echi di un tempo indeterminato

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Un ex collega che è in ferie mi ha detto che appena rientrerà in ufficio la prima cosa che farà sarà far sapere al suo responsabile che vuole delle casse per non esser costretto ad ascoltare la musica in cuffia mentre lavora, io gli ho risposto che ne approfitterò per chiedere un poster di David Bowie da appendere alle mie spalle in modo da dare la possibilità a chi entra nella stanza senza conoscermi di avere almeno un argomento di conversazione. Questo sì che è un efficace biglietto da visita e, mi spiace dirlo, ma il mio ex collega si è confermato in tutta la sua prevedibilità. Ci conosciamo troppo, tutta colpa delle dimensioni dell’ambiente di lavoro minuscolo che ci accomunava. Ho partecipato invece a una riunione nella sede di un nostro cliente e la persona che ho incontrato – non l’avevo mai vista prima – oltre a stringere la mano a me si è presentata anche a un suo collega di un altro dipartimento della sua stessa azienda, che lavora nello stesso edificio. Possibile che non si fossero mai e dico mai incontrati prima? Sono lì da anni e non c’è mai stata un’occasione in cui i due non abbiano mai avuto modo di conoscersi? È una dimensione che ai sempliciotti come me manca completamente, quella delle grandi aziende popolate da centinaia di persone che occupano palazzi interi del centro o che hanno una sede tutta loro in uno di quei paesi dell’hinterland che non hanno una separazione geografica ben definita da Milano, viale Fulvio Testi in primis. Pensate anche a quanti amori sbocciano in quelle realtà, di gente che si accoppia nelle multinazionali e manda a ramengo il matrimonio precedente sono piene le pagine Facebook.

I nostri genitori che hanno lavorato sessant’anni nello stesso posto e a malapena hanno visto l’Office Automation sostituire le macchine da scrivere elettriche si portavano dietro gli stessi superiori e pari livello per tutta la vita. Mia mamma si sente tutt’ora con la sua dirimpettaia di scrivania, anche se è conciata piuttosto male per tutti i problemi di salute che ha avuto. In una delle primissime agenzie che si è avvalsa della mia capacità di creare problemi avevo addirittura trovato il mio ex allenatore di pallacanestro, quello che quando facevo le medie e già ero abbastanza frustrato dal bullismo anche se allora non si chiamava ancora così, poi per almeno due ore per tre pomeriggi la settimana mi trovavo lui davanti in palestra che mi tirava le palle da basket – seconde a peso solo alle palle mediche – addosso durante l’allenamento quando sbagliavo a muovere il polso nei tiri da distante. Oggi invece quando vado a trovare Fulvio che lavora in RCS o quello che ne rimane mi stupisco della moltitudine di persone che operano lì e che popolano la mensa, ne hanno addirittura due. Tutti colleghi che non conosce, alcuni anche volti noti che ogni tanto si vedono alla tele, alcuni li saluta altri no, e mi chiedo se sia questa la vera distanza tra il mio provincialismo professionale ed essere nei posti che contano. Secondo me lavorare in una grande azienda è meglio e trovi gente più elegante, nel mio ufficio siamo in quattro gatti, io li conosco tutti, sappiamo ogni cosa l’uno dell’altro anche se non ci parliamo granché, anzi con alcuni proprio per niente.