al mercatino del modernariato sociale

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Le cose del passato si pagano care e ci si pente di non averle comprate prima quando costavano il giusto, ma prima erano la normalità e uno non ci fa caso agli aspetti del quotidiano che poi finiscono per fare la storia. Pensate a quella grande chiesa che parte dalla radio Brionvega al numero uno di Dylan Dog passando per lo spremiagrumi Atlantic e Unknown Pleasures dei Joy Division. D’altronde ci vuole un bel fiuto per intercettare quello che potrà un giorno, ma chissà quando, diventare oggetto di culto e valere un bel gruzzolo. Ci pensavo oggi scartabellando proprio in uno scatolone di cartone zeppo di trentatré giri in un negozio di vinile usato. Mi sarei comprato un sacco di roba ma, diamine, che prezzi. Soprattutto di certi dischi che quando sono usciti costavano settemila lire – ve lo ricordate? – e oggi almeno nove o dieci volte tanto.

Se fossi un figo li avrei comprati allora, ma se non l’ho fatto è stato perché o non lo ritenevo fondamentale oppure non avevo soldi da parte da buttare via. Un sistema di valutazione, quello di far leva sulla nostalgia altrui, che purtroppo può essere applicato in ogni ambito merceologico. Se girate per le bancarelle dei rigattieri e i mercatini delle pulci vi accorgerete che la lampada che vi sembrava un obbrobrio pacchiano degli anni 70 con quei colori impossibili da abbinare e che i vostri genitori usano nella casa di campagna capovolta come vaso per gli attrezzi da giardino, ora che vorreste averla perché era la vostra alleata per sconfiggere la paura del buio, non ve la molla nessuno per meno di centocinquanta euro. Una volta ho scoperto che mio padre prima ha riciclato degli avanzi di piastrelle originali dei primi del novecento per potenziare la tenuta dei canali di irrigazione del suo orto, quindi sono riuscito a fermarlo in tempo prima che segasse le gambe da una credenza liberty di artigianato locale perché, dovendola spostare in un’altra stanza, non passava sotto lo stipite della porta e non voleva farsi aiutare da nessuno per inclinare il mobile sul fianco.

Potenzialmente ciascuno di noi ha dilapidato un patrimonio solo per aver ceduto alle comodità del riflusso o, peggio, a cose come il low budget dell’Ikea e i compact disc. Ho provato così a intendere in senso lato questo concetto, quello per cui una cosa del passato per la quale non abbiamo avuto l’intuizione che fosse un qualcosa di valore e non ci siamo curati che si guastasse, che andasse in malora, che dovesse essere conservata, oliata, rimessa in sesto ogni tanto, utilizzata per non lasciarla desueta, prima o poi si finisce di rimpiangerla. Ho pensato a un certo modello di democrazia, di partecipazione, di senso dello stato. Provate a immaginare quanto ci potrebbe costare, oggi, comprarci come eravamo prima in un negozio di modernariato come quelli che, nei quartieri trendy, sfoggiano in vetrina i mobili di design scandinavo degli anni sessanta.

stay hungry, stay fighetti

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Chissà quanto manca al momento in cui in Parlamento qualcuno dirà a qualcun altro che è un “tamarro”, o si accuserà la fazione opposta di “tirarsela” troppo. “Hey tu grillino fai meno lo splendido”, ci si potrà appellare così a un diritto di riportare con i piedi per terra chi fa voli pindarici (lasciando scie chimiche). “Bella storia” sarà il commento da riservare agli interventi di particolare gradimento, quando ci si attarda con gli emendamenti il presidente della camera potrà chiedere ai capigruppo di interrompere l’ostruzionismo accusandoli di aver “asciugato” gli astanti, mentre “zio” risolverà tutti i problemi di appellativo con cui far precedere i cognomi di deputati e senatori e mandare in pensione finalmente l’obsoleto e ostico onorevole. D’altronde, nessuno fino ad ora ha mai lavorato “a manetta”, anzi certi provvedimenti sono stati presi “a muzzo”. “Che babbo”, così quelli della maggioranza stroncheranno quelli dell’opposizione dopo l’ennesimo intervento all’insegna dell’ingenuità politica che magari non c’entra “una cippa di minchia”, obiezione che verrà messa agli atti. Insomma, sarà il Presidente della Repubblica a dire che il governo si “incista” su temi di scarsa utilità e inviterà tutti a non “paccare” la stabilità, l’Italia ne ha bisogno per far andare l’economia come una “lippa” altrimenti si dovrà tornare “tipo” alle elezioni. “Tranqui”, nessuno lì vuole perdere il suo posto.

troppi dj, pochi amministratori

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La disaffezione alla politica e il malcontento qualun-vegan-animal-sciochimichista ha spinto un bel po’ di persone nella morsa pentastellare ma, ancor più, nel pantano dell’astensionismo che, giusto per ricordarlo, ormai raccoglie quasi un italiano su due o poco più. E se sono in così tanti che non hanno per le balle di votare, è facile immaginare quelli che impegnarsi in politica in qualsiasi forma non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Le cause vanno ricercate senza dubbio nella fiducia verso i partiti o qualunque forma di associazionismo a fini rappresentativi, oggi pari a zero. Ma se io non mi rifiutassi già di dedicarmi a qualunque forma di rappresentatività perché in tale caso rischierei di sottrarre tempo utile al mio egoismo di fondo che mi spinge a privilegiare quello che reca giovamento solo a me, sono certo che rifiuterei di candidarmi a qualsiasi carica pubblica perché, fondamentalmente, di rappresentare molta della gente che vedo in giro non me ne importerebbe nulla. A prescindere dal fatto che molta della gente che si vede in giro non è gente che voterebbe per me. Ma voi lo fareste? Vi impegnereste per il bene comune di persone che lo dilapidano, lo pasticciano, se lo intascano per fini personali, lo nascondono a chi ne avrebbe diritto? Non dimentichiamo che poi gli amministratori pubblici, locali e centrali, sono tenuti ad amministrare tutti, anche quelli di cui non hanno ottenuto il voto. Quindi sottrarreste tempo alla vostra famiglia per chi veste D&G, per chi segue Amici, per chi percepisce privilegi a cui non ha diritto, per chi fa le foto alle barche ormeggiate a Porto Cervo, per chi si riempie di tatuaggi, per chi non ufficializza uno status famigliare per godere delle esenzioni riservate ai bisognosi, per chi ascolta il rap italiano, i metallari e chi ti saluta con “buona vita”? C’è poco da dire, io vi dico già da subito di no ma non ho lo spirito del crocerossino e non faccio testo. D’altro canto, invece, l’Italia pullula di dj. Avete letto bene. Un tempo per fare il dj dovevi spendere centinaia di migliaia di lire in dischi da portarti appresso e non ce n’erano mai abbastanza. Oggi con un portatile e uno di quegli alambicchi che li colleghi via usb puoi avere a disposizione tutto lo scibile musicale universale e scegliere di mettere musica anni 80, ma perché l’hai scelto veramente scartando il resto dello scibile. Quasi dimenticando che poi la differenza la fa saper distinguere un battere da un levare, i BPM, magari dare un senso e una successione logica alla scaletta e non semplicemente mettere a cazzo una canzone dopo l’altra solo perché in comune hanno il fatto di essere musica e di avere una batteria preminente su tutto il resto. Qualche sera fa ho partecipato a una festa e su trenta persone di dj ce n’erano almeno quattro. Una percentuale di tutto rispetto, il 13%. Quasi un partito politico.