la stessa forza della dinamite

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Ora lasciate perdere i vestitini vintage che poi li indossate alle feste a tema e la cosa finisce lì perché comunque abbiamo una predisposizione culturale per certe linee e quel tipo di design. A dire la verità il revival anni cinquanta sessanta e settanta ha rotto un po’ il cazzo, perché è dalla fine degli ottanta che c’è questa ossessione della psichedelia poi del beat e poi Starsky e Hutch e persino Johnny Dorelli e poi basta, però. Altre cose invece tolte dal loro contesto storico ci fanno quell’impressione un po’ meh, lo sapete anche voi. Io una volta ho aperto una scarpiera rimasta chiusa per più di dieci anni e mi sono pure rimesso ai piedi quelle calzature da prete di lusso che usavo ai tempi dei Joy Division, per dire, ma ero rimasto sorpreso dalla foggia che una volta mi sembrava così avanti e che invece cambiato tutto, cambiate le curve e le proporzioni del modo di interpretare il mondo, riviste cioè in pieno riflusso del riflusso, proprio non mi ci vedevo più. E i miei piedi pure. La stessa cosa può capitare con le canzoni. Per una di quelle coincidenze che poi finiscono sui blog, domenica ho letto una cosa che ha scritto una mia amica sui parka che a me piace chiamare tutt’ora eskimo e detto fatto, sei battute spazi inclusi sul campo di ricerca di Spotify e già l’omonima composizione di Francesco Guccini irrompeva con tutta la sua erre moscia e la sua spocchia d’altri tempi nell’aria di casa mia, satura ormai esclusivamente di musica americana o inglese (a parte quel gruppo di Torino che mi porto dietro come una zavorra dal 97). Insomma che alla quarta forse quinta strofa per fortuna ha suonato il timer del forno e con la scusa che mi disturba la musica a pranzo Guccini è tornato con un brusco alt+F4 nella sua via Paolo Fabbri. La coincidenza, identificabile nell’ascolto del cantautore bolognese due volte in due giorni, si è manifestata ieri sera con le sembianze di uno svitato più o meno mio coetaneo che, all’ingresso della palestra che frequento, con un casco in testa malgrado fosse a piedi, cantava dritto come una sentinella del comunismo canoro “La locomotiva” sotto lo sguardo allibito di un gruppetto di studentesse del liceo che ospita quello spazio sportivo, nate e cresciute nel nuovo millennio. Sono passato davanti a lui proprio nel momento più bello, e cioè il verso del fratello non temere che torno al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria. Ho risposto con entusiasmo immediato al suo pugno alzato con il mio, e non dovete biasimarmi se in quel frangente mi è sembrato il riconoscimento più adeguato a un gesto davvero coraggioso e, per dirla all’inglese, disruptive.