tracce di sé

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Tanto tanto tempo fa, quando la dematerializzazione poteva sembrare una disciplina tratta dalla trilogia della fondazione di Asimov e i computer, nell’immaginario collettivo, avevano le sembianze degli astrusi congegni animati nella sigla del professor Balthazar, il trasferimento di informazioni tra fonti analogiche avveniva per forza di cose in tempo reale. In parole povere, se un amico ti chiedeva di registrargli Supper’s Ready dei Genesis, non c’era copia e incolla che tenesse. Il processo durava tutti i 22:58 della durata del brano (non che non facesse piacere riascoltarlo per l’ennesima volta), e un paio di secondi dopo la fine, onde evitare la registrazione del fruscio del vinile, dei solchi vuoti e del rumore la puntina a fine disco sulla cassetta, occorreva star lì pronti a premere il tasto pause del registratore.

Riversare un intero 33 giri su nastro era un segno di amicizia. La creazione di una compilation era invece una vera e propria prova d’amore. Promettere a una fidanzata o, meglio, a una prospect, anche solo una C60 con la colonna sonora della propria vita, una sorta di curriculum esistenziale in canzoni sparse, volto a fare breccia nel cuore dell’oggetto dei desideri, era molto più di un impegno. Perché l’attività poteva anche occupare un pomeriggio intero, e nella maggior parte dei casi si trattava di un sacrificio non richiesto, uno spreco di tempo il cui prodotto finiva, mai ascoltato, nell’oblio di un cassetto del comò, pronto a essere mostrato con imbarazzo solo in caso di richiesta dell’amica del cuore o destinato al riciclo – ancora peggio – per ospitare il nuovo disco dell’Eros Ramazzotti di turno. Fermo restando che con una che ascolta Eros Ramazzotti non mi ci sarei mai messo (e viceversa, anzi più realistico il viceversa).

La C90 era più vincolante di un anello con diamante, le C120 invece fuori gara: c’era il rischio di rovinare le testine e nessuno avrebbe anteposto una donna all’incolumità del proprio impianto stereo domestico. Ma anche solo una C45 implicava una serie di lavorazioni di tutto rispetto. Primo: la scelta dei brani e la scaletta. Cercare e radunare tutti i dischi, fare una cernita delle canzoni, sommare la durata complessiva, quali tracce escludere, valutarne l’impatto, equilibrare atmosfere, bpm e silenzi, dice più cose di me questo o quell’altro pezzo e così via. Alcuni, per puntare al massimo del risultato, baravano e mettevano le canzoni che sapevano piacere alla persona su cui fare colpo, vendendo l’anima al profitto. Questo si chiama marketing, ma per i puristi non era da prendere nemmeno in considerazione. Una storia d’amore non poteva certo iniziare sulla finzione, l’onestà intellettuale imponeva che i brani fossero scelti secondo il proprio vissuto e di tracciare un profilo il più adiacente possibile alla propria sensibilità. Fare sì che la persona bramata potesse sospirare nella solitudine della cameretta, mentre traccia dopo traccia si schiudeva la porta del cuore e si creavano i presupposti per un tragitto senza possibilità di ritorno. Come si chiama questo pezzo? E chi lo canta? Per questo era decisiva anche la copertina: i meno estrosi sfruttavano le righe e il dorso della label, il che consentiva l’archiviazione categorizzata, se non omogenea per marca, della cassetta. Rischioso, ma di sicuro effetto, il booklet autoprodotto e la scelta di un titolo creativo con cui sintetizzare lo spirito della compilation, da disegnare e colorare sul lato esterno con i titoli delle tracce, utilizzando così la parte interna per un messaggio personalizzato, rendendo il prodotto ancora più efficace. Ora, sarò esagerato, ma ditemi: spostare giga di file mp3 da un hd a un altro è altrettanto romantico?