ma nemmeno belli

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Ho appena finito di fare merenda con un abbondante piatto di fave e salame, sento la soddisfazione snob di Lisa al telefono mentre mi mette al corrente della sua dieta fedele alla tradizione locale, cose che mangi nei posti più radical chic del centro pagandole un occhio della testa mentre c’è gente che di specialità di risulta accompagnate con il vino acido dei poveri che ti spacciano come vermentino biologico non ne vuole proprio sapere. Me l’immagino seduta in quella specie di agriturismo in città mentre mi snocciola a uno a uno tutti i suoi commensali perditempo, e il tintinnare di posate e bicchieri si alterna all’inconfondibile suono elettronico dello scatto che mi ricorda quanto mi sta costando quell’inutile reportage. Lisa ha un telefono cellulare che è uno dei primi modelli immessi sul mercato, un mega-parallelepipedo di plastica con l’antenna che sembra un walkie talkie e non è tanto più piccolo della cabina telefonica da cui la sto chiamando. E dire che la conversazione è chiara come un programma radiofonico in galleria, sono in un bar affollato che ha un posto telefonico pubblico e c’è un bambino che sta strillando perché dice che gli è entrata una mosca in un orecchio, mentre sua sorella si sta lamentando a voce alta di una storta presa a causa della pessima manutenzione dei marciapiedi lì fuori. Per non parlare delle imprecazioni di chi sta giocando a biliardo in fondo e la macchina del caffè.

Nonostante ciò mi sorprendo della mia lucidità con cui cerco di tagliare corto, chiamare con una scheda telefonica un cellulare costa un’esagerazione e quando metto giù e controllo il credito sul display che qualcuno ha cercato di liquefare con la fiamma di un accendino torno a pensare a cosa non si fa a volte per amore. Cerco di ricordare un titolo di un film in cui si parla di una storia tra due fidanzati di classi sociali differenti per rincuorarmi con un paragone, ma a parte un musicarello con Albano e Romina in cui Albano fa il povero e alla fine prende a pugni il pretendente figlio di papà che si è messo di traverso tra le loro vite non mi viene in mente nulla.

Una volta Lisa mi chiama e mi dice se mi va di seguirli, lei, tizio e caio per una passeggiata. Io capisco quattro passi in centro e metto le scarpe della domenica. Lei intendeva invece una camminata sulle alture, ma giuro che non l’aveva specificato, così ho fatto la figura di quello che si mette in tiro per andare per sentieri. E il problema si manifesta in tutta la sua gravità qualche giorno dopo perché sono stato invitato ad accompagnare Lisa a un matrimonio di una coppia di suoi amici, gente upperclass con cognomi da editori e uomini politici conosciuti sulle spiagge in via di estinzione del nord della Sardegna. Ho solo un completo fuori moda e di cattivo gusto acquistato a caso su insistenza di mia madre e almeno di due taglie in più per un’altra cerimonia, le seconde nozze di mio cugino che, per farvi capire lo scenario, sono state celebrate dal leader di una nota blues band del nord Italia che al tempo era anche assessore, presumo e spero per lui alla cultura.

Quando mi presento sotto casa di Lisa lei non si sforza di nascondere il suo disappunto sul mio look e sulla scia di un litigio furioso  – “lo sapevo che avrei dovuto vedere prima cosa ti saresti messo!” – sto per salire in macchina per scappare da lì ma nel frattempo arriva l’altra coppia con cui faremo il viaggio. Non c’è scampo, sarò l’invitato messo peggio. La giornata è tutta in salita con i numerosi cliché del meno abbiente rozzo e inadeguato che si trova a condividere esperienze con l’alta società, avete presente quelle situazioni con l’etichetta, le posate, le smancerie, i nomignoli da animali domestici e i bicchieri da usare eccetera. Nel corso dei numerosi buffet e pasti che scandiscono un programma a sei zeri (siamo nell’era delle lire oltreché del doppino telefonico) mi rendo conto che la qualità delle portate non è proprio niente di che. Il vino invece merita. Ridono tutti, qualcuno inciampa negli abiti da sera, qualcun altro sbircia nel Rolex se si è fatto tardi, c’è anche la musica e le carampane sono le prime a cercare di muoversi a ritmo sotto lo sguardo standard  dei loro mariti ingegneri.

La dinamica del ricevimento, organizzato in un castello con cappella annessa nei dintorni di Milano, culmina con il taglio della torta. Lo sposo e la sposa con le mani giunte sulla mannaia, il tavolo imbandito all’esterno, la musica di “Via col vento”, i fuochi d’artificio e le colombe, lì per lì li ho scambiati per piccioni, che vengono liberate sulla testa dei due sposini a loro rischio e pericolo. Lisa si è ammorbidita poi durante il giorno come le spalline del mio vestito, voglio dire tutto sommato io ero anche una delle cose meno kitsch viste in giro ma non lo si poteva dire. Comunque meglio non sistemarsi vicini in auto. Lei dietro con l’amica e io davanti con il marito, che avvia una conversazione difficile da seguire per via del suo alito che con tutto quello che c’era a disposizione ne è uscito fortemente penalizzato. Lui mi parla e non riesco a voltarmi dalla sua parte – per ridere dico spesso che avendo un naso di dimensioni spropositate ho anche un’ampia superficie destinata alla percezione sensoriale –  ma questo non costituisce un deterrente alla sua voglia di chiacchierare. Poi dietro le ragazze si addormentano e poco dopo anche io. Mi cade la testa. Ogni tanto mi sveglio e la tiro su, un rallentamento o uno scossone della station wagon durante un sorpasso, e anche se ho perso il filo di quello che mi sta dicendo mentre guida cerco di arrivarci da me e di rassicurarlo con qualche parola attinente e messa nei punti giusti.

economie di scala

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Per scherzo dico spesso che l’unico modo per ammortizzare i costi di un’uscita al ristorante è quello di spazzolarsi tutto e non lasciare nulla nel piatto, è un mio cavallo di battaglia per rompere il ghiaccio alle cene con sconosciuti. Succede che qualcuno non coglie il sottile nonsense della battuta ma nella maggior parte dei casi tutti pensano che sagoma questo plus1gmt. Si tratta comunque di un approccio molto microeconomico che non va affatto bene nei locali eat-all-you-can in quanto è impossibile quantificare il reale corrispettivo in cibo del prezzo forfettario, voglio dire non puoi imbibinarti con tutto quello che c’è sul buffet fino a star male.

Stesso discorso per la comune pratica dell’apericena, un neologismo di cui avremmo fatto tranquillamente a meno. C’è un bar che si chiama come uno dei più importanti registi italiani di sempre dove vai e paghi quattordici euro e scegli l’aperitivo che preferisci e poi ti allenti la cintura dei pantaloni perché puoi riempire i piattini fino a scoppiare. Io non ci sono mai stato ma l’ho sentito raccontare proprio così e, sapete, laddove uno percepisce esperienze altrui che possano essere degne di divulgazione perché non scriverle nero su bianco. Quattordici euro e alla fine esci che hai già cenato perché mangi qualsiasi cosa, anche i risotti ci sono oltre agli altri avanzi dei ristoranti della zona che anziché gettare il superfluo lo rivendono ai bar insieme agli scarti salvati dai piatti a fine serata. Dicevano anche che il problema è se poi finisci quello che hai preso da bere e ti viene di nuovo sete. Sapete quanto hanno chiesto a un amico di quello che consigliava il locale che si chiama come un regista italiano famosissimo per una bottiglietta d’acqua naturale da mezzo litro? Cinque euro. A quel punto ha detto che si sarebbe piuttosto bevuto una birra. Va bene, vuoi la birra? Dieci euro, con i palmi delle mani spalancati e rivolti verso di me, cinque dita aperte sulla destra e altrettante sulla sinistra. Meglio tenersi la sete, a quel punto no?

È che viene da darsi le dritte e farsi le confidenze, solo così ci sembra davvero di avere una vita in back-end, come si dice tra informatici, anche se non la si ha e quando siamo con il front-end attivo, cioè c’è qualcuno che ci sta consultando, dobbiamo far vedere qualche risultato. Ci sono quelli che ti danno addirittura particolari piccanti sulla loro vita privata che tu non glieli hai nemmeno chiesti, ma si dice che sia una caratteristica tutta maschile quella di millantare le prodezze sessuali. Non so, saranno le mie frequentazioni ma devo proprio risalire alla notte dei tempi per ricordare qualcuno che raccontasse a vanvera di essere stato in intimità con questa o quella, e a dirla tutta trattandosi di maschi alfa quattordicenni o giù di lì è facile che si trattasse di racconti letti su giornalini zozzi e fatti propri per apparire scafati agli altri. Ripensare a tutte le idiozie altrui a cui abbiamo dato credito nella nostra vita ti dà il senso del tempo perso nella vita sociale, per un totale di giorni settimane o mesi che nessuno ti ridà più indietro e pensi che cavolo, se anziché uscire con gli amici fossi andato al cinema oggi sarebbe tutto diverso. Saremmo tutti enciclopedie Mereghetti.

Ma non è del tutto vero. Qualcuno più grandicello che vuole condividere con te la sua ars amandi lo trovi, e si tratta per lo più di svitati. C’era un cameriere del bar dell’università che, malgrado la confidenza che si possa avere con uno che ti impiastra la superficie del cappuccio con disegni che vede solo lui, a tutti costi ha voluto raccontarmi della vicina di casa quarantenne – ai tempi non si chiamavano ancora MILF, il porno su Internet non era ancora stato inventato e ci si divertiva da soli ancora con il cartaceo e tutto quello che può comportare quel tipo di divertimento con materiale cartaceo, non so se mi spiego, soprattutto scambiandolo con terzi, anche questo è una sorta di digital divide ante-litteram – che lo invitava a casa sua quando il marito era in negozio. Io seguivo la dovizia di particolari con accondiscendenza perché non volevo deluderlo, lui ci teneva così tanto e io, come sapete, considero il sacrificio alla felicità altrui un po’ come una mia missione. Sono un ottimo ascoltatore, non dimenticatelo mai.

Chiudo questo siparietto a luci rosse con il signor Antonio, anziano compagno di degenza in ospedale in occasione di un intervento a cui mi sottoposi a vent’anni e rotti. Il signor Antonio era di Varazze e mentre sfumacchiavamo nell’apposita sala del reparto di chirurgia, ai tempi si poteva ancora fumare ovunque, alla prima occasione mi mise al corrente di alcuni episodi della sua giovinezza, quando un facoltoso commerciante suo concittadino lo pagava per aver rapporti intimi con mestieranti – quindi aggiungete anche il costo della controparte se volete farvi due calcoli sul budget dedicato all’entertainment di questo tizio – ma si limitava a osservare la scena e, come diceva il signor Antonio, a far da sé. Questo per dire che in realtà il commerciante voyeur non ammortizzava come fanno i giovani d’oggi che frequentano gli apericena di grido, cioè pur pagando due comparse in realtà lui si comportava come se fosse al cinema, dove di certo avrebbe risparmiato. Ma, come ci insegnano i tempi in cui viviamo, c’è chi per la lussuria non bada a spese. Il signor Antonio poi è stato operato prima di me, e la sera precedente all’intervento mi ha dato qualche gettone telefonico e mi ha chiesto di chiamare, non appena fosse uscito dalla sala operatoria, un suo conoscente. Il signor Antonio non era sposato, non aveva figli, non aveva nessun parente stretto, probabilmente il commerciante suo fornitore era già morto e lui, il signor Antonio, aveva soltanto un conoscente a cui telefonare per fargli sapere che l’operazione era andata bene.

il villaggio e il globale

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Nascere e crescere in un piccola città di provincia ti fa pensare che tutto il mondo è piccolo così, il cardine e il decumano che si incrociano e quei pochi isolati che formano il centro e spostandoti a piedi ti sposti ovunque, che poi ti trovi a Manhattan e pensi di fare lo stesso e ci riesci anche ma non è la stessa cosa, arrivi a sera e ti meriti un pediluvio, altro che localini e New York by night. Allo stesso modo ma in scala diversa, se sei abituato alle grandi distese canadesi e qualche centinaio di chilometri al dì per te sono bazzeccole – è una storia vera – succede che un dittatore libico lancia un paio di missili su Lampedusa e così chiami i tuoi parenti in Piemonte, Italy,  per accertarti che vada tutto bene e che i missili su Lampedusa non abbiano scalfito le Alpi.

A me però fa sorridere di più il primo caso, che poi è anche il mio, avere le radici ai margini che ti nutrono dentro il modello locale applicato su grande scala, come quell’insegnante di campagna che ci raccontava che al suo paese c’è un fiume, un affluente del Po, e che ha da sempre importanza strategica tanto che fiume, nel suo dialetto, si dice come il nome proprio di quel corso d’acqua e così se sei a Londra, per dire, e vuoi condividere con il tuo compagno di viaggio che quello che c’è sotto il Ponte di Londra è un bel fiume chiami il Tamigi con lo stesso nome dell’affluente del Po in cui vai a pescare le trote. O se parli con forestieri gli indichi strade e frazioni come se in tutta Italia si studiasse in geografia la toponomastica di un borgo di qualche migliaio di anime, per di più di scarso rilievo economico e turistico.

Ma la gente lì è molto concentrata su quello che accade tra il cardine e il decumano che si incrociano e quei pochi isolati che formano il centro, ci sono quelli che acquistano entrambi i quotidiani locali – che ovviamente riportano quotidianamente le stesse notizie e spesso con gli stessi titoli – per tenersi aggiornati, soprattutto in cronaca nera o fattacci brutti, e dal loro punto di vista nel resto del mondo funziona così. Così quelli che abitano lì sono addirittura più informati dei loro figli su quello che accade a livello locale anche nelle piccole città distanti dalla loro in cui i figli si sono trasferiti, perché poi a occuparti di cose minuscole alla fine acquisisci la forma mentis e magari non sai come si chiama il Ministro dell’Istruzione o quanto era lo spread stamattina e non ti curi di politica internazionale ma se nell’asilo della cittadina lombarda vicino a quella dove abita tuo figlio hanno medicato una decina di bambini per l’eccessivo caldo o se crolla una casa a qualche centinaio di metri da lui è meglio subito sincerarsi che tutti stiano bene. I genitori chiamano i figli lontani e li mettono al corrente di quello che è successo con più dettagli di un Tg, calcando la mano sui punti più crudi, e ai figli conviene stare al gioco. Ma non avete sentito niente, ti chiedono. Grazie mamma non lo sapevo, ma a dire la verità stanotte mi hanno svegliato delle ambulanze passare e forse era appena successo. Ecco, le sirene spiegate di notte, la cronaca in diretta, il particolare in più e l’accondiscendenza. Basta poco per dare soddisfazione ai genitori anziani.

la musica è finita

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Dalla prima strettoia siamo usciti indenni, c’era un segnale grosso come una casa che avvertiva del restringimento della carreggiata. Come riflesso mi sono aggrappato al sostegno assumendo quella postura da anziano in automobile per la quale tutti ti prendono in giro, ma a dirla tutta l’ho sempre trovata molto comoda, sarà che tenere le braccia verso l’alto favorisce la circolazione (quella del sangue). Sta di fatto che mi rilassa viaggiare così. Ma quando avverto il pericolo e non sono io a guidare mi viene d’istinto di puntare i piedi come a premere un pedale del freno immaginario, nemmeno fossi su una vettura da scuola guida con i doppi comandi, mi spingo indietro con la schiena schiacciandomi sul sedile e dopo aver afferrato la maniglia cerco di capire cosa succede. E fortunatamente non è mai successo nulla di grave e nemmeno quella volta lì. È che Fede, che era al volante, l’avevo visto subito prima di partire che aveva qualcosa. Fede manifestava quel tipo di sbornia che hanno i tossici e gli ex-tossici e quelli che ne sono usciti ma mica tanto, dopo un paio di bicchieri gli scendevano le palpebre e sarà che aveva le guance scavate da tutti i denti che aveva perso e la mania di indossare camicie troppo larghe, quando lo vedevi barcollare non capivi che tipo di sostanze aveva dentro di sé. Due bianchi macchiati, una birra, una canna o la merda. O tutto insieme. Fede era appoggiato al bancone e beveva e sgranocchiava pistacchi fumandoci su Winston con il pacchetto morbido, li apriva al contrario non si sa bene il perché strappando la carta da sotto. Forse era una di quelle trovate che hanno i neofiti del tabagismo come girare la prima sigaretta quando togli l’incellofanatura o forse era solo un tic da ribellione all’autorità costituita e alle multinazionali americane. Poi siamo partiti per il solito posto del venerdì sera ma c’era solo lui con l’auto e il pieno contemporaneamente. Mezz’ora di litoranea per non pagare i quindici minuti dell’autostrada più cara d’Italia non era molto, ma sufficiente a stamparsi contro qualcosa. Io lì a fianco che armeggiavo con le cassette per far finta di nulla ho tirato su la testa giusto per vedere il muro a secco a pochi centimetri dalla portiera del passeggero e a girarmi dietro per capire come prendere in mano la situazione. Ma non c’è stato il tempo per attuare una strategia diversiva: la corsia si restringeva ancora all’inizio del ponte qualche centinaio di metri più avanti. Non è stato uno scontro frontale con un’ostacolo: la Fiat Tipo su cui viaggiavamo ha percorso tutta la lunghezza del guard rail raschiando la fiancata destra in un tripudio di scintille, meglio così perché in senso contrario stava transitando un autobus di linea e sbattere su un oggetto in movimento avrebbe avuto conseguenze diverse. Fede si è così svegliato, ha bestemmiato ma ha proseguito fino ad accostare la vettura al bordo della strada terminato il ponte. Il danno era evidente e solo di carrozzeria, ma per sdrammatizzare e per buttarla sulla casualità ho raccontato di quando a mio papà uno spargisale gli aveva aperto a metà la fiancata della Ford Taunus di famiglia come un apriscatole. Fede non si è offeso quando mi sono messo alla guida e ho portato tutti indenni alla meta della nostra serata. Lì però mi era passata la voglia, mentre Fede era partito subito con una serie di richiami – come li chiamava lui – per non perdere l’effetto allucinogeno per cui aveva pagato. A metà serata, malgrado la musica fosse più che accettabile, trovai Paola che si sedeva sempre di fianco a me in biblioteca quando studiavo lì, era con un’amica e doveva rientrare presto. Non avvisai nessuno che stavo per andarmene, sapevo che la decisione che avevo maturato era molto più articolata.

vivere e morire là

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Mi hai chiesto un parere, e io il parere te lo do volentieri anche se non sono uno psicologo, non ho una particolare sensibilità e ho la tendenza a sfruttare le tragedie grandi e piccole altrui per scopi narrativi. Nel senso che avendo maturato un po’ di tecnica nello scrivere dopo anni di esercizio quotidiano, appena mi capita sottomano una storia interessante o anche un spunto che mi solletica non faccio in tempo a metter giù la cornetta, che poi anche questo è un modo di dire perché il mio cellulare anche se da cinque euro è comunque un cellulare e non ha certo la cornetta, dicevo non faccio in tempo a salutarti e a chiudere la conversazione che già ho acceso il pc e cerco di ricordarmi più particolari possibili per dare forma alla trama di tutto rispetto di cui mi hai messo al corrente e per la quale alla fine mi hai tirato in ballo.

E chiedi a me di dirti se puoi considerarti in uno stato depressivo. Se intendi deprimente te lo confermo subito, non a voce per non infierire ma qui, mentre divulgo al mondo della blogosfera i fatti tuoi. Anzi, ti confesso che se il settore dell’editoria non fosse in crisi ci sarebbe spazio in abbondanza per vendere una vicenda come la tua, della quale andrebbero a ruba scommetto anche i diritti cinematografici. Se fossimo americani, le Correzioni a te e alla tua famiglia vi farebbero un baffo, sai che voglia che mi hai fatto venire di lavorare a un best seller con te come protagonista. Una bella storia, bella tra virgolette, in cui manca l’eroe perché chi dovrebbe mettere in salvo i deboli, e qui sentiti pure chiamato in causa, nel nostro caso a stento cerca di mettere in salvo se stesso ed è lui che aspetta qualcuno che gli posizioni la maschera per l’ossigeno, in questo rischioso atterraggio d’emergenza che è la tua vita. Continua a leggere

rough guide

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Ricordo che mi aveva colpito perché a 25 anni quella era la prima volta in cui si trovava all’estero, che poi l’estero in quel caso consisteva in poco più di trenta chilometri dal confine con l’Italia sulla costa francese e un centinaio da casa sua. Non era nemmeno al corrente degli accordi di Schengen e chissà cosa pensava di trovare alla dogana, che poi la dogana era stata smantellata e non c’era più ma già alle prime indicazioni che avvertivano dell’imminente stazione di frontiera aveva iniziato a preoccuparsi.

Guidava lui e si crucciava del fatto che non sapeva come sarebbero stati i cartelli stradali e la segnaletica, poi non sapeva una parola di francese e temeva di non riconoscere l’uscita. Senza contare la paura che i franchi che aveva ritirato non fossero sufficienti per i pedaggi, che la carta di credito non fosse accettata e che gli si guastasse l’auto che stava guidando magari di domenica e che ci fermasse la polizia francese per qualsiasi motivo e che la Francia dichiarasse guerra all’Italia e che gli venisse un infarto e non riuscendo a spiegarsi ai medici sarebbe morto. Continua a leggere

diviso un tempo dalle consuetudini amate, e infastidito nelle più interiori aspettative

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Ragazzi, non rimanete qui, andatevene via. Sì, dico a voi che siete nati qui come me, non mettete radici in questo posto. Nessun legame, niente fidanzamenti precoci con la fauna locale che ti pregiudicano gli spostamenti, o ancora peggio non sedetevi sugli allori della fama che la vostra cittadina di provincia vi riserva da giovani perché sapete fare bene una cosa o perché avete una qualche particolarità. Fuori da questo metro quadro non siete nessuno, non contate un cazzo. Non trascorrete i finesettimana a tessere relazioni e a farvi soffocare dall’apatia dell’assenza di stimoli e di opportunità. Restate a casa a studiare, piuttosto, a pensare a come valorizzare le vostre capacità, ora che avete anche gli strumenti per pianificare al meglio il vostro futuro dalla vostra cameretta passate il tempo in Internet e cercate di apprendere al meglio come potrete sfruttare il vostro talento fuori da qui. Mettete da parte i soldi, quelli che spendete in birre e superalcolici e telefoni cellulari e serate a ballare musica assurda e le droghe del momento per dimenticare il posto in cui abitate e la musica assurda che vi convincono a ballare e colmare con l’assentarvi dal presente quello a cui dovrete rinunciare nel futuro perché non c’è ora e non ci sarà domani, e vi assicuro che non c’è stato nemmeno ieri. Chi vi ha preceduto non l’ha mai costruito perché aveva altre sostanze stupefacenti come la pigrizia, l’illusorio appagamento delle bellezze naturali che poi bellezze non sono perché per arricchirsi in modo da poter rimanere e mantenersi qui chi vi ha preceduto ha rovinato praticamente tutto, precludendo l’unica fonte di futuro che potrebbe essere il richiamare persone a venire qui. Risparmiate quanto potete così da rendervi indipendenti appena avrete l’età e le possibilità per fare armi e bagagli e trasferirvi altrove. Tornate a casa subito, lasciate perdere lo struscio e il bar e gli amici, tornate a casa e dite ai vostri genitori che appena potrete ve ne andrete a studiare fuori, a lavorare altrove, a provare a esportare le vostre capacità per farle emergere perché qui non c’è spazio, non c’è la mentalità, non c’è niente. Ragazzi, non rimanete qui. O se vi piace così tanto questo posto, imparate ad aver cura di voi stessi altrove e poi, al limite, tornate qui ed esercitate quello che avete appreso nell’aver cura del territorio e della società che lo abita. Miglioratelo affinché i ragazzi come voi che vivranno qui nei prossimi decenni possano scegliere e non essere costretti. Io non ci riesco, mi dispiace, di questo posto non salverei nulla. Anzi, dubito che ci riusciate anche voi. Una volta che siete via, e vi capita di tornare, fate come me. Fate finta di non conoscere niente e nessuno e di non ricordare nulla.

post Stravinsky

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Ma che fine ha fatto Stravinsky, invece? Gestiva una specie di trattoria in cui si mangiava una farinata così così, ma il bello di quel posto era il fatto di costituire una sorta di enclave anarchica, quei locali che ai tempi li vedevi solo all’estero, nelle grandi città in cui tutto è lecito, o al massimo a Bologna. C’erano i muri neri ricoperti di scritte e disegni, anche io avevo fatto la mia,”Durutti Column”. Poi a un certo punto della serata Stravinsky si metteva a fare i giochi di prestigio, che a vederlo sembrava un mix tra Jacques Tati e Ian Dury, più Ian Dury che il primo, se non altro per la filosofia di vita. Da Stravinsky c’era il calcetto e un televisore con il videoregistratore e un po’ di nastri di concerti che se non c’era musica te li potevi vedere, roba abbastanza fuori dai circuiti. D’altronde lì era tutto fuori dai circuiti se non tutto fuori tout court, entravi e non sapevi come ne saresti uscito, in che condizioni e con chi. Una sera ho trovato quindicimila lire a pochi metri dall’ingresso, sono entrato e ho offerto da bere persino agli sconosciuti. E alla fine Stravinsky ha chiuso ed è sparito nel nulla, voci informate lo davano addirittura rifugiato oltre cortina in un paese del Patto di Varsavia, che da lì a poco si sarebbe infranto (il patto) e tutto il resto. Ma forse è tornato e non lo so, e scusate l’uso di questo spazio privato per motivi privati, è solo che ripensando a Stravinsky mi viene ancora il mal di testa per la qualità del vino sfuso e dell’untuosità della farinata. Ma nessuno allora ci badava più di tanto.

tutto il resto è noia

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L’ultima volta in cui ci siamo incontrati eravamo in un bar da fannulloni della riviera, io ero dietro un pianoforte elettronico e accompagnavo una cantante che non aveva ancora interiorizzato il fatto di essere lesbica, tu eri seduto a un tavolino con un noto spacciatore e due avanzi di bordello, ti sei fatto portare una bottiglia di champagne da supermercato pagandola più del triplo del suo prezzo, ne hai versato un po’ nella scarpa con il tacco della più buzzicona delle due, dopo avergliela sfilata, e lo hai trangugiato da lì, un po’ ti si è rovesciato sulla camicia di jeans che indossavi aperta sul petto. Poi ti sei sistemato il codino che raccoglieva sulla nuca quel poco di capelli sopravvissuti e mi ha richiesto una canzone, per fortuna non ricordo quale, da dedicare alla fortunata che ha dovuto rimettersi la scarpa bagnata di vino. Mi spiace, ti ho rimosso la mattina successiva a quell’episodio, non credo che accetterò la tua amicizia su Facebook.

scegli uno o due giocatori

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Era la stessa estate in un cui un loro amico era morto così, da un giorno all’altro senza una causa particolare tanto che si era diffusa la notizia di una malattia infettiva grave, tipo la meningite, e che la famiglia, piuttosto deprivata, non avesse voluto allarmare nessuno perché si vergognava. Ma sembrava più una leggenda metropolitana messa in giro da quelli che amano veder crescere il proprio prestigio con notizie horror o gratuitamente truci. Fatto sta che era proprio uno di loro a non essere più in vita, un loro coetaneo sparito all’improvviso, il giorno prima era qui con noi a sparare cazzate e oggi c’è già la notizia del decesso sulle pagine della cronaca, dicevano. Era bello, e le ragazze con cui aveva flirtato si scambiavano abbracci e piangevano leggendo i dettagli sul giornale appoggiate al frigo dei gelati al bar. Quelli che lo conoscevano meno, in ogni compagnia ci sono sempre quelli che sono lì da poco e non sono ancora del tutto inseriti, quelli si sforzavano nell’essere il più possibile consoni al mood del momento. Bastava anche solo stare in silenzio, guardarsi ogni tanto, accendere le sigarette agli amici che un po’ invidiavano perché erano più coinvolti e più in diritto di essere al centro della scena. Uno di quelli che lo conosceva più da vicino a un certo punto uscì in strada e prese a calci un cestino della spazzatura in metallo, che si sganciò dal supporto e rotolò in mezzo alla strada spargendo cartacce e lattine ovunque. Chi passava non capiva, così uno di loro spiegò la situazione a due signore che volevano avvertire i Carabinieri. Uno dei ragazzi più popolari raccontò di aver chiesto scusa a un anziano che lo aveva sentito mentre, da solo di fronte al manifesto funebre dell’amico, si era lamentato del fatto che il Signore si fosse preso un ragazzo nel pieno della giovinezza anziché un vecchio. Il resto della compagnia ascoltò quell’aneddoto che immediatamente venne eletto a sintesi perfetta dello stato d’animo comune, il particolare da raccontare a chi non era lì a vivere quel momento a caldo, non ci fu nemmeno bisogno di una votazione ma bastò qualche sguardo tra gli occhi gonfi. Poi c’erano due di quelli che erano lì non proprio tutti i giorni, ma che vista la gravità del momento si erano adeguati a quelle iniziative, spontanee e non, di condivisione del dolore. Era appena passata la metà di agosto, c’era il sole caldo ma l’aria non lo era più a causa del temporale della notte prima. Le onde erano ancora belle alte, rubare tempo alle vacanze agli sgoccioli sembrava uno spreco e il ricordo di un coetaneo mancato lo si poteva anche celebrare in acqua. Così scesero sulla spiaggia, lasciarono i pochi vestiti a distanza di sicurezza dalla gittata delle onde e si tuffarono. La temperatura sotto era diminuita, e anche lasciando fuori all’aria solo la testa veniva la pelle d’oca. Nuotarono in silenzio per un po’, poi si guardarono aspettandosi a vicenda, chiedendosi chi per primo dei due potesse sdrammatizzare un concetto mai provato allora, quello di fine prima del tempo, attraverso una smorfia o un ghigno, anche di circostanza. Perché era tutto nuovo.