liturgia della prima domenica di avvento

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Qualche tempo fa, quando è mancato un noto guru della modernità come la intendiamo noi che trascorriamo molte ore qui dietro, ovvero quella fatta di tecnologia, reti intelligenti, socialini e gadgettistica sopraffina dal ciclo di vita illusorio quanto un ghiacciolo quando si ha sete, si è consumato un evento inusitato che ha impartito una lezione a questo mondo fatto di eterni community manager che, non finalizzando per carenza di spazi, risorse e materie prime, utilizzano questo inizio di millennio come un rimessaggio di civiltà in mancanza di meglio. Poi arriva la sciagura che colpisce il malcapitato di turno a ricordare a tutti che si muore anche se rinnega la corporeità, se si è ottimisti sul primato dell’ingegno umano sull’oscurantismo della minoranza scettica di quel terzo di popolazione che ancora non twitta seguendo i programmi tv, se ci si abitua al compiacimento di una fama quantitativa abilitata da strumenti di moda e dall’inclinazione generale a consumare da queste parti il proprio tempo libero.

L’equivoco è stato generato dal fatto che l’Internet è la cosa che assomiglia di più alla vita eterna, in fondo è un mistero molto più di altri portenti che il progresso ci ha regalato. Un’operazione chirurgica in biopsia ha successo solo se chi la esegue ha studiato. Qui no, ci sono cani e porci (annoveratemi pure tra le fila dei cani per incapacità di scrittura o tra i porci per dissolutezza estetica, come preferite) e il caso che muove tutto può essere effettivamente frainteso per un qualcosa di divino e mi sorprende che nessuno se ne sia ancora approfittato.

Quel tecnopensatore a cui ho fatto cenno all’inizio non era già più e ancora venivano pubblicati suoi tweet programmati in precedenza o diffusi inconsapevolmente dai suoi follower. Ditemi se non ha del miracoloso. Questo sistema non è a suo modo una falla per infiltrazioni di sostanza da una dimensione iperuranica? C’è andato vicino Grillo, per esempio, ma ha rovinato tutto perché nel riportare la sua visione sui terreni del reale ha causato per la stragrande maggioranza dei suoi potenziali elettori un corto circuito. Se avesse continuato sull’esoterico avrebbe avuto molto più successo e oggi non potremmo più aprire una qualsiasi pagina di un sito d’informazione senza essere accerchiati dai fanatici squadristi della sua setta. Gente che, morto il router o in un punto qualsiasi affetto da divario digitale, risulterebbe finita quanto frustrata dalla loro dipendenza da connessione continua insoddisfatta.

Probabilmente quello che aspetta gli individui del prossimo secolo sarà un infinito ambiente impalpabile infestato da epifanie di nuove dottrine monoteiste contro le quali nessun anti-virus sarà abbastanza resistente. Questa sarà una nuova chiesa dove ciascun fedele avrà il suo ruolo di raccogliere e divulgare, cosa che si fa già ora ma con evangelizzatori che poi, sorpresi in altri contesti più prosaici, perdono in credibilità. E poi non dimentichiamo che la società in carne e ossa ci deve ancora molto, anche se viviamo in una transizione che ci sta rendendo irriconoscibili ai nostri predecessori, se solo potessero assistere a tutto questo.

Quindi niente, mostrarci accondiscendenti verso strumenti che altro non faranno che accelerare la nostra scomparsa dal pianeta – oltre che la scomparsa del pianeta tout court – non ci rende degni di qualche sconto sul nostro destino. Il solo fatto di impegnarci così tanto in questa redenzione di non so bene cosa non ci dà diritto a nessun privilegio, nessun pass free drink compresi a qualche raduno del jet set duepuntozero, nessuna immunità da epidemie e batteri, tanto meno a una liberazione dal male. Qualunque esso sia.

fanno tre like e un retweet, che faccio glielo incarto?

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Se lavorate nei socialcosi le metriche di successo e di valutazione della vostra professionalità possono dipendere fortemente da quante ditate uno mette sul pollice all’insù e ci sono clienti davvero esigenti in questo come se piacere al prossimo fosse il risultato di un algoritmo. Le scuole di pensiero sono alle curve opposte delle arene in cui si scatena la gazzarra dell’hype nei confronti delle cose nuove che consentono un profitto e tutti hanno la loro ricetta. Ci sono quelli che basta applicare le regole da manuale, ci sono quei pochi altri indipendenti che giustamente invece no, è come quando uno vuole lasciare il partner e il partner dice di rifiutarsi, come se servisse a qualcosa. Il guaio è che stiamo perdendo il senso della realtà perché ci sembra un affronto che il frutto della nostra intelligenza non sia adeguatamente riconosciuto in modo manifesto, ma riflettiamo: siamo così certi che in passato abbiamo sempre detto la nostra o applaudito o fischiato su tutto nella vita reale? Leggo poi di tecno-integrati che si disperano per le quantità di clic e fanno delle statistiche la loro terapia, ci sono anche teoremi su complotti delle grandi potenze mondiali dell’IT che dopo un summit che nemmeno a Yalta toglierebbero manciate di consensi virtuali a questo e quello per spingere gli utenti a investire in approvazioni farlocche. Insomma, se già la pubblicità tradizionale ci dava l’idea di un castello di carta, il sistema dell’advertising sul web ha più le sembianze di una bolla ma nemmeno di sapone, sembra più saliva.

in fondo, il simbolo @ un po’ la A cerchiata la ricorda

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Talvolta l’ingenuità del genere umano di fronte alle enormi opportunità e ai rischi che le potenzialità insite nell’Internet comportano continua a sorprendermi. Gli hacker che rubano le email degli stellari sprovveduti e l’anarchia denunciata da Laura Boldrini sono una presa di posizione lecita quanto inutile, come quelli che si ostinano a dichiarare illegali dei vegetali solo perché a fumarli ti gira un po’ la testa o le manifestazioni per dire no alla povertà. Voglio dire, denunciare un fenomeno a volte suona come cercare di piegare cucchiaini con la forza della mente. Solo Uri Geller ci riusciva, ma con il trucco. La diffusione incontrollata e incontrollabile della rete nostro malgrado non può essere soggetta a limiti o censure, continueranno a perpetrarsi crimini e ingiustizie perché Internet è costituita da grandi piazze frequentate e illuminate come da anfratti bui dove tramare di nascosto, fermo restando che come nella vita reale si possono mettere a segno gesti eclatanti e forieri di conseguenze gravi perché la gente è curiosa e ficca il naso dappertutto, con la differenza che da questa parte delle periferiche è ancora molto facile preservare l’impunità. Mettersi in mostra o cercare la privacy sul protocollo Internet è come dare la propria autorizzazione a questi pericoli e bisogna farsene una ragione, se non si è consapevoli di ciò è meglio non accenderlo nemmeno, il computer, o tornare a un modello di informatica d’altri tempi. Ma, se volete la mia opinione, sempre meglio l’@narchia del faxismo.

dopo il terzo stato va bene tutto basta che il dominio non sia già occupato

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Ogni tanto qualcuno getta la spugna e decide di sospendere le sue attività online. Non mi appassiona più tenere un blog, mi è capitato di leggere proprio ieri l’altro, il rito dei commenti e delle risposte non fa per me, credevo fosse una cosa diversa, occorre troppa abnegazione. Altri invece non reggono l’impegno, sono incostanti, lasciano perdere, non sanno cosa scrivere. Non esultate, voi apocalittici, ché siamo ancora lontani dai suicidi in massa dai social network, anche se poi una traccia ne rimane sempre da qualche parte. Si tratta comunque della povera gente, l’equivalente di quelli di cui già i figli a malapena ricordano la data di nascita quando lasciano la realtà quella vera. Restano invece le personalità che oggi ai più piace chiamare influencer che continuano senza sosta e talvolta con uno stipendio a descrivere il mondo con tutte le parole che hanno a disposizione e quelli che magari sono rimasti zitti per quarant’anni e poi hanno deciso di vuotare il sacco, io per esempio ne conosco uno. Perché poi chi ci vuole bene e ci conosce da sempre, ci chiede se a casa abbiamo ancora qualche strumento musicale, per esempio, perché sa che un tempo davamo fiato al nostro disagio così, con quel rumore che poi da grandi abbiamo imparato a maledire per via dei disturbi all’apparato uditivo. Ma abbiamo venduto tutto per comprarci un videoregistratore, un microonde, un fasciatoio portatile. Per non parlare della poesia. Certi giorni viene da bestemmiare, altro che. Aspetti il treno che è in ritardo di quarantacinque minuti e speri che almeno la causa sia che abbiano tirato sotto chi fa gli orari, il tutto a meno due gradi e c’è lo spread che ti sta appollaiato sulle spalle come un avvoltoio in attesa che tiri le cuoia e sfido a trovare chi sia in grado di esprimersi in esametri. Un haiku con un elemento della trinità in ogni verso, ecco, al massimo. No, non lasciateci soli a lanciare le nostre invettive a cazzo contro tutto e tutti, a sputare sentenze con i nostri pregiudizi che altrove non ci ascolterebbero nemmeno i risponditori automatici dei servizi clienti nei giorni festivi. Restiamo uniti, ché mai come ora potremmo essere così decisivi, o popolo di Internet.

campominato.exe

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Che ora per essere polically correct si chiama prato fiorito ma aver cambiato solo il nome non ha variato la sostanza. Se prima facevi un passo falso saltavi in aria, il che era un disastro, ma ora se sbagli a mettere il piede finisci su una “busa” di vacca il che non è una bella esperienza se calzi infradito, ma ti possono anche capitare le zecche se il prato fiorito si trova nei pressi di una zona boschiva alla mercè di animali facili prede di parassiti. Ma la dinamica è la stessa, fai attenzione alla prossima mossa perché se non usi l’arguzia tutto è contro di te e nel gioco puoi fare partite all’infinito ma nella vita sei spacciato o al massimo trovi persone ben disposte a sopportarti. E come difficilmente tieni uno storico della tua attività con i giochi di sistema di Windows così non è facile ricordarsi di quando qualcosa è esploso sotto di te o più verosimilmente hai inavvertitamente schiacciato un lascito canino per strada che nell’immaginario collettivo è l’errore per antonomasia – si dice che porti fortuna ma non ci ho mai creduto – e allora se procediamo per metafore ci vorrebbe ben altro che un blog per contenerle tutte. Continua a leggere

solitario.exe

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La rete inizia ad avere maglie sempre più ampie da quando i socialcosi ci hanno disabituato a filtrare quello che ci siamo lasciati alle spalle. Strumenti come Facebook sono diventati agglomerati di contatti in cui colleghi delle precedenti aziende in cui abbiamo lavorato siedono a fianco dei compagni del liceo inframezzati da emeriti sconosciuti che abbiamo raccolto a bordo perché condividono con noi la passione per una band o perché hanno messo un like a un pensiero condiviso, decontestualizzando una conversazione tra due che qualche grado di separazione ha reso di pubblico dominio. Centinaia di fototessere che vanno a comporre un quadro di relazioni improbabili tanto ne abbiamo perso il controllo, la causa di cui va ricercata nella nostra bulimia di stringere mani e presentarci come se là fuori non aspettassero altro che seguire i nostri aggiornamenti. Il problema quindi torna ad essere di qualità e non di quantità anche nei rapporti interpersonali virtuali, ma costretti a un sistema economico che ci impone di fare numero nei manufatti fabbricati come nei clic a una pagina web o come nelle persone da trascinare dentro a una discoteca abbiamo acquisito una forma mentis tale per cui la possibilità di scelta ci manda in tilt e così scegliamo tutto, per non sbagliare. Tutto quello che c’è a disposizione lo mettiamo nel piatto probabilmente perché siamo nati poveri anche nello spirito e il concetto distorto di amicizia sublima nel calderone del web, dove seguiamo gli schiamazzi e ci mettiamo dove c’è più rumore, per sentirci meno soli. E pensare che un tempo era sufficiente tenere la tv accesa.

faccio cosa

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Per chi come me vende fumo, non nel senso del fumo quello buono ma nel senso di lavorare nel marketing e nella comunicazione, imbattersi in gente che lavora per davvero genera sempre una grande meraviglia, fa crescere la fiducia verso il prossimo e permette di aumentare la consapevolezza che qualche speranza di salvarsi il mondo in cui viviamo ce l’ha. La mia reazione di fronte alla molteplicità delle professioni esistenti al mondo che non hanno a che fare con quello di cui mi occupo io è poi come quella di un bambino che vede l’oceano per la prima volta, l’infinito imperscrutabile dell’operosità concreta dell’uomo che la dimensione on line spesso ti fa perdere di vista. Abbiamo più volte appurato che a partire dalla presa di rete in poi ci sono ben più di tutti gli universi che ci sforziamo di immaginare, il problema è che a volte sembra che siamo tutti noi che in Internet ci lavoriamo a cantarcela e a suonarcela, a dirci vicendevolmente che è un territorio profittevole solo per convincere chi non si fida ancora del tutto. O forse solo per rassicurarci sul fatto che stiamo lavorando per davvero. Se mettete in fila tutti i job title di una agenzia digitale qualunque trovate di quelle cose che voi umani non potete nemmeno immaginare. Ma nel mondo al di qua della presa di rete, a scorrere le voci di cui si compone un qualunque elenco di settori professionali ci si perde più che nello spazio incommensurabile di cui sopra, per questo può esser utile fermarsi punto per punto e vedere quali sono i prodotti di ognuna di quelle attività.

Scopro così l’ingegnere biomedico che progetta supporti ortopedici e opera nella ricerca e sviluppo di prodotti sempre più avanzati. Un lavoro così direttamente legato al benessere del genere umano, alla sua evoluzione e al miglioramento della qualità della vita suscita in me grande ammirazione. Oppure progettisti di interni specializzati negli arredi delle biblioteche, un business così verticale che faccio fatica a capire come si possa tirare avanti, voglio dire non è che ogni mese c’è una biblioteca da costruire o da rinnovare, no? Così quando cammino tra le centinaia di persone che ogni giorno i mezzi pubblici riversano nel centro di MIlano provo a pensare a tutte le storie interessanti di cui sono protagoniste, magari lavori veri, quelli che consistono nella costruzione fisica di cose e oggetti, chissà, e mi verrebbe voglia di chiedere a tutti ma voi che lavoro fate, e se è come penso continuate a farlo, perché se tutti stanno seduti come me a raccontare il lavoro degli altri ottimizzato per il web nessuno fa più nulla e così non c’è più nulla da dire, se non parlare in rete della rete in un ripetersi infinito di poco più di niente.

una comunità, o meglio un centro di riabilitazione

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L’ultima bussola di Ilvo Diamanti fa il punto su quella che potremmo definire in termini molto generali la galassia Zuckerberg, l’insieme dei mezzi di comunicazione personali che ha dato una seconda possibilità a timidi e sociopatici nell’ampia gamma di disturbi da contatto interpersonale diretto. Dialogare punto-punto o punto-multipunto per interposto dispositivo ha parcellizzato quel tessuto di rapporti che già la televisione aveva disgregato dando il colpo di grazia su quel luogo comune dell’uomo come animale sociale, tantomeno socialista. E mentre mia moglie mi legge l’articolo durante la consueta rassegna stampa da colazione nel dì di festa, con il piglio di chi appartiene al partito degli apocalittici pensando di fare breccia su un tesserato del movimento degli integrati, e penso che dovrei riportarlo in qualche modo qui, rifletto sul fatto che Ilvo Diamanti tutti i torti non li ha, lo condivido in pieno a parte alcuni passaggi intrisi di un trombonismo un po’ matusa. Ma non sarei così manicheo. Tra chi intravede la catastrofe e il bimbominkia affetto da dipendenza questa comunità comprende anche individui intelligenti che usano il mezzo anziché esserne in balia, ora sui due piedi non mi viene nemmeno un esempio da farvi però sono sicuro che là fuori qualcuno c’è.

tutto qui

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Che poi, e mi riferisco a quanto ho scritto qui sotto, stiamo tutto il tempo a raccogliere informazioni, un vero e proprio bombardamento, e le stipiamo tutte in una memoria volatile perché oramai l’intelligenza non consiste più nel ricordare l’informazione ma nel sapere dove cercarla su Internet. E, a dimostrazione di questo, per esempio in questo momento non mi ricordo assolutamente dove ho tratto questo concetto, dove l’ho letto, e provo a cercarlo con Google ma non lo trovo e in questo caso come mi devo considerare? Io che non sono un nativo ma un uomo digitale di mezza età ho ancora un po’ di forma mentis del secolo scorso e qualcosa ogni tanto mi rimane in testa. Poi penso ai mali della vecchiaia, purtroppo ne ho un caso molto vicino, e mi chiedo che succede se dopo che hai accumulato dati importanti, come i ricordi di una vita, un bel momento resetti tutto e quando ti portano in giro vedi le cose come se fosse la prima volta, ogni volta. Noi cresciuti informatizzati avremo tutto qui, su questo coso che registra ogni input gli invii da una tastiera. Ho anche letto che le esperienze di blogging hanno il valore di dare una sistematizzazione e mettere al sicuro una serie di contenuti, magari tutto quello che è successo prima, in alcuni casi quello che succede contestualmente, in altri quello che verrà dopo. Con il vantaggio, parlando per il futuro, di avere già qualcosa di pronto da ricordare nel caso si guastasse il disco fisso che si ha in testa, e qualcuno di molto vicino chiedesse di raccontargli una storia.

webburger

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Con la privacy su Internet ho un rapporto un po’ così, sono piuttosto distratto e, per svariati motivi, dalla prima volta nella mia vita in cui ho compilato un form on line – almeno diciassette anni fa – ad oggi credo di aver lasciato i miei dati ovunque. Insomma, se siete un po’ sgamati su Google è facile scoprire come mi chiamo, fermo restando che queste cose che scrivo vengono pubblicate (per mia scelta) su alcuni social network, in alcuni dei quali sono iscritto in chiaro, per così dire. Poi, una volta ottenuto il mio nome e cognome, è altrettanto facile googlarmi e trovare numerose informazioni sul mio percorso professionale, qualche recensione musicale o letteraria, qualche comparsata su forum e commenti vari. Se tornassi indietro non credo che farei diversamente, cioè non vedo la mia presenza in rete diversa dalla realtà, dove ci sono persone che mi conoscono, mi incontrano e mi salutano. Con alcune chiacchiero – poche, eh – altre sanno chi sono, ci sono quelli che mi conoscono dalla prima elementare e quelli che sanno a malapena il mio nome, e così via.

Voglio dire, l’invisibilità su Internet è una missione, un impegno che richiede mille attenzioni e una gran dose di intelligenza e prontezza, troppo per chi come me sul web ci lavora e trascorre una elevata percentuale del proprio tempo. E dubito che la totale assenza da anche un solo data base in qualche server sperduto del pianeta sia possibile, ammiro chi vi riesce ma ho l’idea che sia un obiettivo perseguibile solo evitando di aprire anche una sola pagina di un browser in vita propria. E in parte accade lo stesso per chi immette contenuti attivamente, con nick, alias e talvolta fake che conferiscono uno status illusorio di non riconoscibilità, perché poi alla fine un dato di registrazione, magari solo con l’esercizio del potere, lo si riesce a far coincidere con un dettaglio anagrafico e si giunge a destinazione.

Lasciare tracce di sé in fondo è un comportamento inconscio per depositare qualcosa di noi qui dentro, iniettare germi anche solo col desiderio che restino congelati in una provetta o in un bozzolo da qualche parte, pronti a essere risvegliati per fecondare qualche iniziativa più in là. Poi ci sono quelli che lanciano semi a casaccio sperando che si moltiplichino e si diffondano da sé, la rete continua la sua attività anche a pc spento, una forma di sperimentazione di forme di vita intelligente che può essere rischiosa, se ne può perdere il controllo e causare un’esplosione nucleare (virtuale) a nostra insaputa dall’altra parte del pianeta. In ogni caso noi viviamo anche qui dentro, da qualche parte, in server che danneggiano l’ambiente con la loro footprint magari proprio in quell’isola felice di una delle più brutte pubblicità di Internet Service Provider mai realizzate dall’umanità. E per ciò che riguarda contenuti pubblicati e responsabilità relative siamo nell’ambito del buon senso comune, che se non sbaglio c’era anche prima.