esta indecisión me molesta

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La Bicocca, sapete meglio di me, è un’area di Milano che è stata completamente rimessa a nuovo fino a formare un quartiere, di quelli un po’ borderline: operoso e vitale nei giorni feriali per la presenza dell’omonima università e di molte sedi di uffici, a tratti spettrale nei giorni festivi. Ciò non toglie che sia una zona ricca di scorci incantevoli di architettura moderna, di quelli che piacciono a me: freddi e imponenti, degni del razionalismo sovietico. Prendete la sede della Siemens, per esempio, con quella specie di piazza interna e l’accesso che sembra un arco imponente. Potrebbe essere tranquillamente la location di uno spot pubblicitario. Anzi, secondo me qualcuno ci ha già pensato.

C’è il quartier generale di una azienda farmaceutica cliente dell’agenzia in cui lavoro io, proprio lì a fianco. Ogni tanto mi capita una visita in loco, per loro realizziamo video aziendali, house organ, insomma ci tocca ogni tanto qualche riunione con il responsabile marketing. Stavo prendendo un caffè con un paio di colleghi giusto qualche giorno fa in un bar a metà strada tra gli uffici a cui ero diretto e l’ingresso principale della Siemens. Era poco prima delle nove, tutto intorno un viavai di impiegati al galoppo e studenti assonnati, molte matricole, gente comune. Anche il bar era piuttosto gremito, ma mi stavo comunque godendo il riparo dall’ultimo caldo della stagione. Caffè, aria condizionata, solito intrattenimento radiofonico da locale pubblico, una emittente commerciale che, dopo il consueto report sul traffico delle tangenziali, fa partire “Should I stay or should I go” dei Clash.

Yeah, penso dentro di me, altro che caffè, ecco quello che dà la carica al mattino. Un paio di queste per iniziare la giornata e vai di rendita fino a sera. C’è qualcosa di stano però, ma non me ne accorgo immediatamente. Colgo con la coda dell’occhio che tutti, ma proprio tutti, hanno espressioni molto amichevoli gli uni con gli altri, parlano in maniera piuttosto cordiale, anzi troppo, come se fossero tutti amici che si sono incontrati in quel bar per caso dopo non so quanti anni. Ex compagni di classe, ex colleghi, ex coppie. Il tutto mentre scorre via liscia la prima strofa. Avete presente il pezzo, no? Un classico giro blues, la strofa che si ripete due volte. Io poi ho la pessima abitudine di raccogliere lo zucchero in fondo alla tazzina con il cucchiaino, e proprio mentre porto alla bocca quel po’ di dolcezza prima di pagare per tutti, tutti quelli che erano con me, naturalmente, la seconda strofa finisce. “So you gotta let me know/Should I stay or should I go?”, quindi si chiude il riff di chitarra è c’è lo stop. Mi seguite?

Bene. A quel punto sto per cantarmi il ritornello mentre succhio il contenuto del cucchiaino, ma il ritornello non parte. Lo stop diventa una pausa di un quarto, poi di due quarti, poi una battuta intera. Mi rendo conto dell’anomalia, ripongo il cucchiaino nel silenzio più assoluto, mi guardo intorno e vedo che tutti mi osservano. Il barista, i gruppetti di impiegati in giacca e cravatta che hanno preso cappuccio e brioches, le tre studentesse al bancone, poco più in la, con la loro attrezzatura da aspiranti architetti. Tutti mi guardano, anche in modo tutt’altro che accomodante, e il pezzo non riparte. Ma che succede?

Poso la tazzina, mi prende il panico, ma oltre le vetrine, sulla strada, vedo che anche fuori è così. Tutti si sono fermati, guardano me, poi si squadrano tra di loro con gli occhi pieni di sfida. Ecco, una sfida. Tutti contro tutti. Ma una sfida di che? Esco fuori terrorizzato e, incredibilmente, ecco che riparte il ritornello. Con il tempo raddoppiato, avete presente, l’avrete ballato chissà quante volte anche voi. Dal blues al rock’n’roll puro. E immediatamente scatta il pogo generale. Lavoratori, docenti e ricercatori dell’Università, imprenditori, passanti, tutti si inseguono e iniziano a spintonarsi in un immenso delirio punk, proprio in quella piazza.

Quindi l’apoteosi, perché il pezzo curiosamente salta la terza strofa e il bridge strumentale, e continua con l’ultimo ritornello, si tratta di un radio-edit particolare, penso. Un gruppo ben nutrito di persone mi corre incontro, decisissimo a pogare contro di me. Scappo. Corro sempre più veloce, vedo un portone che è rimasto aperto e in un lampo di lucidità mi ci butto dentro e mi chiudo lì. Gli scalmanati che mi avevano puntato, però, quasi in trance, si riversano contro un altro crocchio di persone, più numeroso, e poi tutti insieme ad accanirsi di pogo, donne e uomini, ventiquattrore che volano in aria, tacchi di scarpe di marca spezzati, fogli e documenti stracciati.

La canzone si avvia verso la fine e io, tirando un sospiro di sollievo, assisto alla scena finale al riparo in quell’androne. Il pezzo si conclude, torna dimezzato, Should I stay or should I go, l’ultimo verso accompagnato da chitarra, basso e batteria tutti con la stessa metrica. Quelle comparse di non so che incubo materializzatosi si fermano dovo sono. E a quel punto, sulla scena, appare in in bianco una headline: “Silvergold Assicurazioni. Ogni imprevisto ha un’alternativa. La nostra è sempre la più vicina”.

Come all you rambling boys of pleasure and ladies of easy leisure

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è che tutto questo correre e spintonarsi alla Camera mi ha fatto venire voglia di pogare un po’, come ai vecchi tempi. Scommetto che anche voi non vedete l’ora. La situazione si fa tesa? Quale migliore occasione per scatenarsi, quindi…

Spazio Pour Parler: speciale Pogo!
Un tempo, si pogava di brutto. Addirittura a metà anni ’80, pogavamo cose tipo “La isla bonita” nelle discoteche estive di Varazze, giusto per dare ancora di più nell’occhio. Il diggei di turno, pur di non far degenerare la situazione, ci accontentava mettendo su i Cure o i Depeche o il disco più new wave a disposizione (Cure o Depeche). Noi lo si ballava con il massimo impegno e decoro, dopodiché si lasciava la pista al resto del pubblico. Ovviamente tralascio il “sotto il palco” dei concerti, la vera arena del pogo.

Il secondo capitolo di questa storia personale nei meandri della più genuina delle dissociazioni motorie è verso i primi anni 90. Il pogo di massa inizia a essere un fenomeno sociale proprio dei club che propongono musica alternativa. Siamo in pieno grunge e cross-over, dalle mie parti fioriscono locali dove ci si può spintonare a iosa ballando Urban Dance Squad, RATM e compagnia bella. Locali che chiudono nel giro di una stagione grazie alle risse provocate dal Firestarter di turno (ecco, si poteva anche pogare sulla techno).

Ma così è troppo facile. È come chiudere due gatti in un scatola di palle di natale di vetro. Si divertono, ma moooolto meno rispetto ad arrampicarsi sull’abete. La sfida era quindi pogare ovunque, in un discopub come nella disco più fighetta come al concerto del gruppo di amici al live disco bar o sotto la sezione fiati di Persiana Jones, non appena l’atmosfera finalmente si faceva un po’ meno “Rhythm is a dancer”.

Non a caso i diggei amavano dare spazio al loro lato più trasgressivo per tirare fuori il lato più trasgressivo del pubblico pagante e non. Così, se avevi pazienza, dopo i Gypsy Kings, dopo Umberto Balsamo, dopo I was made for lovin’ you dei Kiss, a volte persino dopo Goldrake, toccava ai Clash. E quasi sempre, dietro la console, si tirava il sasso nascondendo la mano qualora la situazione diventasse delicata. A quel punto si poteva pogare da soli, coinvolgendo gli improvvisati trasgressivi in un vortice punk di provincia. E siccome la scaletta era più o meno la stessa ovunque (Should I stay or should I go era improvvisamente diventato un must), ovunque andassi riuscivo a spintonarmi un po’ rimendiando quasi sempre la disapprovazione degli astanti.

Ma molto più spesso pogavo in perfetta solitudine, e già il mio virare verso i 30 lo rendeva un comportamento sempre meno credibile. Il pogo di gruppo, ovvero gruppi di pogatori che si insinuavano tra la bella gente, era indicato solo se consentito dai buttadentro della serata, onde evitare la perplessità palestrata dei buttafuori. La mia esperienza con il pogo finisce così, un decorso accelerato anche dall’incedere dei capelli bianchi, che per antonomasia rendono patetico ogni impeto giovanilistico. Il pogo indoor era ormai diventato un atteggiamento sociale tamarro, incalzato dal “io ballo da solo” della musica indie, sempre più permeata da loop e inviluppi, ritmi club e d’n’b. Fine.

Appendice 1. La tesi, confermata non tanto da Wikipedia ma da fonti autorevoli quali me stesso e le persone che conoscete che lo hanno fatto almeno 25/30 anni fa, è che il pogo originale si faccia saltando sul posto, senza urtare il vicino. Poi ha incarnato anche il concetto di ballo tutti-contro-tutti, rissa da alcolizzati e varie amenità.

Appendice 2. Non posso non chiudere questo imperdibile contributo con una discografia consigliata dei brani più pogabili. Su tutti, il già citato evergreen di Combat rock. Sheena is a punk rocker è anche molto divertente, quanto Precious dei Pretenders o So lonely (il pogo è ancora più succulento quando il brano alterna ritornelli veloci a strofe a ritmo dimezzato). Pogo violento su “Killing in the name of”, pogo scanzonato su Fiesta dei Pogues, in finto ma-mica-tanto “nome omen”. Lunga vita al pogo, energia pulita.

Appendice 3. Citazione celebre: “E io pogo!” (A. De Curtis, in arte Totò)