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Secondo i miei calcoli a oggi devo averlo fatto almeno 16.000 volte, non sono poche. E ogni volta che mi ripeto subentra la contrapposizione tra il ristoro che si prova e l’incognita di quello che succederà entro poco tempo, almeno si spera, con il sopraggiungere del sonno. Il coricarsi è una delle consuetudini più radicate nell’esistenza di ciascuno di noi, si tratta di un rito che seguiamo tutti ogni giorno in tutti i giorni della nostra vita, e lo faremo fino alla fine, anzi con probabilità sarà quella l’azione decisiva. Non a caso ogni sera, per chi come me rispetta in modo tradizionale il susseguirsi di luce e buio, ogni sera durante quegli istanti di veglia a intermittenza giacciamo vulnerabili e consenzienti nell’attesa di smarrire i sensi, fino a quando saltiamo dall’altra parte e come se niente fosse ecco che si ritorna in sé, basta un suono o un movimento o un digrignare di denti o un piede gelido addosso. Ma il fatto è che il tempo in cui si è stati privi di conoscenza in alcuni casi è lungo, anzi c’è chi consiglia di coltivare l’abitudine a rimanere fuori di sé anche a blocchi di otto ore. Per me resta un mistero il fatto che si aneli così fortemente a questa cessazione temporanea della ragione, una modalità di stand by con la lucina accesa che consuma ma che è sempre meglio lasciare così.

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