gli anni che finiscono con il numero sette

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Gli anni che finiscono con il numero sette sono piuttosto importanti e non me ne vogliano i fan di quelli che finiscono in otto come il sessantotto, per i motivi che sappiamo, o il quarantotto che avete studiato a scuola. Per non parlare di quelli che finiscono con il nove, a partire dall’ottantanove e dal celebre muro che è stato buttato giù, o addirittura gli anni che terminano con lo zero che non sai mai se occorre considerarli conclusivi del decennio precedente o all’inizio di quello nuovo. Ma quelli che finiscono con il numero sette sono molto importanti a partire dal settantasette perché, quest’anno, fanno cifra tonda e fanno tanto ricorrenza, è sufficiente fare un giro per i socialcosi per capire cosa intendo. C’è solo un problema. Siamo tutti stra-felici che il settantasette quest’anno fa quarant’anni perché il settantasette deve la sua celebrità a un long playing fondamentale per la storia del novecento che è appunto l’omonimo dei Talking Heads, con quel Psycho Killer che, ancora adesso, quando lo senti, ti accorgi che pezzi più moderni di quello ce ne sono stati veramente pochi. Poi il settantasette è stato anche il settantasette della cultura e della politica, con tutto quello che ne è conseguito per la società italiana nel bene e nel male. Quindi se dal settantasette e da Psycho Killer ci separano ben quarant’anni, dal sessantasette, altro anno piuttosto importante, di anni ne sono passati cinquanta, e provate a indovinare chi, nel sessantasette, ci è nato.

non c'è niente da ridere con la new wave, ma in genere non c'è niente da ridere con la musica

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O almeno credevo di no, e invece sì. Non so se conoscete Fred Armisen, il comico statunitense famoso per far parte del programma “Saturday Night Live”. Be’, io non lo conosco o, anzi, non lo conoscevo. Giorni fa però mi sono imbattuto tra i vari post e ripost che mi capitano su Facebook in una sua divertente quanto geniale parodia dei Talking Heads che vi metto qui:

Il senso di tutto questo è che in USA c’è un comico che è talmente bravo anche come cantante e musicista che ha ideato e messo in pratica una gag in cui imita David Byrne e compagnia bella, piena di riferimenti all’universo dei Talking Heads comprese le numerose citazioni di Stop Making Sense. La prima domanda che immediatamente mi sono posto è: chi è in grado di cogliere la finezza dell’operazione e riderci su? Si tratta di una cosa molto indie, voglio dire, e tenete conto che gli indie ridono pochissimo. L’offerta della comicità tra virgolette statunitense è talmente vasta che c’è spazio anche per scenette in cui si prende in giro un gruppo di trent’anni fa che magari i giovani di oggi neppure sanno chi sia. C’era già stato un precedente di dissacrazione dei Talking Heads, vi ricordate questa?

Noi ci ridiamo su, ma sappiate che in Italia cose simili le fa gente del calibro del Leone di Lernia o, al massimo, Elio e le Storie Tese. Ecco, da noi la comicità musicale – ammesso che esista ed è una cosa diversa dai comici che usano la musica nei loro sketch – sfocia nel demenziale demente (Leone di Lernia che, a proposito, esiste ancora?) o tutto sommato intelligente (EELST).

Invece, per arrivare al punto, in USA Fred Armisen – un po’ come forse era successo per i Blues Brothers – ha messo su un vero gruppo musicale, nel suo caso new wave con un nome altrettanto new wave (Text Pattern) con cui praticamente ha realizzato un vero e proprio long playing che potete trovare in streaming su Pitchfork. E, a dirla tutta, suona molto meglio di tanta roba di quella che si sente in giro oggi, ma forse perché non si capiscono le parole in inglese, o forse perché i Talking Heads sono inimitabili ma quando qualcuno li imita comunque il prodotto è superlativo, tanto loro ci piacciono.

i Talking Heads più influenti sull’intelligenza dei neonati di Mozart?

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Un recente studio indipendente di un gruppo di ricercatori del dipartimento di Neuropsichiatria Prenatale della Michigan State Science Academy (MSSA), guidato da James F. Baxter, ha finalmente interrotto il primato delle composizioni di Mozart come principale vettore musicale in grado di influenzare e stimolare l’intelligenza dei bambini in gravidanza. Gli scienziati hanno infatti pubblicato il risultato dei loro studi condotti su campioni di mamme in diverso stadio di gestazione. Sono stati esaminati gruppi di un centinaio di donne ciascuno che si sono prestate a una serie di ascolti secondo un procedimento empirico che ha portato a non poche sorprese. La musica di Mozart infatti si classifica solo al sesto posto nella graduatoria delle composizioni più utili a sviluppare l’intelligenza nella fase prenatale dei nostri figli. Dei numerosi bambini che, dopo la nascita, sono stati seguiti durante il primo periodo di crescita, quelli più brillanti e ricettivi all’apprendimento sono risultati essere i micro-ascoltatori delle canzoni del celebre gruppo americano dei Talking Heads. Il professor Baxter e i suoi accademici non hanno nascosto il loro stupore considerando l’imprevedibilità strutturale delle canzoni pop wave della band di David Byrne, spesso ritmicamente sfuggenti e costruite su dinamiche ed equilibri armonici destabilizzanti. Una vera e propria antitesi rispetto a una certa matematica dei suoni su cui si dipanano le trame della musica classica di geni indiscussi come Mozart o Bach.

Lo studio è riuscito persino a portare a termine un retro-assestment su alcune persone che, nate nella seconda metà degli anni settanta e cresciute nei primi ottanta, quando cioè i Talking Heads erano sulla cresta dell’onda, sono state involontariamente raggiunte dalle radiazioni benigne di album come 77, More Songs About Buildings and Food, Remain in light o True Stories, tanto per citare alcuni dei lavori che venivano passati alla radio e alla tv e che quindi, con entità differente, beneficiavano di apertura mentale ignari nascituri. In alcune zone degli Stati Uniti, da quando si è diffusa la notizia, cd e lp dei Talking Heads stanno di nuovo andando a ruba e non sono pochi gli influencer che cercano di far leva sull’opinione pubblica affinché il gruppi torni a suonare insieme nella formazione originale. Nei reparti di ostetricia, ginecologia e presso le sale parto degli ospedali americani più all’avanguardia, medici e personale infermieristico coadiuvano le fasi cruciali delle neo-mamme sulle note di Memories Can’t Wait, di Wild Wild Life o di Girlfriend Is Better. Compagni e futuri padri passano ore a strimpellare chitarre contro le pance delle mogli improvvisandosi improbabili tribute one man band per spianare la strada intellettiva delle proprie creature. Per molti fan la bella notizia non è tanto che scienza e musica vadano a braccetto o che si sia trovato una modalità per controllare e guidare lo sviluppo delle persone quando ancora sono nel loro mondo parallelo dentro la mamma alternativo alla più diffusa procedura che vede al centro l’autore della Piccola Serenata Notturna. Piuttosto il fatto che oggi i Talking Heads possano godere di una nuova fama e che davvero, non si sa mai, magari tempo quest’estate e tornino a suonare live, anche qui in Italia.

smettiamola di dare un senso

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Ma se poi gente del calibro di David Byrne dismette band epocali come i Talking Heads che, e non sono certo io l’unico a dirlo, si sarebbero meritati un carriera ben più longeva di altri colossi del rock come gli U2 o i Rolling Stones, tanto per fare un paio di esempi, intraprende carriere soliste che esplorano tutti i più sconosciuti e originali quartieri musicali del mondo che poi alla fine uno ci si perde, sperimenta generi e sottogeneri con la massima perizia che tanto gli viene bene tutto, arriva al punto di poter collaborare con chiunque senza smarrire mai la propria personalità artistica, conquista e mantiene imbattuto il primato di referente culturale e intellettuale per più generazioni. Dicevo, se poi gente come lui appena gli si presenta l’occasione si rimette a suonare hit come quella qui sotto perché comunque, malgrado quello che abbiamo ricordato sopra, i Talking Heads restano un punto di partenza e di arrivo ineguagliabile, mi chiedo perché non abbia continuato la sua attività nei Talking Heads fino a oggi facendo felici oltre i fans normali anche quelli che quando una cosa funziona non la cambierebbero mai e per nessun motivo al mondo.

degli altri titoli di canzoni dei talking heads che potrebbero diventare film

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E qualcuno in parte lo è già (o lo è già stato), chissà.

1. don’t worry about the government
2. psycho killer
3. thank you for sending me an angel
4. the girls want to be with the girls
5. the big country
6. life during wartime
7. memories can’t wait
8. heaven
9. electric guitar
10. drugs
11. born under punches (the heat goes on)
12. crosseyed and painless
13. the great curve
14. once in a lifetime
15. houses in motion
16. seen and not seen
17. listening wind
18. the overload
19. burning down the house
20. making flippy floppy
21. girlfriend is better
22. slippery people
23. i get wild/wild gravity
24. swamp
25. moon rocks
26. pull up the roots
27. and she was
28. give me back my name
29. creatures of love
30. the lady don’t mind
31. perfect world
32. stay up late
33. walk it down
34. television man
35. road to nowhere

quel film che si intitola come un pezzo dei talking heads

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Un film da sei stelle, perché le cinque di rito per i grandi eventi in questo caso stanno strette. Voglio dire, un qualunque regista americano con tutta quella roba lì ne avrebbe fatto almeno tre di film. Uno su Robert Smith alle prese con il supermercato e altre amene quotidianità. Uno sulla morte di un padre che ti fa chiudere i conti con l’adolescenza che porti nei capelli e nell’eyeliner. Uno sulla ricerca dei criminali nazisti e le popstar alle prese con la storia. E vedendo Davd Byrne mentre canta e si china sotto il living room vintage che sfida le leggi di gravità e si intona perfettamente con il suo genio, mi sono chiesto quanto manca alla reunion dei Talking Heads.

un giro così ti capita una volta nella vita

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Se avete intenzione di mettere su un gruppo musicale, indipendentemente dal genere che avete in testa o dalle vostre finalità, prima di reclutare compagni di avventura sappiate che l’insieme dei musicisti è composto da due principali categorie: quelli supertecnici e quelli che hanno gusto. Ci sono poi altre due categorie secondarie: quelli scarsi e privi di gusto, che pur essendo la maggioranza non hanno nessun peso nell’evoluzione dell’arte musicale, e quelli che suonano da dio e in più hanno un gusto della madonna, un connubio ultraterreno che li proietta verso lo star system a patto che decidano di intraprendere la carriera. Alcuni tra questi non riescono comunque  a causa della sorte avversa, è il caso del il sottoscritto. Ehm.

Sciocchezze a parte, la storia della musica è satura di musicisti appartenenti alle prime due più comuni famiglie, sicuramente le meno esclusive e dal più facile accesso. Inutile sottolineare la mia propensione per i musicisti che hanno gusto, quelli per i quali non importa la propria parte nei pezzi. Già, il contributo deve essere esclusivamente finalizzato alla riuscita della canzone, quindi è il senso dell’insieme che deve condurre verso l’ideazione della parte più adeguata.

Pensate ai giri di basso e a quanto sono basilari per l’armonia di un brano; si tratta dell’esempio più facile per rendere l’idea ai non addetti ai lavori. Sta di fatto che se ripenso a tutti i bassisti con cui ho suonato, oltre a distribuirli facilmente tra i quattro sottoinsiemi di cui sopra, ne salvo giusto un paio, e caso vuole che entrambi siano bassisti di estrazione reggae evolutisi in quel non-genere che i più definivano ai tempi trip-hop. Bravi anche i bassisti new wave, quelli che consumano un plettro a concerto, ma solo se superano i cliché del seguire pedissequamente il cambio degli accordi e l’uso indiscusso delle toniche.

E se vi va di sapere quale sia il mio giro di basso preferito, si tratta della parte di Tina Weymouth dei Talking Heads in “Once in a lifetime”, tratta da “Remain in light”, uscito nel 1980. Sono le proverbiali tre note ripetute a loop in tutto il pezzo, un bordone che rimane invariato anche nel ritornello malgrado i cambi di accordo. Gran gusto e poca tecnica, tanto che so già che qualcuno di voi penserà “eh ma che palle suonare per quattro minuti sempre la stessa parte”. Ma non è quello il punto: è il guizzo compositivo, lo spostare il beat forte iniziando ogni battuta in levare per sbilanciare la simmetria del pezzo. Si colgono le influenze della musica di Fela Kuti mediate dal genio di Brian Eno, e la linea di basso ne costituisce il cardine. Amici bassisti, che questo brano vi sia di monito: se cercate il groove, iniziate da qui.

same as it ever was

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Prendete me, per esempio. Da una parte compulsivamente e ossessivamente addicted alla musica pop-rock, dall’altra strenuamente legato al secolo breve, quello scorso, magari concedendo le attenuanti al decennio successivo al 91, prolungando i limiti cronologici stabiliti, una sorta di interregno, una fase di passaggio di consegne al secolo attuale, che sembra essere fin troppo duraturo. E in tutto questo tempo mi sono sentito orgogliosamente (poi la pianto lì con gli avverbi) beato di essere cresciuto in una fase che, pur povera politicamente e socialmente (ops), in piena curva di riflusso, già pregna di presagi di quanto sarebbe potuto accadere oggi, ha avuto molto da dare.

Avete capito a cosa mi riferisco, vero? Da circa 10 anni è un piacere poter cogliere echi, citazioni, plagi e cover di materiale sonoro dei bei tempi andati. Un’attività fine a se stessa? Sì, diamine, ma allo stesso tempo è una discreta soddisfazione poter pensare (magari senza ostentare troppo, per non sembrare antipatico) che nulla di quanto ci riempie la bocca e gli ipod oggi sia così originale quanto, in maniera oggettiva – e non ci sono ca**i – ciò che è stato prodotto in musica dal 77 in poi, almeno fino alla moda del remake di quanto prodotto in musica dal 77 in poi. Ma, in generale, è bello aver ragione.

E, dal 2001 ad oggi, ne abbiamo viste di tutti i colori, anche se l’estetica di riferimento è più che altro in bianco e nero. Ed è tutta roba da cui non mi dissocio, anzi. Almeno tre o quattro che cantano come Ian Curtis, o almeno che hanno iniziato citando indiscutibilmente i Joy Division giusto per farsi notare, per poi magari elaborare qualcosa di originale. Per non parlare degli Smiths, un riferimento oggi molto diffuso sia nello stile che nel songwriting. Anche i Cure, provate a sentire questi. C’è stato pure un mica tanto velato omaggio ai Police, o band che addirittura ci ricordano episodi meno conosciuti, che so, Lloyd Cole and the Commotions e gli Heaven 17. O i recentissimi The Mirror, impossibile non cogliere il riferimento a Architecture & Morality degli OMD. Infine, anche se non finisce qui, i gruppi in cui c’è un po’ di tutto questo mescolato e personalizzato, su tutti i casi più eclatanti: Interpol, Editors, Bloc Party, Killers. Che magari, nelle interviste, si scherniscono anche, e con la scusa dei dati anagrafici ti dicono che è impossibile, che negli ottanta non erano ancori nati o se lo erano ascoltavano musica per bambini. Ma che c’entra, suvvia.

C’è però un gruppo che è stato talmente avanti, ai tempi, che nessuno ha dimostrato di saper copiare così spudoratamente. Perché in realtà, un po’ l’inconfondibile timbro del loro cantante, un po’ i suoni in genere, hanno un tratto talmente definito che non puoi assomigliare superficialmente a loro. Ci sono tracce ovunque, punto e basta. Sono stati piuttosto eclettici. Sono stati i più innovativi, diventando immediatamente, con il loro primo LP uscito nel 77 e che così si intitola, una delle band di maggior culto di tutti i tempi. Li ritrovate presenti in molti booklet, tra i ringraziamenti, come i principali ispiratori. Sono nominati spesso nelle categorie di riferimento utilizzate nelle recensioni. Compaiono come guest nelle nuove produzioni discografiche. È stata una delle più importanti band sotto tutti i punti di vista. Avrete capito che the name of this band is Talking Heads.

Su tutti, c’è un documento, la testimonianza di un concerto, un evento alla memoria del quale, ad aver la fortuna di avervi partecipato, si potrebbe attingere, per ricavare materiale da raccontare e mettere a disposizione di figli e nipoti, per anni e anni. Lo si trova facilmente su youtube e ci riguarda da vicino, perché si tratta di un loro live registrato al Palaeur di Roma nel 1980 e trasmesso dalla RAI (quanto ci manca il servizio pubblico inteso in quel modo). Sentite la musica, guardateli suonare, guardate le loro espressioni mentre eseguono i pezzi, e  provate anche ad osservare le facce del pubblico, volti tipici dell’epoca, umanità che non esiste più. Ma, soprattutto, pensate un po’: un gruppo che può permettersi di aprire un concerto con un brano come Psycho Killer.