la favola dei thread porcellini

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Dietro a Internet, si sa, ci sono donne e uomini. E dietro a ogni donna, anzi intorno, perché vista la pariteticità dei rapporti interpersonali in rete l’idea di “intorno”, sullo stesso piano che fa tanto social, rende meglio, ci sono uomini a bizzeffe. Una cosa che succede anche fuori, ma sulla rete, per i motivi che sappiamo tutti, il fenomeno è più eclatante. Tempo fa ho tentato un esperimento. Volendo fare un po’ di marketing fai-da-te e improvvisare pierre digitali per un gruppo in cui suonavo, mi sono finto donna e ho iniziato a frequentare i siti di Social Network abitati da addetti e non ai lavori, in un settore in cui l’uomo è tradizionalmente rocker e la donna è tradizionalmente groupie. E in uno scenario in cui l’offerta (leggi: i gruppi che vogliono farsi pubblicità) è 1.000 e la domanda (leggi: gli utenti che vogliono ascoltarli) è 1, ma in un contesto di feromoni digitali in cui l’offerta (leggi: femmina) è 1 e la domanda (leggi: maschio) è 100, mescolando tutte queste matrici qualcosa si tira su. Per lo meno, un po’ di attenzione. Ma occorre essere molto delicati, è facile essere smascherati anche se l’uomo, boccalone per natura, in odore di vulva anche se velata da un browser abbassa le barriere intellettive, prima della zip dei pantaloni, ed è facilmente “conducibile”. In quegli scambi di pareri musicali al buio qualcuno si è pure invaghito, al che ho interrotto le conversazioni one to one per non urtare i sentimenti altrui. Ma, devo ammettere, sarei una discreta ammaliatrice.

Il gioco delle parti tra i sessi, omo e etero of course, vecchio quanto la prima sintesi proteica, come è giusto che sia si è dato nuove strategie secondo i più moderni canali di abbordaggio. Le tecniche di seduzione sono in continuo adattamento, ma la sostanza direi che è immutata. Ecco un avatar femminile, ed ecco i mosconi di contorno. Fino alla deflagrazione: Tizia mette la sua foto in mutande. Con l’effetto Instagram che ha quel trucco che ti fa sembrare in una Polaroid scattata trent’anni fa. Una foto fintamente vintage di Tizia in mutande che, obiettivamente, passatemi il commento bacchettone e maschilista, è un pochino provocatoria. Ed ecco l’inevitabile reazione a catena di indirizzi IP di sesso maschile che puntano lì, in rapida successione, a mettere il pollice su, le faccine e i commenti ammiccanti, che anche i più creativi e simpatici buttati lì a sdrammatizzare comunque ci provano. Io, che mi distinguo per la mia onestà intellettuale, ci provo da qui.

diritto di Facebook

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Leggo su l’Espresso un intervento superlativo di Giulio Graneri, il punto della situazione su una serie di aspetti volti a far comprendere meglio “quando stiamo andando”. Il tema è ottimamente riassunto nel titolo dell’articolo, “Dopo l’iPad, l’umanità 2.0”. Un tema complesso, in cui si intersecano diversi aspetti quali l’annosa questione del digital divide, la democratizzazione dei mezzi di comunicazione, il fenomeno dell’informazione partecipata sul web, il marketing che viene dal basso, dematerializzazione e industria culturale nell’era dell’e-conomia, chi può e chi non può permettersi tutto ciò eccetera eccetera. Una perfetta sintesi di tomi, anzi, giga di documentazione e materiale e opinioni e punti di vista e contributi. Così, a proposito di democratizzazione, mi permetto un paio di commenti (sempre nell’ambito del mio spazio pour parler).

Se non vendiamo più il supporto (la carta o il disco) il prodotto culturale diventa più complicato da vendere. E comincia ad essere difficile garantire una retribuzione per il giornalista o per l’autore, per l’editore o per il discografico.

Giusto. Ma aggiungerei: il prodotto culturale diventa più complicato da vendere con gli stessi margini. Giornalisti, autori, editori, discografici e (aggiungo io) musicisti si sono resi conto, a loro spese, che introiti e stili di vita di un tempo non sono più gli stessi. D’altronde sono in buona compagnia. Altri settori, tutti, direi, per motivi diversi, a malapena consentono il sostentamento, aziende e fabbriche chiudono, tecnologie obsolete escono di produzione eccetera eccetera. La sfida è proprio quella di saper cambiare. Gli sforzi quindi non devono essere sprecati nella guerra a file sharing, copyright e diritti e via dicendo, che in uno scenario digitale e digitalizzato mettono a nudo l’incompetenza dei propugnatori. Occorre pensare a nuovi modi di fare e vendere cultura. Il problema è il supporto? La cultura può puntare sul live, sul rapporto diretto tra autore e pubblico. Reading, incontri, concerti, djset, nuove modalità di performance, attività non solo specifiche ma anche collaterali in cui sopravviveranno solo i meno rigidi o i più flessibili, i meno duri e puri. L’editoria poi dovrebbe riuscire a catalizzare tutte queste esperienze dirette con il pubblico sul web, facendo pagare contenuti extra, come in parte già avviene, consapevole che se una parola o una nota viene trasformata in bit sarà comunque duplicata e condivisa. Ma non si deve cercare al di là del monitor il profitto. Certo, si deve lavorare di più guadagnando magari la metà di prima. Ma questo è un problema comune a tutto l’attuale sistema economico.

Oggi ciascuno di noi costruisce, assembla la propria informazione attraverso il filtro degli altri, guardando il mondo attraverso gli occhi delle persone di cui si fida. È sempre più con questa logica che decidiamo cosa comprare, cosa leggere, dove andare in vacanza. Non è nulla di nuovo, lo abbiamo sempre fatto anche prima del digitale, usando i nostri amici e i nostri colleghi. Ma la scala con cui il digitale abilita questo processo è talmente importante che ridisegna buona parte della nostra vita.

Ed ecco il ruolo di player come Google e Facebook nel mercato globale. Sta già succedendo, ovvio. E mentre, almeno in teoria, dell’imparzialità verso il mercato di un sistema pubblico che eroga servizi dovremmo fidarci, come dobbiamo comportarci con le suddette corporation e il rapporto con i loro stakeholder? Se esistono discipline come SEO e SEM, ci sarà un perché.

Così come considereremo sempre più normale delegare alla tecnologia parte delle attività del nostro cervello, come la memoria. Anche qui, stiamo vivendo una transizione importante: non ci interessa più “possedere” un’informazione, ma piuttosto ci interessa “sapere dove cercarla” quando ci serve. Questo passaggio dal possesso all’accesso è dirompente e sostanziale.

Giustissimo. E se si va verso l’integrazione di tutti i dispositivi in uno, oltre a chiudersi (finalmente?) l’era dell’accumulo fisico e del consumo compulsivo in ambito culturale  si avrà un consumo tecnologico diverso. Se però tutto sarà in rete, si consolida l’era dello storage e del cloud. Ma attenzione: i data center v anno a corrente, occorre focalizzarsi quindi su una gestione intelligente dell’energia e sulla continuià dei loro servizi.

I nostri dati personali, la nostra posta elettronica, la nostra agenda, il valore che creiamo in Rete, i nostri e-book: tutto è sempre disponibile per noi, perché risiede nella nuvola del cloud computing. Ma non lo possediamo. Ci affidiamo e ci fidiamo di Facebook, di Google, di Amazon, di queste grandi corporation che hanno la forza per standardizzare i servizi di base del digitale, così come i governi ci garantiscono i servizi base del mondo fisico. La salute, l’elettricità, la viabilità, da un lato. La continuità della posta elettronica, della piattaforma su cui lavoriamo, dall’altro. Solo che queste sono, appunto, corporation: aziende private che gestiscono ambiti delicatissimi della nostra società contemporanea. È uno stato di fatto imposto dalle cose in modo molto rapido, una situazione cui ancora non abbiamo preso le misure.

La Pubblica Amministrazione non riuscirà mai, appunto, a fare le veci di una corporation, ma dovrà acquistarne i prodotti. Quale sarà quindi il prezzo da pagare, per i cittadini-utenti, di servizi che ci sono indispensabili (sono davvero indispensabili?), che consideriamo dovuti ma che non lo sono? Qual è il profitto di Google nel mettermi a disposizione gratuitamente tera di storage per conservare informazioni sulla mia vita e su quella dei miei amici? Lo farà sempre? Se Facebook fallisce, che ne sarà di anni della mia vita social-e? Il ruolo di questi player – e parlo di Google che mi fa trovare le informazioni e che mi mette a disposizione una versione senza licenza di Office online, Facebook che mi tiene in contatto senza spendere un centesimo di telefono, Worpdress che memorizza e mi consente di pubblicare tutte le cose che scrivo – diventa sempre più critico e imprevedibile. Perché un prodotto può essere superato con un analogo migliore. Un sistema diffuso capillarmente e radicato nel comportamento singolo e sociale no. Windows può essere soppiantato da Ubuntu. Ma Google o Facebook, così diffusi da costituire la memoria e lo spazio virtuale ormai per antonomasia, difficilmente cederanno il posto, o ci saranno analoghi servizi progettati dal Pubblico per essere pubblici che li soppianteranno.