ecco cosa succede ogni volta in cui qualcuno sceglie un pezzo di Bowie come colonna sonora di un film di fantascienza

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I due momenti che nel film “Sopravvissuto” o “The Martian” costituiscono il punto massimo e quello più scarso dal punto di vista del coinvolgimento dello spettatore sono quando parte “Starman” di David Bowie e proprio alla fine quando lo schermo si fa buio e inizia “I will survive”. Il perché lo capite da soli: quando viene scelta una colonna sonora composta da canzoni provenienti da altre epoche o comunque pubblicate con altri intenti a fare da sottofondo a un film del 2015 con Matt Damon è il segnale che nemmeno a Hollywood o da quelle parti è sopravvissuto qualcuno con un gusto sufficiente a non farcire le storie per il grande schermo con canzoni così didascaliche e invece sono passati tutti ai prodotti per il piccolo schermo, le sempre più numerose serie tv che probabilmente rendono profitti più interessanti, in questo momento storico. Per il resto la storia di un uomo solo su un pianeta ostile ci lascia porre tutte le domande senza risposta che ci vengono in mente di fronte all’incommensurabile. C’è stato anche un momento in cui la terra è stata abitata da un solo esponente del genere umano oppure davvero una specie si evoluta non si sa bene come a tal punto dall’assumere sembianze come le nostre? Nel primo caso, a meno che non fosse uno come il protagonista del film di Ridley Scott che, forte della sua laurea in biologia, si è arrangiato con una coltivazione di patate marziane, ci sarà stato il momento in cui l’uomo – o la donna, certo – n. 1 ha provato tutte le cose che costituiscono la quotidianità tipica della nostra specie per la prima volta. Provate immaginare alla prima volta in cui ha avuto sonno. Magari credeva di morire soggiogato da questa forza sconosciuta che cercava in ogni modo di sottrarlo alla vita, temendo di spegnersi per non risvegliarsi più. A noi sembra una cosa normale perché ci siamo abituati e anzi, non vediamo l’ora che sia il weekend per esercitare questo che resta comunque uno dei migliori passatempi il più possibile, sul divano e con un paio di gatti sulla pancia. O anche, e scusate la bassezza dell’argomento, la prima volta che al primo uomo o donna è scappata la cacca. Lo so che fa ridere, ma se ci pensate è una cosa seria. Il nostro archetipo avrà patito le pene dell’inferno preoccupato per quello stimolo sconosciuto con cui una parte di sé faceva di tutto per abbandonare il suo corpo. Se vi sembra una cosa stupida allora vi riporto su temi di più alto livello: se è comparso di botto l’uomo sulla terra perché è stato creato d’emblée, è stato appunto messo qui già adulto o neonato? Se era neonato era da solo? Come ha fatto a soppravvivere? Se era adulto era un uomo primitivo o già evoluto come per esempio i fenici o gli ittiti? Facile dire che l’uomo è caduto sulla terra, perché tiriamo di nuovo in ballo David Bowie e meno male che come pezzo di Matt Demon che si sa se verrà salvato non è stato scelto “Space Oddity”, che invece poteva funzionare nella sua versione in italiano “Ragazzo solo, ragazza sola”, più solo di così.

aldiqua

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La vita, o l’esistenza di qualche cosa dopo la morte è un tema così banale che rende ogni tentativo di narrazione creativa superfluo. Non per Clint Eastwood. Hereafter, visto ieri, è un gioiello cinematografico, un film da 5 stelle che però, come scrive Curzio Maltese su Repubblica, non è solo un bel film. Il dubbio laico che si insinua dopo la visione non è tanto se esista o meno l’infinito spazio luminoso in cui si intravedono miliardi di persone quando i nostri sistemi vitali vanno in stand-by, per un istante, quindi riaccesi dopo l’esperienza del tunnel con luce bianca eccetera eccetera. La componente sovrannaturale passa in secondo piano, il vero miracolo è la nostra vita, già di per sé, ciò che si attraversa e in cui ci si cimenta. E raggiungere il traguardo non ha importanza. I tre protagonisti della storia convergono infatti in una esperienza umana, che è quella dello stabilire un contatto con una dimensione ancora fisica, la morte o la vita, si piò chiamare in entrambi i modi, che in sé comprende anche il dopo. Ma il contatto è tra corpi, anima inclusa. Collisioni che generano reazioni a catena, nella storia e nello spettatore. Aldilà siamo altrettanti che aldiqua. Che ci sia poi una cooperativa autogestita o una corporation con CEO e consiglio di amministrazione poco importa. Se il sistema si arresta del tutto, o, peggio, si tratta solo di una formattazione dell’hard disk, non ce ne accorgeremo.