ecco perché gli anni ottanta hanno rotto il cazzo, ma anche i saldi non sono da meno

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Non mi accorgo subito del pezzo, in genere riconosco le canzoni dalla prima battuta e questa vi posso assicurare che si tratta di una dote che farà di me un volto noto della tv nazional-popolare quando un giorno si decideranno a rifare il Musichiere, ma come potete ben immaginare saperle proprio tutte è quasi impossibile. Ho i miei punti di forza, le mie aree di eccellenza, rimango tutt’ora convinto di essere la persona più competente in ambito musicale che io conosca, ma stavolta ho toppato.

La delusione è duplice perché la signora in coda davanti a me sta ballando a tempo con il suo cane in braccio. Che poi definirlo cane si fa fatica. Se ne è stato per un bel po’ accoccolato vicino al collo della padrona e con il muso invisibile, nascosto nell’ammasso di pelo, immobile da sembrare un collo di pelliccia. Quando inconsapevolmente viene sballottato a ritmo di musica rivela tutta la sua pucciosità, anche se io non la colgo perché non ho un buon rapporto con gli animali ma diverse commesse e gli altri che sono lì in attesa di pagare i capi di abbigliamento in saldo scelti si superano in moine, versi, vezzeggiativi e smancerie che mi fanno rimpiangere i tempi di guerra in cui nessun tipo di bestia veniva risparmiato per sopravvivere alla fame, altro che la crisi in cui versa il nostro occidente industrializzato che, a quanto vedo intorno a me, non sembra voler rinunciare a un ricambio del guardaroba.

Comunque, per non essere da meno e non sembrare insensibile, mi lancio in un tentativo di socializzazione chiedendo alla donna tutta orgogliosa del suo cucciolo a quale razza canina appartenga quel minuscolo esemplare di toporagno che tiene in braccio, a mio giudizio inguardabile e insulso nella sua piccolezza. Se un giorno prenderò un cane, e questo consideratelo un periodo ipotetico dell’impossibilità anche se forse i tempi verbali non corrispondono alla regola, quel giorno prenderò un San Bernardo o un cane di taglia gigantesca, perché così devono essere i cani. Perché altrimenti, se mi fanno paura le dimensioni, continuerò con i gatti.

La signora, lusingata dalle attenzioni di un uomo distinto come il sottoscritto, si rivela proprietaria di un volpino di Pomerania, mica cazzi, un volpino di Pomerania che nella mia ignoranza non ho mai sentito nominare in vita mia e che solo prima di accingermi a scrivere queste righe ho scoperto che Google lo riporta come primo suggerimento non appena si imposta la ricerca con il termine chiave “volpino”. Non solo. Come seconda informazione si trovano anche dettagli sul prezzo, dai € 1300 in su. Non so voi, ma se avessi un cane così in casa passerei il tempo a cercare di non calpestarlo, sai che danno.

Comunque, mentre immagazzino una delle principali nozioni utili della giornata, la canzone di cui non mi sono accorto subito ha svelato la sua identità, e cioè “Dolce Vita” di Ryan Paris, al che non posso che essere severo con me stesso. Avrei dovuto aspettarmelo, dopo “People from Ibiza”, i soliti Via Verdi di “Diamond” e un altro paio di oscenità italo-disco che mi riportano subito ai tempi dei sofferti primi pomeriggi in discoteca: io che bramavo qualcosa dei Depeche Mode o dei New Order per distinguermi un po’ dagli amici tamarri che invece, con la loro competenza da Dee-Jay Television, beccavano molto più di me.

Così, mentre la mia attenzione dal mini-cane si sposta in basso sui leggings fantasia che la signora, obiettivamente, non si può proprio permettere data l’età e la stazza, penso che gli anni ottanta hanno davvero rotto il cazzo. E credo di averlo scritto mille altre volte in questo blog, lo so, ma faccio prima a ripeterlo anziché cercare i post in cui ho disperso le mia invettive contro il periodo che si è consumato a contorno della mia adolescenza. Gli ottanta hanno davvero rotto il cazzo e, soprattutto, musicalmente non ne posso più.

Non c’è centro commerciale in cui vada, non c’è stazione radio su cui mi sintonizzi in cui almeno una volta non venga programmato e diffuso uno di questi brani inutili che sono la mia maledizione. Mi rompevano il cazzo quando sono stati composti, mi hanno rotto il cazzo quando erano già superati ma c’era chi li ascoltava ancora, mi hanno rotto il cazzo quando è iniziato il revival degli anni ottanta e la moda connessa, e ora, trent’anni e rotti dopo, continuano a rompermi il cazzo. E forse l’immobilismo culturale, sociale, politico che è la nostra rovina oggi deriva proprio da qui, da un manipolo di perfidi selezionatori musicali che vogliono far sentire la gente ancora negli anni ottanta perché lo leggiamo anche su tutti i giornali che consumi e sviluppo non sono cambiati da allora.

E la sfortuna vuole che la coda, con quel toporagno canino che cerca di catturare la mia tenerezza ma sono certo utilizzerei in ben altro modo e la sua padrona che si muove a ritmo con la Dolce Vita di Ryan Paris, dura un bel po’. I clienti in fila alle casse sono tanti, le cassiere sono solo due e malgrado la ressa ne approfittano per indurre le persone – come accadrà a me dopo – a fare la tessera fedeltà.

Ma a me la voglia di ballare non aumenta per nulla. Mi viene in mente però l’ennesimo adattamento della celebre barzelletta del bunga bunga, quella che ha dato il nome all’ancora più celebre passatempo preferito del nostro ex ex presidente del consiglio. Immagino me vestito da esploratore legato a un albero da un branco di selvaggi armati di frecce avvelenate che vogliono farmi la festa, e il loro capo mi chiede, con il tono da stereotipo di uomo non civilizzato delle barzellette da colonialismo italiano anni venti, “Hei tu! Vuoi morire o andare per saldi?”. Io, con la voce rotta dal terrore, rispondo: “Morire… morire…”. Lui, soddisfatto, mi mette al corrente della sua decisione: “Va bene, però prima un po’ di saldi”.

la dignità sotto i piedi

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Ci sono anche i saldi nei posti dove già di norma le cose costano nettamente di meno delle boutique, quelli che propongono una scelta al di sotto degli outlet e quasi dei venditori ambulanti che smerciano capi contraffatti, o per lo meno a quel livello lì. Io sto cercando un paio di Clarks tarocche, perché le Clarks ormai sono uno dei pochi modelli dentro i quali i miei piedi non si ribellano ma le Clarks originali non le voglio più comprare, perché costano dai 120 ai 140 euro a seconda del negozio, ora ci sono anche su Amazon ma non trovo mai il numero, e poi lo sapete che ragiono in lire e proprio in lire sono 240 mila. Voglio dire, un tempo un paio di scarpe al quel costo non le avrei mai acquistate e le Clarks a dir tanto costavano ottantamila lire, e già era un prezzo impegnativo. Così ho deciso di comprarle tarocche, che non è detto che non si trovino di qualità. Ed era già da un po’ che ci pensavo, almeno da quando rientrando da Varese per lavoro ho visto sulla strada un mega super iper magazzino il cui nome non lasciava dubbi. Il risparmione della scarpa. Bello, neh? Vero che ci state facendo un pensierino? Ma ero in autostrada e non mi sono fermato, consapevole del fatto che abitando nella zona a più elevata densità di centri commerciali, un paio di banalissime Clarks marrone scuro tarocche da qualche parte le avrei trovate.

E c’è una imponente rivendita monotematica a una manciata di km da qui, quei posti a cui si accede solo in auto perché costruiti in mezzo a svincoli e tangenziali e superstrade. Anche quell’iperstore ha un nome che richiama all’affare, spendi poco ma non scendi a compromessi in qualità. L’allestimento non è dei più invitanti, diciamo che dal punto di vista del marketing nel presentare i prodotti sullo scaffale ci sono ancora margini di miglioramento, il tutto soffocato da centinaia di stand ricoperti disordinatamente di pantofole di tutte le fogge dietro le quali è facile giocare a nascondino, questo ve lo dico qualora vi accompagnaste ai vostri figli durante le sessioni di shopping, cosa che io evito di fare.

Mentre cercavo il reparto uomo, ho notato una signora con il marito. Lei voleva provarsi un paio di stivali di quelli che usano adesso, quelli che puoi metterci dentro i pantaloni stretch e i jeans alla moda. Ovviamente capi in versione tarocca. Li stava valutando a distanza e si stava avvicinando al modello preferito quando si è fatta avanti una famiglia di etnia difficilmente identificabile, così vestiti male potevano essere nomadi o giù di lì. La mamma ha preso in mano proprio lo stesso stivale a cui la signora era interessata e si è chinata per togliere la scarpa e provarlo. Questo probabilmente ha fatto desistere dalla scelta la signora di prima, ho sentito che diceva al marito che aveva cambiato idea ed è facile immaginare il perché. Siamo più poveri ma non vogliamo ammetterlo, ci siamo anche abbruttiti ma non bisogna dirlo perché poi gli altri chissà cosa pensano. Ma guai a dirci che non esistono più i poveri di un tipo e di un altro. Una signora come quella non acquisterebbe mai un paio di stivali tarocchi che possono rientrare nei gusti di una nomade. L’ho vista allontanarsi e ripiegare fintamente su una scarpa bassa, ma non è passato molto che è se ne è andata da lì a mani vuote, probabilmente dicendo al marito che non ne voleva sapere di essere scambiata per una con lo stesso potere d’acquisto di una rom. Perché va bene cercare di fare affari, ma c’è un limite a tutto. Che poi secondo me quei stivali non li ha comprati nessuno.

Ma è finita che poi ho trovato un discreta disponibilità di Clarks tarocche. C’erano blu e beige e color visone, che poi è il marrone che cercavo e che nel caso delle Clarks originali non si chiama così quel colore, ma pazienza. Un paio costavano addirittura diciannove euro, un po’ poco ma erano scontatissime e poi non è detto che non siano di buona fattura. Le ho provate e ho così potuto comparare in tempo reale la calzabilità con quelle originali che indossavo. Questo mi ha indotto a lasciarle lì, sembravano in effetti di cartone. Ne ho provato un altro modello a dieci euro in più, c’era il 44 anziché il 45 che per me è un numero a rischio, dipende dalla forma che hanno. Ma mentre le estraevo dalla scatola è sopraggiunto un ragazzo cinese con la fidanzata che gli ha indicato con entusiasmo le Clarks tarocche, proprio come quelle che stavo valutando. Ha trovato un numero piccolo, si vede che i cinesi non sono come noi caucasici, e mentre le rimettevo nella scatola senza nemmeno provarle e uscivo dal negozio a mani vuote pure io, come la signora di prima, ho pensato se ho mai visto un cinese con le Clarks.

cronache del 32 luglio

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Siamo nella stagione dei saldi più profondi, 50 e 70 per cento e fuori tutto, anche la merce da riproporre ogni anno che non si sa mai. Una madre molto giovane accompagna la sua bimba in un pomeriggio di shopping nell’alternanza tra il caldo torrido fuori e l’aria surgelata dei grandi marchi della moda usa e getta. È la più piccola a esprimere pareri su quello che vorrebbe indossare e ciò che non le piace tra i numerosi capi confezionati da suoi coetanei in un altro emisfero e per ora rimasti invenduti nell’occidente del mondo. La figlia sceglie i vestiti e imitando un modello appreso in parallelo con gli adulti della sua famiglia da ore e ore di esposizione televisiva, estrae l’abbigliamento succinto ancora sugli appendiabiti e lo sovrappone al suo corpo esile chiedendo alla sua versione maxi un parere. La madre, prima di giudicare, getta intelligentemente uno sguardo al prezzo. In alcuni casi dice che è carinissimo, in altri casi, se la convenienza non è sufficiente, cerca di distrarre la bambina offrendole alternative che non sortiranno alcun effetto, vista la determinazione maturata in stagioni di acquisti al ritmo della techno.

Ma di lì a poco c’è ben altro di cui occuparsi. Un ragazzo si lascia cadere sul divanetto e inizia a contorcersi nell’inequivocabile gesto di chi accusa dolori alla pancia, piegandosi in avanti con le mani giunte sul ventre. La giovane fidanzata ripone gli stracci che stava per provare e si siede al suo fianco, accarezzandogli la pettinatura molto di moda e facendo attenzione a non schiacciare il suo borsello di un noto brand Made in Italy. I due attirano l’attenzione dei commessi loro coetanei la cui preparazione professionale non contempla i fondamentali del pronto soccorso e di come ci si comporta con clienti in quel genere di difficoltà. La più intraprendente suggerisce al giovane di andare in bagno, la causa potrebbe essere l’aria condizionata dopo mangiato. Il colore del volto, sarà l’impressione, ma vira verso una tonalità anomala per la stagione in corso.

Qualcuno chiama il responsabile che accorre a decise falcate accompagnato dall’addetto alla sicurezza africano, a cui viene chiesto di tenere d’occhio che nella situazione di emergenza le normali attività commerciali seguano il loro corso. Forse hai mangiato troppa della mia torta, gli va chiedendo nel frattempo la fidanzata che ha ricevuto una salvietta da una commessa per tamponargli il sudore sulla fronte. Qualcuno propone di chiamare un’ambulanza, meglio non sottovalutare la portata del disturbo che sembra intensificarsi.

La madre e la figlia, appurato che la situazione non sembra essere poi così spettacolare, un banale mal di pancia, approfittano del momentaneo diversivo e si dirigono ai camerini con le braccia colme di abiti da teenager.

Gli ho fatto una torta per il suo compleanno, racconta intanto la fidanzata del ragazzo – che sembra stare sempre peggio – alla responsabile, gli ho detto di non mangiarne troppa perché non sapevo come fosse venuta, non sono molto brava a cucinare ma lui l’ha divorata lo stesso, sembrava che gli piacesse. La gente intorno si lascia scappare qualche commento, deve amarla davvero per aver ingurgitato tutte quelle schifezze, dice uno. Un altro, molto cinico, si chiede se avrà voluto avvelenarlo.

Di lì a poco si profila il finale di quel siparietto da letteratura da ombrellone. Due volontari fanno il loro ingresso di gran carriera con una lettiga su cui caricano il giovane che esce nel solleone per essere condotto al pronto soccorso a sirene spiegate. Dentro al grande negozio la situazione torna alla normalità, madre e figlia si avvicinano alle casse, della montagna di abiti provati alla fine ne andavano bene solo un paio e la bimba sembra essere tutt’altro che soddisfatta.

in percentuale

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E poi ci siamo noi, quelli che parlano e parlano e poi alla fine si comportano esattamente come tutti gli altri e fanno massa. Programmiamo le partenze nei week-end con il bollino rosso e poi ci lamentiamo che siamo troppi al mondo. Ci spazientiamo stendendo l’asciugamano nell’unico rettangolo a disposizione della spiaggia che è su tutte le copertine delle riviste turistiche. Ci mettiamo in coda cinque minuti prima dello spettacolo serale del sabato e ci chiediamo perché all’estero tutti fanno i biglietti online e solo qui in Italia nessuno si fida a usare la carta di credito in Internet. E dall’alto della nostra superiorità morale rimaniamo esterrefatti dalla quantità di fauna in libera uscita a Milano, nel quadrilatero del commercio al dettaglio (dire il quadrilatero della moda sarebbe ingiusto nei confronti degli operatori del settore), il primo sabato pomeriggio di saldi estivi. Voglio dire, se ci sono eventi e luoghi la cui densità di frequentazione balza persino in testa ai titoli dei telegiornali, un motivo ci sarà.

Mettiamola così e cerchiamo un lato positivo dell’esperienza: solo i negozi veramente low profile sono impraticabili. Quelli in cui i prezzi al venti o cinquanta per cento precludono comunque acquisti di più di un capo a testa sono scarsamente frequentati. Si entra, si legge la cifra su un paio di cartellini, bella quella borsa, e ci credo che è  bella, scontata costa centosei euro, e la si rimette giù. Poi vai nella bolgia dei veri affari, provi a fartene piacere un’altra che di euro ne costa nemmeno venti ma è chiaro che qualche differenza nella manifattura la trovi.

Le commesse non hanno un minuto di pace e mi chiedo come facciano a raccapezzarsi in quella baraonda di capi femminili provati e da risistemare, che poi le collezioni estive sembrano tutte uguali a noi profani e mi incanto a osservare la velocità con cui ristabiliscono l’ordine di taglia e di colore e di modello, mentre tutto è contro di loro. La musica a palla. I clienti che le scontrano con le borse passando. Quelli che chiedono se c’è la quarantadue di quella gonna marron e la risposta standard “tutto quello che c’è è esposto”. Poi arriva la commessa chiamata a giornata che domanda dove si deve posizionare, ha ricevuto via sms dalla corporate un codice da presentare alla direttrice delle vendite ed è a quel punto che mi viene in mente una cosa un po’ banale, che siamo tutti un numero che qualcuno più in alto di noi nella gerarchia sociale ci assegna al reparto donna o uomo per dieci ore, il turno dalle dodici fino alle ventidue perché è il primo sabato di saldi nel quadrilatero commerciale.

Finalmente poi ritrovi la persona che stai accompagnando, e non vorrei cadere nei luoghi comuni svelandone il genere di appartenenza, perché a noi dell’altro genere al terzo negozio iniziano a indolenzirci le gambe e a un certo punto smettiamo di seguirla e ci limitiamo a osservare gli altri. Magari siamo in grado di correre per ore, ma pochi minuti di stop&go continui possono essere letali. E al primo negozio siamo pure collaborativi, meglio questo di quest’altro, vedi è un colore che puoi sfruttare di più. Ma dopo seguiamo come robot senza carica la persona che stiamo accompagnando, deambuliamo alla mercé della ressa intontiti dalle luci, dall’aria condizionata, dalla techno che esce dalle casse e dallo sforzo nel cogliere le sfumature tra una camicetta e un’altra, una raffinatezza fuori portata per la nostra grettezza. Dicevo che a un certo punto la la persona che stiamo accompagnando riemerge con decine di capi in mano e si consuma il rito della prova nei camerini, una volta superata la coda, dove però non fanno entrare e così noi accompagnatori ci mettiamo in punta di piedi all’ingresso oltre la fila e attendiamo che la persona che stiamo accompagnando si faccia vedere e ci chieda a distanza con l’espressione del viso il nostro parere che noi, sintonizzati su quel linguaggio tutto di mimica, restituiamo un po’ frettolosamente perché ormai il senso critico pulsa come le caviglie.

C’è poi la tappa al bagno, molti di quei grandi esercizi commerciali ne hanno uno che tengono però segreto per evitare che la gente entri con il solo scopo di servirsene, ma quelli a cui poi serve veramente si ritrovano nell’unico negozio che non ne è provvisto, o magari nel giorno dei saldi c’è troppo via vai e la commessa a cui l’hai chiesto ti dice che no, loro non ce l’hanno, ti conviene andare qui di fronte. E uscendo scopri che il qui di fronte corrisponde al Burger King che è un altro di quei posti sulla tua black list e hai fatto pure vedere a tua figlia “Supersize me” tanto che lei rifiuta gli inviti alle feste di compleanno organizzate al Mac Donald’s perché ha paura di mangiare e sentirsi male, un terrorismo psicologico che comunque dà le sue soddisfazioni. Così ecco un’altra coda in quel concentrato di nuove povertà, d’altronde è l’accessibilità del junk-food il vero intermediatore culturale, a ogni tavolo un’etnia diversa ma lo stesso tipo di merenda scelta per i figli.

Il sipario sui saldi cala con il rush finale, gli ultimi due-tre negozi dove però non si trova nulla ma solo perché le energie di tutti, potenziali acquirenti e accompagnatori, sono in rosso. Ogni tanto addirittura sembra di avere un sacchetto in meno, e ci si spaventa ma poi ci si ricorda di aver accorpato i più piccoli dentro i più grandi. Ma il bottino, al netto della giornata, è ugualmente scarso. La qualità e lo stile imperante scoraggiano anche i portafogli meglio disposti, e comunque è meglio andarci piano con i soldi. Non si sa mai quello che può succedere, ci diciamo rientrati a casa, controllando gli scontrini proprio come tutti.

raggira la moda

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Parte da questo blog una nuova e costruttiva iniziativa di protesta. Quanto vi apprestate a leggere è il manifesto del Movimento Attivista del non-Shopping. Ci ribelliamo contro l’abbigliamento cheap, che è cheap solo nella qualità, nella fattura, nella composizione e nei dettagli ma non nel prezzo, perché comunque costa, i saldi sono farlocchi, e dopo una stagione è impresentabile e lo devi gettare via. E ci ribelliamo anche alle griffe, perché fuori della nostra portata, inaccessibili economicamente, e, detto tra noi, non è che ci stiano poi così bene. Noi del Movimento Attivista del non-Shopping vestiamo da sempre quattro capi in croce, sempre gli stessi, almeno dalle superiori. Riacquistandoli quando sono lisi, chiaro, uguali a quello appena dismesso, al limite si varia il colore, per esempio la polacchina scamosciata marron anziché blu scura, oppure beige, ma non riusciamo a scostarci dal nostro stile. Che poi è un non-stile ed è sempre quello. Qualche volta abbiamo azzardato un tentativo di innovazione, ed ecco che scarpe alla moda, pantaloni non a sigaretta, maglioncini colorati si sono rassegnati alla clausura in fondo ai nostri cassetti, alcuni hanno persino tentato il suicidio ormai disperando dall’essere indossati, un vero affronto a chi non ha nemmeno gli occhi per piangere*.

Noi del Movimento Attivista del non-Shopping abbiamo un feroce metodo di attacco, un modo irriverente di sfidare i nostri avversari, che sono i negozi tutti uguali della città e dei centri commerciali. Per non parlare degli outlet in cui i nostri/e compagni/e di vita ci trascinano nella speranza che un capo, disegnato per essere venduto a 2.000 euro e proposto in esclusiva a metà prezzo, ci convinca a cambiare abitudini, anzi, costumi. Ma, al 50%, si tratta pur sempre di 1.000 euro, quasi un mese del nostro lavoro per un po’ di stoffa cucita. Non se ne parla, è contro i nostri principi. Così si va a spasso per negozi, si entra, si prova, si commenta e si giudica l’articolo positivamente, ammiccando a commessi e clienti. Quindi si rimette a posto il capo dove era e si esce dal negozio, senza comprarlo, non prima di aver salutato l’addetto ringraziandolo per la cortesia. A fine giornata si fa il calcolo di quanto si è risparmiato, in questa performance che è una via di mezzo tra l’internazionale situazionista e la gag da candid camera. Ieri, per esempio, ho risparmiato più di 100 euro rimettendo a posto un paio di scarpe di tela. In saldo. Roba da matti.

* idiozie (le mie) a parte, per chi ha abiti che non usa più, abbigliamento appartenuto ai propri piccoli ormai cresciuti eccetera, e non sa che cosa farsene e abita a Milano, è possibile portare tutto al centro di raccolta dell’OSF, in zona Lambrate, hanno un gigantesco e ordinatissimo magazzino e da lì smistano tutto alle varie organizzazioni di assistenza. Aperto anche al sabato, ma controllate gli orari estivi.