l’Installazione Shalechet al Museo Ebraico di Berlino

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Lo stridore si avverte lungo l’area di accesso, credo volutamente disadorna, e se non sai cosa ti aspetta – io non mi ero preparato, per esempio – non capisci quale sia la causa di quel rumore, anomalo in un ambiente museale o comunque per un’installazione. Io l’ho scoperto del peggiore dei modi. Mia figlia è corsa in avanti anticipando mia moglie, me, gli amici che ci accompagnavano, così quando mi sono trovato di fronte all’Installazione Shalechet ho assistito al suo disagio nel percorrere per il lungo quella distesa di volti anonimi forgiati in acciaio, migliaia di concentrati di anime spazzate via con l’Olocausto e sottomesse all’angoscia del visitatore. Il fragore provocato dalle persone che calpestano quel mare di metallo è una sintesi di tutti gli effetti sonori più sgradevoli che le vittime dei lager devono aver subito: vagoni su rotaie, cancelli e catene, armi, schiavitù. Un frastuono impossibile da sopportare e una sensazione di angoscia nell’esserne la causa. Ho fatto di tutto per allontanare mia figlia da lì, la visita al Museo Ebraico di Berlino è già un’assunzione di responsabilità per uno dei crimini più efferati del novecento, ma l’opera di Menashe Kadishman è davvero un pugno nello stomaco.

Shalechet

aiutatemi: che giorno è il 27 gennaio?

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Non è vero che con l’approssimarsi del Giorno della Memoria si moltiplicano gli speciali in tv dedicati all’iniziativa, il mio è una sorta di negazionismo e sostengo questa posizione anche ora, appena dopo aver seguito fino alla fine un documentario su Dachau che, prima di coricarsi, non è propriamente uno spettacolo che ti rimette in pace con il mondo. O meglio sì, sotto un certo punto di vista, ma non voglio rovinare il finale di questo post.

Non è vero, e torno all’incipit qui sopra, ed è facile provarlo perché basta sintonizzarsi su Rai Storia a qualunque ora in qualunque periodo dell’anno. La percentuale di possibilità di trovare un programma sulla Seconda Guerra Mondiale o affini è elevata, d’altronde a volte uno si chiede se ci sia da parlare d’altro trattandosi della madre di tutti i conflitti e, già che siamo in tema, di tutte le campagne elettorali. L’alfa e l’omega di ogni discussione, quello oltre il quale non si può rilanciare e chi lo fa, statene certi, ha simpatie nazifasciste e, come tale, dovrebbe risultare agli antipodi delle vostre frequentazioni. L’argomento che supera in gravità qualunque altra cosa, i film di Tarantino, i saldi, gli zarri come Corona. Provate a inserirvi in una conversazione altrui, per esempio se avete un ufficio dotato di cucina dove in pausa pranzo è facile far parte di crocchi ai tavoli mentre si consuma tutti insieme il panino o la schiscetta. Provate a inserirvi e a dire la vostra sui cadaveri che avete visto la sera prima in tv, che ogni anno con l’approssimarsi del Giorno della Memoria capita che vi cambino l’umore, vi diano il senso delle priorità e ridimensionino alcuni fenomeni di attualità, come la crisi economica, a una gita a Gardaland (cit.), al confronto. Provate a sottolineare il contesto in cui sono stati presentati quei cadaveri, ovvero l’ammasso di cadaveri. Cadaveri caricati a mucchi su pale e depositati in fosse comuni, cadaveri mescolati che non si capisce dove inizi l’uno e finisca l’altro. Ora, a parte essere un tema inappropriato per una situazione conviviale, state certi che nessuno poserà il panino o riporrà la forchetta e si addentrerà con voi in questa riflessione. Anzi, è facile che da quella pausa pranzo in poi i colleghi cerchino di evitarvi.

Possiamo così ammettere che con l’approssimarsi del giorno della memoria su quello che poi alla fine è il mio canale Rai preferito si vedono un po’ meno mascelloni autoritari e traditori in camicia nera della loro gente – che poi la nostalgia successiva ne ha edulcorato la portata creando il mito, anche in questo caso si tratta del mito di un cadavere – e più cadaveri che così cadaveri non li avete mai visti, nemmeno a CSI. Vero? I cadaveri dei campi di sterminio come Dachau che si vedono nei documentari sono più morti degli altri. Così magri, così vilipesi, così omologati e indistinguibili. Così morti. Per questo vorrei rivedere il concetto di iperrealtà, perché non c’è più iperrealtà che la morte ma non la morte normale, bensì la morte che dà vita – per modo di dire – a cadaveri di quel tipo. Ecco, l’ipermorte e i suoi ipercadaveri che sono talmente oltre l’ordinarietà della tragedia che non ce l’immaginiamo nemmeno. E magari quei burloni dei negazionisti e dei nostalgici vogliono forse dirci questo, che si tratta di un punto così sopraffino della crudeltà che non è immaginabile e non attribuibile ad alcuna follia umana, nemmeno quella le cui vestigia oggi troviamo venerate in numerosi gruppuscoli di neonazifascisti che, peraltro, si arrogano la libertà di presentarsi persino alle elezioni e la cui frequentazione e amicizia vi invito ancora una volta a negar loro.

C’è solo un modo, e ve lo suggerisco qualora una di queste sere vi trovaste a seguire come ho appena fatto io un documentario su Dachau, un solo modo per riprendere le fila della storia, capire perché malgrado a molte cose non sia mai stata data la giustizia che meritavano siamo comunque arrivati sino qui, a discutere dei film di Tarantino, della crisi economica o di quello zarro di Corona anziché di ipercadaveri morti in un modo che probabilmente non possiamo nemmeno immaginare, e a permettere a organizzazioni neonazifasciste di fare quello che fanno (hanno persino formazioni musicali atroci, che forse è uno dei crimini peggiori per i quali dovrebbero essere messe alla berlina).

L’unico modo è seguire quei documentari fino alla fine, perché solitamente vengono concentrate per tutta la loro durata le immagini di mucchi di ipercadaveri morti chissà come e la voce di testimonianze dirette, donne e uomini scampati alla ipermorte e che hanno vissuto la loro ipervita fino ai tempi di quello zarro di Corona, e chissà ancora per quanto e quanti ne rimangono. Perché alla fine ci lasciano sempre con parole di speranza, sostenendo che cose come quelle che hanno subito loro non dovrebbero accadere più. Malgrado aver trasportato carrette colme di ipercadaveri verso i forni crematori sono proprio loro ad assicurarci che c’è una speranza. La stessa che si sono inventati per sopravvivere in prigionia e anche dopo, che se avete seguito la logica strampalata di queste mie considerazioni, a questo punto potremmo definire ipersperanza. Quella talmente impossibile da avverarsi che poi succede e vale più di tutto il resto.

difficoltà di concentramento

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Si avvicina il Giorno della Memoria, che come ogni anno cercherò di celebrare rileggendo “Se questo è un uomo” e “La tregua” (almeno spero). La commemorazione è rispettata ovviamente anche dalle scuole, la terza di mia figlia seguirà la proiezione de “La vita è bella”, un film di cui conosce già il contenuto, sua cugina più grande le ha fatto vedere qualche scena in rete e le ha anticipato l’elemento narrativo dell’equivoco intorno al quale si sviluppa la trama. Oltre al film di Benigni, mia figlia arriva al suo primo appuntamento “serio” con le ricorrenze e il relativo approccio della scuola con un’altra opera cinematografica, di cui la prima volta è stata spettatrice assolutamente casuale. Il film in questione è “Il grande dittatore”, a cui si appassionata immediatamente tanto da, in pochi giorni, ripeterne la visione più volte. Sapete come sono i bambini e quanto amino la reiterazione degli stimoli che li solleticano di più.

Il problema è che la microvacanza che abbiamo già pianifcato in primavera a Berlino ora ha un ostacolo. Ho paura che ci siano ancora i figli degli amici di Hitler, mi dice dall’alto della sua ingenuità. Cara, le faccio notare, purtroppo i figli e i nipoti e i pronipoti degli amici di Hitler, ce ne sono stati e ce ne sono tuttora tanti anche qui in Italia, troppi da giustificare se si ripercorre tutto quello che è successo. Ma come non corriamo alcun pericolo, qui, questo è un vantaggio della democrazia, a maggior ragione i Tedeschi oggi non sono più come quelli descritti sul grande schermo da Charlie Chaplin. Nessuno giocherebbe con il mondo in quel modo facendolo scoppiare. Ecco, forse questo non avrei dovuto dirlo, già mentre chiudevo la frase mi sono reso conto di quanto fossi poco convincente, lei non ha detto nulla ma ha percepito che si trattava di un’accelerazione per chiudere il discorso, convincerla sull’infondatezza dei suoi timori e mettere in salvo i biglietti del volo già acquistati. E allora le ho promesso che, una volta in Germania, cercheremo insieme un barbiere che si prenda cura dei clienti così.