l’Installazione Shalechet al Museo Ebraico di Berlino

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Lo stridore si avverte lungo l’area di accesso, credo volutamente disadorna, e se non sai cosa ti aspetta – io non mi ero preparato, per esempio – non capisci quale sia la causa di quel rumore, anomalo in un ambiente museale o comunque per un’installazione. Io l’ho scoperto del peggiore dei modi. Mia figlia è corsa in avanti anticipando mia moglie, me, gli amici che ci accompagnavano, così quando mi sono trovato di fronte all’Installazione Shalechet ho assistito al suo disagio nel percorrere per il lungo quella distesa di volti anonimi forgiati in acciaio, migliaia di concentrati di anime spazzate via con l’Olocausto e sottomesse all’angoscia del visitatore. Il fragore provocato dalle persone che calpestano quel mare di metallo è una sintesi di tutti gli effetti sonori più sgradevoli che le vittime dei lager devono aver subito: vagoni su rotaie, cancelli e catene, armi, schiavitù. Un frastuono impossibile da sopportare e una sensazione di angoscia nell’esserne la causa. Ho fatto di tutto per allontanare mia figlia da lì, la visita al Museo Ebraico di Berlino è già un’assunzione di responsabilità per uno dei crimini più efferati del novecento, ma l’opera di Menashe Kadishman è davvero un pugno nello stomaco.

Shalechet