i miracoli secondo Kaurismaki

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Se, come me, avete visto Welcome, il film di Philippe Lioret che fa da scenario al tentativo fallimentare di un giovane clandestino di raggiungere il Regno Unito a nuoto da Calais, e vi è rimasto quindi un conto aperto con il cinema in generale per non aver provveduto a un lieto finale almeno lì dove la finzione dovrebbe fare da antidoto alle nostre coscienze al caldo, ecco finalmente la rivincita. Miracolo a Le Havre è un film sorprendente soprattutto per la naturalezza con cui Kaurismaki innesta il proprio mondo, quello che si porta appresso in tutta la sua filmografia, in un tema urgente e attuale come l’immigrazione, la sfida delle umanità più povere di superare l’inaccessibilità delle barriere dell’occidente europeo e di arrivare alle nostre, di povertà. Perché ci sono le facce da film di Kaurismaki, innanzitutto, che non si trovano in nessun altro lungometraggio e ci si chiede in quale realtà parallela riesca a trovare un tipo di sottoproletariato così fedele alla realtà e perfette per il messaggio da trasmettere. C’è quindi una dimensione in cui il tempo si è fermato ad almeno trent’anni fa fatta di telefoni a disco, automobili e autobus e i rivestimenti stessi dei sedili di altri tempi, bar, dialoghi e musiche da jukebox e c’è una storia di solidarietà tra gente al di sotto del comune, quella sì senza tempo. Sono pochissimi gli elementi in grado di riportare lo spettatore alla realtà, forse il blu delle tute degli agenti che perquisiscono le case alla ricerca del giovane Idrissa, il colore dell’esercizio del potere che non ammette eccezioni. Ma alla fine anche loro, gli agenti, devono arrendersi alla visione di Kaurismaki. Nemmeno un personaggio da odiare, neanche il delatore perché scopri poi trattarsi di un attore in arrivo direttamente dai film di Tuffaut. Nemmeno l’investigatore che sembra cattivo ma che poi condivide con il protagonista, Marcel Marx di professione lustrascarpe, la complicità di quei bassifondi francesi di una volta nei quali manca solo un cameo di Jean Gabin, in un angolo al bancone con la sigaretta accesa a sorseggiare un pastis.