidatore o nella maniglia, gli do un’occhiata per vedere se è lo stesso dell’ultima volta ma vedo subito che no, quelli che acquistano auto vecchie o danneggiate sono tantissimi e probabilmente è la professione del futuro. Poi mi guardo in giro nel parcheggio e vedo decine di altri santini gettati via da altra gente che come me si vede che la prende sul personale.

Non so se esistano veramente, non ho avuto mai la fortuna di vederne uno dal vivo infilare i suoi bigliettini nelle macchine altrui. A questi misteriosi commercianti di usato la mia auto ha trasmesso un’idea di malmesso, di vecchio, di indegno di stare al mondo nel mondo occidentale popolato da auto sempre nuove, sempre più accessoriate, sempre più intercambiabili, sempre più costose ma con sempre più meccanismi per pagarle nel tempo e darle indietro quando ci va ma dopo averci smenato un botto di soldi, con un turn over che nemmeno i programmatori software ai tempi della prima bolla Internet.

Facile chiedersi quali siano i parametri all’interno dei quali un autoveicolo è considerato merce di serie B. Intorno a questa zona grigia della compravendita di seconda mano aleggiano le credenze popolari e le leggende metropolitane più cupe. Di bigliettini ce ne saranno milioni di tipi, e magari noi non lo sappiamo ma si tratta di una raccolta come le figurine della Pixar dell’Esselunga o addirittura come i miniassegni, e tra venti o trent’anni varranno un sacco di soldi. Ci sarà magari anche il Gronchi rosa dei bigliettini di quelli che acquistano auto vecchie o danneggiate e ci malediremo di averli buttati nella spazzatura dopo averli tenuti qualche mese in macchina, accumulati nel vano della portiera insieme al disco orario e il grattino del ghiaccio.

Dicono che le nostre macchine vecchie o danneggiate, una volta in mano a questo esercito di intermediari invisibili, prendano la via dell’est europeo su uno di quegli autoarticolati targati Romania o Ucraina che si incontrano lungo le arterie autostradali che portano verso il confine con la Slovenia o l’Austria. Le centinaia di migliaia di Citroen Xsara Picasso del 2005 come la mia ex-macchina che abbiamo dato via solo perché eravamo esausti di viaggiare su una specie di uovo, oggi corrono lungo le strade dei dintorni di Timisoara o di Kiev gioiose di essere guidate da padroni altrettanto poveri come quelli per cui hanno prestato servizio nella loro prima vita a quattroruote.

Poi ci sono quelli più pessimisti che sostengono che gli scarti di trasporto della nostra società avanzata vengano sezionati ancora vivi per l’asporto di parti destinate al mercato dei ricambi, che detta così sembra una storia tratta da un reportage sulle organizzazioni che trafficano organi di esseri umani.

Ma il punto è che i bigliettini di quelli che acquistano auto vecchie o danneggiate li prendo sul personale perché è un periodo che ho la coda di paglia ed è come se questi procacciatori del loro tornaconto dicessero a me che sono vecchio o danneggiato. Prendo il biglietto infilato nel cristallo lato guidatore, leggo l’ennesima offerta di affari e poi mi guardo riflesso nel vetro per vedere se davvero sono conciato anch’io così male.

hai visto? è già passato un momento, e un altro, e un altro ancora, e un altro dopo un altro, e un altro dopo un altro ancora

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C’è una branca della filosofia che è l’epicureismo estremo, non so se lo conoscete ma fanno anche i campionati mondiali, che consiste proprio in questo. Assicurarsi che i momenti si susseguano con la regolarità che è propria dello scandire del tempo senza viverli considerando che hanno una durata talmente impercettibile che c’è già quello successivo che lascia il posto a quello dopo e così via, come vi ho anticipato nel titolo. C’è invece l’epicureismo acrobatico che è una disciplina simile ma rivale un po’ come accade tra rugby e football americano o tra tennis e badminton. Vi starete chiedendo come faccio a saperne così tanto di epicureismo acrobatico. Modestamente sono stato azzurro e certe soddisfazioni me le sono tolte. Ora permettetemi di organizzare il post sull’epicureismo acrobatico come gli esperti di social media ci insegnano a scrivere sui blog a regola d’arte.

Ma che cosa è l’epicureismo acrobatico?
L’epicureismo acrobatico consiste nell’individuare un punto elevatissimo con una sua dimensione temporale a cui anelare e raggiungerlo, un po’ come fanno certi skaters quando fanno la spola tra un lato e l’altro di una piscina, ruotano la tavola a rotelle e scendono di nuovo giù a rotta di collo. C’è un momento che non desideriamo altro che arrivi e, appena giunto, ma anche prima, quando sei in prossimità, se già lì che ti volti indietro e fai le acrobazie mentre lo osservi svanire come quando sei sul Frecciarossa e vedi qualcosa che ti piace nella campagna del Lazio, perché in quella tra Milano e Bologna raramente si notano delle bellezze, a parte gli archi di Calatrava a Reggio Emilia.

In quanti si gioca a epicureismo acrobatico?
Sempre da soli perché a noi azzurri o ex campioni di epicureismo acrobatico non ci piace condividere la velata mestizia delle cose che succedono troppo in fretta e non ce le possiamo godere appieno senza nessuno, ché tanto nessuno capirebbe.

Posso diventare anche io un epicureo acrobatico?
Se ci tieni tanto. Prova a fare come ho fatto io ieri. Mi ero gasato che non vi potete immaginare quanto (mi era pure salita la pressione, non riuscivo nemmeno a leggere il libro al ritorno dall’ufficio tanto la cosa mi aveva preso) per aver rintracciato il proprietario di un Huawei smarrito sul treno (ne hanno parlato tutti i giornali, comunque una sintesi la trovate qui) che mi ero pure emozionato pensando al momento della riconsegna, il punto elevatissimo in cui tentare un record di epicureismo acrobatico. Si è presentata la mamma della studentessa che lo aveva perso mentre il papà non è nemmeno sceso dalla macchina, e non vi dico che macchina. Ma non si può mai sapere perché poteva benissimo trattarsi di una famiglia di cassintegrati per i quali dover acquistare un nuovo smartphone alla figlia può costituire un problema. Le cose rinvenute si restituiscono a prescindere. Poi però è successo che il momento della riconsegna è durato ancora meno della media di quei momenti che ci sogniamo eterni. Nemmeno una bottiglia di vino o una scatola di cioccolatini o un mazzo di fiori in segno di ringraziamento, non che lo volessi eh. Nemmeno una stretta di mano. Greta piangeva, mi ha detto la mamma, e io che sono un papà sono stato contento lo stesso perché aver asciugato le lacrime di Greta con un atto di bontà è stata la migliore ricompensa. In realtà volevo solo parlare con loro dell’episodio per dilatare un po’ quel momento e tentare un’acrobazia mai vista, e invece niente. Dare i dettagli sulle dinamiche del ritrovamento. Quel messaggio di “odio tutti” scritto sulla cover che per un attimo mi aveva convinto a ricambiare il sentimento non restituendolo. Invece nulla di tutto questo. Nemmeno il tempo di pensare che quel momento si stava esaurendo in una brevità mai vista che era già finito. La portiera del macchinone chiusa con il caratteristico botto di lamiera hi-tech e milioni di lire in optional, io sui miei passi a rincasare nel buio di una gara notturna di epicureismo acrobatico, persa in malo modo.

sto bene solo se dopo una strofa di otto battute subentra il ritornello

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Se volessi prendere questo argomento alla lontana vi ricorderei che la ciclicità è un aspetto fondamentale della nostra natura, probabilmente – ma non sono io il primo a dirlo – per via del giorno e la notte, poi le stagioni e gli anni e persino la vita e la morte ma che è già un ciclo di cui faremmo volentieri a meno. Possiamo dire però che la reiterazione è ciò che ci dà più sicurezza di ogni altra cosa. Siamo qui a rimandare a domani, al mese prossimo, all’estate del 2016 e così via proprio perché non c’è nulla di così certo come il sole che sorge eccetera eccetera. (Pausa tocca-ferro).

Al contrario le cose che iniziano e cambiano in continuazione sono quelle che ci fanno sentire dei fighi assoluti e anticonformisti ma alla lunga perché fare delle cose belle una volta sola e poi non ripeterle più per fare altre cose belle il giorno dopo? Mi seguite? Si tratta di un corso che rende irrequieti perché non sai mai cosa c’è dopo. Questa è filosofia? No, solo che pensavo che le canzonette ma anche certi canti tribali e i mantra religiosi vanno avanti a iosa ripetendo pattern fino a tirarci scemi ma non perché gli autori ci credono scemi e per farci capire un concetto pensano di ripetercelo a iosa. No, non funziona così. Un manciata regolare di battute, con la relativa sequenza di accordi, ritmo, e tutti gli orpelli sonori che volete, inizia e proprio nel suo svolgersi cattura la nostra attenzione perché affine al nostro gusto, quindi si avvia alla chiusura e già noi cambiamo umore perché temiamo che quella bellezza possa finire e invece no.

L’astuzia del compositore sta proprio nel ripeterla in un numero di volte sufficiente a soddisfare la voglia di risentirla ma non in eccesso in modo da non rompere i maroni. Quindi è giusto interrompere a un certo punto una parte musicale che piace così fai venire all’ascoltatore la dipendenza e la voglia di stare lì fermo ad aspettare che inizi. Un processo proustiano, forse, ma cercate di non sopravvalutarmi.

Pensavo a questo concetto perché c’è tutto un filone di musica che viene definito colta. La musica classica ed il jazz, per esempio. Vi risulta, corretto? Bene, perché è colta? Perché per ascoltarla occorre mettere un filtro alla pancia, che è quella che borbotta se ha fame di ritornello dopo otto strofe, e agire con la testa, con la mente, con l’intelletto ed essere pronti a quella cascata di divenire che dalla prima nota in poi è tutto un diversificarsi, un separarsi, un variare, un improvvisare con frasi uniche che non si ripeteranno mai più. Questo ci trasmette insicurezza e solo la razionalità che ci può imporre la convenzione culturale o il non aver paura del vuoto che ci può essere dopo una curva di una strada che non conosciamo, ci permette di arrivare fino alla fine. Quindi la differenza con il pop sta tutta qui? All’inizio ero consapevole di dove volessi arrivare, poi tutto questo cambiare discorso boh, non ricordo più che cosa volevo dire.

famiglie allargate in spazi sempre meno ampi

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Ci dev’essere per forza una ragione che non riusciamo a comprendere, una cosa che supera in incommensurabilità non solo la legge fisica per cui gli aerei stanno in aria senza precipitare ma anche perché, tanto per dirne una davvero incomprensibile, presa una decisione si tratta quasi sempre di quella sbagliata. Del resto, se qualcuno di veramente intelligente ha messo nero su bianco teorie del calibro del principio di conservazione dell’individuo e prosecuzione della specie a supporto del fatto che, da sempre, ci piace sfornare prole in quantità esponenziale, chi siamo noi con i nostri algoritmi della minchia con cui al massimo programmiamo un eseguibile per rinominare in modo automatico una caterva di file per dimostrare il contrario? Volete mettervi sullo stesso piano di Darwin, tanto per dirne uno? Ah no, giusto per chiedere.

Ora il problema è che quando intendo quantità esponenziale è chiaro che, arrivati a non so quanti miliardi, qualche problema di overbooking sul pianeta ce lo dobbiamo porre per non arrivare poi, tra qualche secolo, a trovarci con il biglietto in mano pronti per vivere la nostra vita nella città di xy e trovarci il Salvini di turno che ci dice che i posti sono finiti. Andate in pace. Ma il problema di saturazione globale è ben più ampio e si manifesterà. Magari tra mille anni, ma può succedere. Qualcuno in sala ha un simulatore per darci qualche proiezione sulla popolazione mondiale nel 2915? Qualcuno ha mai pensato che questa teoria, che va tutt’ora per la maggiore, non ha tenuto conto dei limiti di spazio fisico?

E pensare che i nostri avi cagavano figli un po’ perché tutto sommato l’atto del farli è appagante, un po’ perché non c’era molto altro dal punto di vista della soddisfazione personale, e poi un po’ di forza lavoro in più tanto non guastava. Sto parlando di gente dalla vita media così corta che oggi, a quell’età, non abbiamo ottenuto nemmeno un contratto a tempo indeterminato e a malapena papy e mamy ci fanno usare la loro macchina per andare a vedere il concerto de Lo Stato Sociale. E forse è proprio questo aspetto che va a compensare la tendenza a perpetuarci all’infinito in un’area che, pur vasta, ha comunque i suoi limiti fisici anche considerando la superficie più inabitabile.

Tutto questo scarto tra la biologia che non lascia scampo – a un certo punto possiamo voler avere figli quanto vogliamo ma ci si mette di traverso la natura – e il nostro tenore di vita probabilmente arginerà la crescita demografica e arresterà brutalmente il numero di occupanti simultanei delle terre emerse. La gente oggi arriva a una certa età perfettamente realizzata grazie a tutti i surrogati che vanno a compensare gli istinti ancestrali che ci hanno portato sin alla modernità: la realtà virtuale dell’Internet al posto della vita sociale, pornografia a portata di mano che fa le veci alla vita coniugale e, soprattutto, gattini e cuccioli di Jack Russell al posto dei figli. Animali domestici in abbondanza da postare con orgoglio sul web a confermarci che sì, tutto sommato, se avessimo voluto saremmo stati davvero dei bravi genitori.

selezione all’ingresso

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Ruggero è stato molto carino a raccogliere il mio invito e, soprattutto, a resistere fino alla fine del concerto. Mi affretto subito a salutarlo appena scendo dal palco. Lui è seduto su uno di quei trespoli scomodi da bevitore assiduo al bancone e, mentre mi avvicino, mi fa l’inequivocabile gesto premendo il polpastrello del pollice poco sotto la fronte, in mezzo alle sopracciglia, che sta a significare che in giro c’è l’iraniana. Non ci siamo mai chiariti su questo fatto che sono le donne indiane principalmente a portare il bindi, ma l’importante tra amici è capirsi malgrado gli svarioni culturali di un certo lessico frutto della confidenza.

Esco fuori dal locale a cercarla e, come pensavo, la vedo lì a sorseggiare una consumazione dai colori tipicamente femminili fumando una sigaretta senza filtro e scambiando qualche parola con la fidanzata del mio amico che è così glabro da non credere e che, poco più in là, sta commiserando la sua cagna vecchissima che piscia senza pudore in mezzo alla gente. Riesco ad attirare in un modo palesemente interessato l’iraniana in uno spazio tutto per me e riprendo la conversazione da dove l’avevamo lasciata la settimana prima, quando prendeva amorevolmente in giro il mio compagno di sbronze che non si reggeva in piedi.

L’iraniana è all’ultimo anno di farmacia e guida un’Harley Davidson che costa un occhio della testa. Scopro che ha bisogno di contatti accademici di cui ho l’esclusiva, così ne approfitto per scriverle su un flyer di un evento scaduto abbandonato su un tavolino di plastica dozzinale il mio numero di telefono. Mi ringrazia ma poi vedo con la coda dell’occhio che lo accartoccia e lo getta via senza tanti complimenti così, senza nemmeno avvisarla, tanto di sicuro non si offende per la scortesia, decido di avviarmi a recuperare il furgone per caricare gli strumenti dal retro.

Un tizio brizzolato mi chiede l’ora ma gli confido che proprio prima di salire sul palco mi sono accorto che la batteria al litio dell’orologio ha tirato le cuoia. Il brizzolato non coglie la coincidenza ma si vede che non siamo in sintonia in fatto di umorismo, oppure ha davvero bisogno di sapere quell’informazione. Non sta particolarmente dritto con la schiena e la camicia fuori dai pantaloni rivela uno stomaco da bevitore e diverse rilassatezze che traboccano sopra la cintura. Penso però che malgrado il declino fisico abbia altre qualità perché l’iraniana lo prende sottobraccio e gli fa assaggiare il beverone ormai a metà.

La morale è che ognuno prende la qualità che gli è toccata in sorte e ne fa la cosa più importante del mondo, in questo siamo unici in natura. Voglio dire, non è che mentre un branco di animali cacciatori sta fuori a procacciarsi il cibo ci sono quelli un po’ sfigati nelle retrovie o che curano la logistica del magazzino o che cercano in Internet la ricetta migliore per cucinare la preda che i cacciatori porteranno a casa o che ti intrattengono con la musica di sottofondo mentre sei a cena. La carne cruda si mangia sul posto e quelli che non partecipano alla battuta di caccia – perché sono malati, o vecchi, o hanno qualche problema fisico o anche solo lo spleen – alla fine muoiono di fame. Non sono un etologo ma credo che più o meno funzioni così. Noi ci siamo inventati questa cosa del lavoro intellettuale che, detto fra noi, non serve a un cazzo e ti fa ricorrere a esemplari alfa dotati di trapano e pennellesse ogni volta che devi fare qualcosa in casa che non sei capace, pagandoli peraltro fior di quattrini. Forse è per questo che ci sono razze più prestanti, in cui la dura legge della natura ha selezionato solo i più forti per la continuazione della specie, e altre un po’ più hipster.

una volta amavo i cambiamenti, poi sono cambiato e ho smesso

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Una volta amavo i cambiamenti, poi sono cambiato e ho smesso. Potrei finire così, vincitore nella categoria degli autori di pensieri compressi che sono quelli che vanno per la maggiore. Ma invece voglio surclassare con stile voi e tutti gli aforismi sul cambiamento con cui riempite i vostri socialcosi e che, manco a dirlo, hanno rotto il cazzo. Il cambiamento è quasi sempre in peggio, chi lascia la strada vecchia per quella nuova sapete meglio di me dove va a finire. Il cambiamento è inevitabile ma possiamo scegliere quando e come farlo, dice uno e l’ho letto proprio poco fa. Ah si? Siete proprio sicuri di avere abbastanza pelo sullo stomaco da discernere la scelta più appropriata gestendo il panico? O ancora sentite queste, fresche fresche di aggiornamento di status. “Sii come la fonte che trabocca e non come la cisterna che racchiude sempre la stessa acqua”. Ma come? E poi se ai vicini di sotto gli si allaga la casa? “Non avere mai paura di tentare qualcosa di nuovo. Ricorda: dei dilettanti costruirono l’arca mentre il Titanic fu costruito da professionisti”, ho letto pure questa. Vogliamo scherzare vero? Crediamo ancora alle favole e alla fantascienza? “Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”. Certo, ne riparliamo poi comodamente spiaccicati sul parabrezza. “La logica vi porterà da A a B. L’immaginazione vi porterà dappertutto”. Giusto, poi ti svegli e se il treno è in ritardo al lavoro ci arrivi già con i coglioni che ti girano. Ecco perché vi dico che una volta amavo i cambiamenti, poi sono cambiato e ho smesso. E mi limito solo ad aggiungere che da allora non mi è stato più possibile tornare indietro, d’altronde si tratta di una di quelle decisioni irrevocabili, se non la meno riconvertibile per antonomasia. Ancora oggi non chiedetemi di cambiare le cose, e questo stallo globale termonucleare in tutti gli scenari che hanno l’onore di ospitarci – parlo della vita privata, del lavoro, degli interessi, delle passioni, del cibo, della musica, della narrativa, degli hobby, del tessuto che compone il nostro corpo e di tutto il resto verso il quale ogni mattina ci promettiamo di intervenire per non morire di routine ma che invece lasciamo lì immutabile tra i cimeli della nostra esistenza – dicevo questo stallo globale termonucleare in tutti gli scenari che hanno l’onore di ospitarci e che ci fiacca con quella sorta di sostanza collosa là fuori che tiene in scacco esseri viventi, non viventi e quelli a metà, gioca a mio favore. Potete stare sereni che tanto nessuno svolta da nessuna parte, e se lo fa se ne guarda bene da mettere la freccia in tempo.

la fila per le risposte giuste è di qua

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Se si potesse risalire alla prima domanda che si è posto un essere umano, e davvero questa volta attenti perché la prendo alla lontana, la prima domanda fatta a se stesso non si sa da chi e con chissà quale verso – immaginiamoci i primi rozzi tentativi di auto-percezione – ecco, sono pronto a scommettere che la prima domanda possa essere stata se nelle altre specie non evolute come l’uomo, e ancora provate a pensare a quanto poco evoluto fosse quell’uomo lì, se nelle altre specie animali dicevo non evolute come l’uomo possa esistere il dubbio. Che domande. Ve la immaginate una tigre con i denti a sciabola che ha paura di prendere una decisione? Un dinosauro adolescente che chiede a suo padre un consiglio, e non stiamo parlando di cartoni animati? Una di quelle primordiali creature acquatiche che conta fino a dieci prima di fare una scelta? Pensate un po’ oggi, con tutte le bestie che comunque un po’ di strada ne hanno fatta da allora. Gli animali domestici che gli manca la parola, le mucche che capiscono se tocca a loro e i maiali che si disperano per i congiunti dell’allevamento in pericolo. Nessuno di tutti gli esseri viventi protagonisti di questa storiella sarebbe comunque qui a raccontarci la propria perplessità in quel frangente, dal momento che quando si tratta di vita o di morte c’è poco da esitare. Il dubbio si manifesta nella vulnerabilità che a sua volta si traduce in inadeguatezza che, nel caso degli adulti, li fa sembrare bambini, ovvero incapaci di vivere in autonomia, badare a sé, sopravvivere nella giungla che c’è là fuori, giusto per rimanere nella stessa metafora. C’è la compassione nei crostacei? Esiste la sensibilità negli insetti? Si può trovare un equivalente di Sinking dei Cure nella cultura dei rettili, per esempio? Si fanno domande sulla weltanschauung le renne, giusto per contestualizzare l’argomento alla stagione in corso? Alle antilopi prima di farsi sbranare da un branco di leonesse passa tutta la vita davanti agli occhi come un film? Ma guardate che ce n’è anche per noi. Certe civiltà indigene, quelle che ogni tanto osserviamo sui canali di documentari e nelle trasmissioni di antropologia, una volta assicurati gli approvvigionamenti quotidiani, cosa fanno tutto il giorno?

alcune indiscrezioni sul rapporto di coppia

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A me non interessa nulla se tutto ‘sto rallentamento sociale deriva dell’economia in picchiata o è a causa della proliferazione delle auto con il cambio automatico che ne hanno ridotto la ripresa di un buon settanta o ottanta per cento, di conseguenza si formano le file dietro perché ci si mettono almeno due o tre secondi a testa in più per le partenze in salita, per esempio. Moltiplicate tutto questo per il numero di veicoli in circolo contemporaneamente sulle strade italiane ogni giorno. Tutto acquista ritardo con conseguenze a catena. Arriviamo dopo a casa, ceniamo più tardi, facciamo le ore piccole con i tortellini in brodo sullo stomaco e il giorno successivo siamo meno produttivi, meno creativi, meno efficaci. Dietro allo smantellamento del genere umano ci sono quindi le lobby americane ostili alla trasmissione manuale, quelle che hanno legalizzato quell’incedere da depravati sulle strade che non sai mai quando arriverà la botta per far finalmente camminare quei cassoni da “sulle strade della California”, per la collera di chi invece vorrebbe arrivare prima, iniziare prima la pausa privata tra un dì feriale e il seguente, metafora della vita che si rinnova, della freschezza e dell’intelligenza sopraffina. Gli strattoni delle non-marce che si innestano da sole a cazzo fanno traballare abbondanti pance gonfiate dall’opulenza su sedili in pelle mai vista in natura, probabilmente provenienti da qualche allevamento di alieni scuoiati per gli interni di SUV da novantamila euro a botta. Nulla a che vedere con le braccia tutte nervi e muscoli a cui basta una leva per sollevare il mondo, la potenza degli avambracci compressi per selezionare di volta in volta un rapporto di trasmissione differente che, prima che la moda dell’automatico prendesse piede, ci portava addirittura fino alla sesta. La morale è che siamo talmente reietti da farci comandare persino da una componente meccanica, una macchina trasformatrice che, ancora prima di modificare i costumi, ci ha mandato indietro nella catena evolutiva con una veloce manovra in retromarcia.