mi dispiace devo andare

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C’è un topos della cinematografia che è la prova che un film è finzione ma che più finzione di così non si può. Lei e lui sono sdraiati sul letto, svestiti o ignudi o nell’atto di liberarsi degli indumenti ma si capisce subito che c’è qualcosa che non va. Uno dei due nasconde un segreto, un partner che la aspetta, un senso di disillusione nei confronti dell’avventura romantica in sé, il disagio e l’inadeguatezza rispetto alla percezione delle proprie potenzialità amatorie, la scoperta di avere i calzini bucati, qualcosa da salvare là fuori che è talmente grande che nemmeno l’impeto più esagerato del mondo potrebbe compensare. O anche un ripensamento, un colpo di testa, una sbronza molesta, un tarlo insaziabile, uno sfizio, una rivalsa, una vendetta, la volontà di fare del male, una trovata del regista per risolvere un impasse della sceneggiatura. Lui e lei sono sdraiati, l’alcova illuminata dalla abat-jour, in questo esempio la casa è quella di lui. Lui propone qualcosa per cui si deve allontanare un attimo. Ti porto una bibita fresca, vado a prendere un cd di Natacha Atlas  o, semplicemente, vado un secondo in bagno. Lui sparisce dalla scena e lei si vede che riflette. Si alza. Ci ha ripensato. Lui ritorna e la camera da letto è vuota, lei se ne è andata via. Non se la sentiva. In quanti film le relazioni sono stroncate sul nascere così? Ma si è mai visto che qualcuno esce di casa e lo fa così velocemente e silenziosamente che l’altro non se ne accorge? La scena si chiude con lui seminudo, il bicchiere in mano, il morale affogato della bibita o, nel caso più comune, gettato via nel water con tanto di sciacquone.