la vera storia del patto di Varsavia

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Tra le reliquie dell’ex Unione Sovietica che noi occidentali comunisti e post-tali abbiamo fatto a gara per accaparrarci prima e dopo l’89, oltre agli obiettivi e le lenti per macchine fotografiche leggendarie, telescopi, cianfrusaglie varie, prodotti di un dubbio artigianato locale, matrioske e orologi con il quadrante a ventiquattr’ore o recanti l’effigie dei padri della rivoluzione russa, il tutto acquistato a cifre già da mercatino dell’antiquariato alle bancarelle abusive nelle piazzole delle strade provinciali, spiccano certi sintetizzatori autoctoni con tanto di scritte in cirillico che nulla hanno da invidiare ai più blasonati Moog o ai vari strumenti analogici dell’industria musicale oltre-cortina. Almeno questa è l’idea che mi sono fatto io leggendo qua e là nei forum dedicati ai tastieristi e dopo aver seguito alcuni tutorial di pessima qualità video ma dai contenuti convincenti su Youtube. So solo che quello che Salvatore ha nel suo studio di registrazione casalingo se lo è procurato molto prima che Internet cominciasse a dettare l’agenda dei gusti della gente e diventasse un vero e proprio trendsetter.

Salvatore era in pianta stabile all’ARCI, e attraverso canali di contatto ovest-est nati prima che cadesse il muro, si era organizzato un mini-tour su misura per il suo quartetto fusion in Polonia. Una manciata di date in posti sconosciuti della capitale in forma di prestazione gratuita, se non qualche contatto per dormire la notte e scroccare i pasti in una terra di conquista nuova e pullulante di affamati di scambi culturali con l’Europa del Patto Atlantico. Il synth si chiama Polivoks e l’aveva pagato due lire da un tizio che con la roba sovietica, invece, non voleva più avere a che fare e chissà come rosica del fatto di aver praticamente regalato a un italiano una rarità che oggi, su e-bay, non la trovi a meno di mille euro.

Ma Salvatore era tornato da Varsavia con ben altri cimeli di quel passato comunista che stava andando in pezzi. Con Felicia o Felizia come credo si pronunci, che si era lasciata abbordare dopo il concerto d’esordio e che aveva poi seguito il gruppo per il resto di quella specie di vacanza polacca facendo a Salvatore e ai suoi compari anche un po’ da guida, non aveva pensato di rimanere in contatto ma comunque, in cambio della cortesia e di quanto consumato tra le lenzuola, si era sentito in dovere di lasciarle il suo recapito. Così, qualche mese dopo, Felicia o Felizia come credo si pronunci gli si era presentata in casa (Salvatore viveva ancora con mamma e papà) e per fortuna non era nulla di grave come si potrebbe pensare. Non c’era alcun danno a cui riparare o promesse da mantenere, se non la voglia di vedere l’Italia anche se in uno dei posti più sfigati della penisola.

In realtà poi Felicia, o Felizia come credo si pronunci, in quella settimana della riviera ligure non ha visto nulla. A nemmeno ventiquattr’ore dall’arrivo e dopo aver disfatto la valigia nella camera degli ospiti di Salvatore si era beccata un’influenza di quelle con febbre a quaranta che ha imposto un cambio di programma per entrambi. Niente stemperamento della sua presenza grazie alla compagnia, che poi magari sarebbe riuscito anche a smollare Felicia o Felizia come si pronuncia a qualcun altro. Niente visite guidate alla zona in modo da aver qualcosa da fare e di cui parlare (in inglese, of course). Niente di niente se non stare in casa con una malata, guardare la tv in italiano, ascoltare musica e dedicarsi alla conversazione forzata. Niente sesso. Questo il primo giorno. Il secondo. Il terzo. Poi Salvatore ha iniziato a lasciarla sola in casa con i suoi genitori, la febbre ci ha messo un po’ a scendere ma la barriera linguistica aveva accelerato la fine degli argomenti di conversazione già dopo qualche ora.

Di tutta questa storia resta solo la mia invidia per il Polivoks, anche se so che quando si guasta poi trovare ricambi o farlo aggiustare è quasi impossibile. I miei cimeli dell’URSS si riducono a un paio di spillette di Lenin e vario materiale di propaganda raccolto durante la visita a un mercantile sovietico ai tempi delle elementari, con i marinai che guardavano a noi bambini con quell’appetito che è diventato proverbiale e con lo stesso con cui Felicia o Felizia come si pronuncia aveva osservato quel poco di Italia prima di ammalarsi. Allo stesso modo sono convinto che l’odore dell’Unione Sovietica fosse lo stesso che ho sentito lungo gli stretti corridoi di quella nave, mentre in un linguaggio di una difficoltà che non ha confronti qualcuno che non ricordo bene mi stringeva la mano e mi appuntava una stella rossa sul bavero della giacca blu.