il modello americano

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Qualche mese dopo l’undici settembre successe un cosa che ha dell’incredibile. Voglio dire, un fatto che ha già in sé un che di straordinario, ma che, accaduto proprio in quel momento, a ripensarci sembra una burla. O no, sembra un disegno architettato apposta per suscitare incredulità, una eco del piano messo in opera l’undici settembre a New York, un modellino in scala dell’attacco alle torri del World Trade Center come le riproduzioni della realtà che si vendono nelle edicole. Ecco, una collana dell’edizione taldeitali che ti permette di collezionare le versioni ridotte per la conservazione casalinga dedicata agli amanti del genere, i grandi eventi storici, quelli più tragici. Pompei, o il Titanic o Pearl Harbour, in dispense settimanali, plastico incluso. Insomma, spero di aver reso l’idea. E ho come l’impressione che non sia stato così deflagrante come poteva esserlo in potenza, cioè almeno io credo che non sia stata colta l’essenza vera e la casualità di quell’avvenimento, perché è tutto molto strano: la tempistica, la dinamica. Tutto.

Mi stavo recando a prendere il treno del ritorno a casa dopo una giornata in ufficio. Lavoravo in Piazza della Repubblica, a Milano, e stavo percorrendo a piedi via Pisani in direzione Stazione Centrale, quando sento il rombo di un aeroplano e poco dopo un boato. Ma non avrei mai immaginato una cosa simile a ciò che era appena successo, non avevo collegato i due rumori appena percepiti come uno la causa dell’altro, tant’è che, comunque ormai predisposto ad attribuire a ogni suono fuori dall’ordinario il carattere della tragicità e della catastrofe, ho immediatamente pensato a una bomba nelle vicinanze. A una bomba in Stazione Centrale.

Ma, guardando verso l’alto, e non ricordo come si comportassero le persone che erano in strada con me in quel momento, notai fumo, polvere, fogli in A4 volare, che comunque mi ricordarono i reportage su Ground Zero che avevano ampiamente coperto le settimane successive all’attacco. Nel mentre, accelerando il passo per avvicinarmi a quello che avevo capito essere l’epicentro, fiumi di impiegati si riversavano fuori dagli alti palazzi che costeggiano via Pisani, mettendo probabilmente in pratica il piano di evacuazione degli edifici, quello che i responsabili della sicurezza imparano ai corsi per responsabili della sicurezza sul lavoro, e che raramente viene messo in pratica. Un ruolo considerato solo di forma, sottovalutato a tal punto che nessuno ritiene che un giorno sarà mai costretto a mettere in atto gli insegnamenti per salvare i propri colleghi. Che magari non vorresti nemmeno salvare.

Giunto in Piazza Duca d’Aosta, noto che la stazione è intatta. Si percepiscono i suoni delle sirene in arrivo, vedo gente affrettarsi, correre, allontanarsi in tutte le direzioni. Guardo in alto, ed ecco il danno: vedo il grattacielo Pirelli violato, uno squarcio a forma di tragedia, la bocca di un vulcano artificiale che erutta fuoco e fumo. E quando sono venuto a sapere che cosa era accaduto veramente, un aereo turistico che, in avaria, si era volontariamente schiantato proprio lì per evitare di cadere in qualche altro punto della città, non è stato difficile mettere insieme gli elementi che dimostrano all’assurdità della cosa. Dopo le Torri Gemelle, il Pirellone.

C’è molto su cui riflettere, non so in che termini, ma c’è molto. Ricordo di aver raggiunto il mio treno, con la paura che anche la stazione potesse essere a rischio, e che a differenza di tutti gli altri in partenza dopo che i binari furono fatti evacuare per ovvie ragioni di sicurezza, il mio partì in orario, perché era già pronto prima della collisione, quasi a volersi allontanare al più presto da quel tipo avvenimenti, fuggire dalla nuova tragedia. Basta, probabilmente ha pensato il capotreno, basta, non ne possiamo più.