ora vi spiego xFactor

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Ora vi spiego xFactor, il mondo ha bisogno di un’opinione definitiva in materia. Qualche settimana fa su MTV hanno trasmesso alcuni estratti dalle selezioni di XFactor UK e chi ha visto il programma ha compreso quanto il divario qualitativo tra i candidati inglesi e quelli che si presentano a xFactor Italia sia fin troppo evidente. La ragione? In Gran Bretagna c’è un’industria del pop e del rock talmente sviluppata che non ha certo bisogno di un canale come xFactor. C’è tutta un’economia con il suo indotto e non si tratta, naturalmente, solo di roba commerciale. Pensate a tutto il sommerso – nel senso di underground – che comunque consente a un sacco di giovani di campare o sbarcare il lunario con la musica, a partire dai locali dove si può suonare ed essere pagati. A xFactor UK ho visto gente che in Italia la vedi solo esaltarsi nei bar karaoke di provincia. In Italia, dove a nessuno gliene fotte della cultura e della musica, tantomeno di fare impresa in questo settore, xFactor e i talent sono l’unica possibilità di avere visibilità e, forse, un seguito. Un po’ di successo.

Ma qui viene il bello. Avete mai letto che fine hanno fatto finalisti e vincitori? A parte Mengoni e Giusy Ferreri, quanti ve ne ricordate? Eppure, a vedere i Bootcamp della nuova edizione – ho seguito eccezionalmente la prima parte del girone eliminatorio su Sky ieri, eccezionalmente perché ero da mia mamma che è abbonata mentre io no – quasi tutti gli artisti e i gruppi non erano niente male. Ma al di là della bravura e della tecnica, si tratta di gente con un proprio stile che può piacere o no, ma la personalità che è unica per un cantante o una band è quello che poi – in un paese ideale in cui c’è un mercato, un pubblico e soprattutto un’educazione all’ascolto e alla musica in genere – li fa emergere, gli fa vendere i dischi, gli riempie i palazzetti ai concerti. Ma poi, una volta scelti e triturati nell’ingranaggio dell’icsFactor che altro non è che una fabbrica per l’industrializzazione delle pop-star, escono tutti appiattiti nelle banalità di ciò che un sistema tipicamente italiano e che è composto da SIAE, tv di stato, reti commerciali radiotelevisive e annessi e connessi impone, al massimo per un introito nell’immediato che ingrassa quelle poche entità che ho elencato qui sopra.

Risulta evidente che a xFactor i talenti hanno valore per il programma in sé e la sua audience, mentre il programma per i talenti non fa nulla. Anzi. Gli succhia via la loro essenza e gli innesta un blobbone di tutto quello che vedete durante la trasmissione per lasciarli poi orfani di tutto e della loro individualità alla fine, sedotti dal successo e abbandonati all’oblio, sia che i partecipanti siano stati eliminati nel corso della stagione o che abbiano vinto. xFactor trasforma artisti interpreti di se stessi in prodotti interpreti del’xFactorismo, che è una trasmissione televisiva che può piacere o no ma nulla ha a che vedere con una festa della musica. E poi i cosiddetti giudici che competenza hanno, a parte l’essere del settore o musicisti di successo, che non c’entra con il riconoscere i talenti? Nel 2015 non sapere che cos’è una loop station – quel marchingegno che Sara Loreni, la cantante che si è ritirata, utilizza per creare basi in tempo reale per i pezzi che canta – quando c’è gente che smanetta con i campionatori dagli anni 90 è disarmante. Solo Skin, che non è italiana, è riuscita a dare un giudizio sulla cantante avulso dalla situazione in sé (una ragazza con un coso soprannaturale che registra i suoni e li mette a tempo!!11!!).

Però in Italia funziona così e un’occasione come xFactor è tutto grasso che cola. Come per tutte le professionalità di cui il mercato italiano non sa che farsene e che costringe menti sopraffine a fare gli operatori nei call center o i cassieri al supermercato (con tutto il rispetto eccetera eccetera), così anche i bravi musicisti devono scendere a patti e prendere la qualità entry level della vita. E se tutto questo era latente nelle precedenti edizioni con i cantanti singoli, l’evidenza è esplosa quest’anno con le band, o almeno ci sono arrivato io solo ora perché ho fatto parte di band in passato e ho visto una puntata intera di xFactor solo ieri per la prima volta. Troppo poco per spiegarvi xFactor?

grazie xfactor per aver fatto conoscere gli asian dub foundation a mia figlia

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Nell’anno domini 2014 anche il grande pubblico finalmente si accorge degli Asian Dub Foundation, potremmo dire quasi fuori tempo massimo considerando che la band anglo-asiatica ha già ampiamente dato il meglio di sé prima che Deeder Zaman, il primo storico vocalist e frontman, abbandonasse il gruppo. Ed era il duemila e uno. Potete immaginare gli ultimi tredici anni che si, per carità, gli ADF hanno fatto comunque cose di qualità ma niente di paragonabile a quel “Community Music” che, pubblicato nel 2000, è stato un vero e proprio manifesto della promiscuità (in senso positivo) culturale, considerando che Londra, in quanto a mescolanza, non deve prendere lezioni da nessuno. Tutto questo fino a qualche sera fa, quando uno dei candidati al titolo di quello che ormai è assurto a principale evento socio-televisivo dell’anno, più di Canzonissima, più di Elisir, e addirittura più di Protestantesimo, pare aver sbaragliato tutti i concorrenti con una reinterpretazione di “Flyover” degli ADF, tratta dell’album “Tank” del 2006. Vi riporto informazioni di risulta, non ho un abbonamento Sky ma ogni tanto scrocco passaggi televisivi a vicini consenzienti. La morale è che ora gli ADF sono finalmente sulla bocca di tutti, pure mia figlia mi ha chiesto di caricargli la canzone cantata da Madh, e circola addiritutra una leggenda metropolitana secondo cui gli Asian Dub Foundation in persona hanno chiesto di poter visionare il filmato della puntata del talent show italiano per valutare la resa del loro pezzo arrangiato secondo i canoni della neo-melodia italiana. Io, lo sapete, sono del partito che vuole comunque il ritorno di Deeder Zaman, l’unico deus ex machina in grado di scoraggiare i morgan e i fedez del caso dalla scelta di cover inappropriate e indirizzarli verso repertori più alla portata dell’ormai consolidato gusto nazional-popolare.