flixbus

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Con l’introduzione dell’orario definitivo ho ripreso a fare musica in classe. Ieri – è stata la prima lezione dell’anno – per partire con il piede giusto ho creato insieme ai bambini, che a dir la verità sono quasi ragazzi, siamo in quinta, una playlist di classe su Spotify. L’iniziativa fa parte di una serie di attività che vorrei portare a termine quest’anno finalizzate a cose che mi piacerebbe che i miei alunni portassero con sé lungo il percorso che li aspetta da giugno in poi. Qualcosa che, da grandi, guardandolo o ascoltandolo o leggendolo possano ricordarsi della nostra esperienza comune, quello che abbiamo fatto, il tempo trascorso insieme, le esperienze condivise, l’amicizia con i compagni.

Il rischio è che sia uno sforzo inutile, un progetto fine a se stesso. Non c’è passaggio di crescita come quello tra l’infanzia e l’adolescenza in cui ci si vergogna e si gettano via le cose del passato e, giustamente, si guarda al futuro, senza contare che, diventando grandi, è facile dimenticarsi di reminiscenze così remote. Non solo. Molti dei manufatti – fisici o virtuali – che si realizzano a scuola sono costruiti con materiali che si guastano nel giro di poco tempo. Anche se fossero fabbricati in acciaio o in qualsiasi altra lega metaforica, guardiamo i prodotti dell’educazione dei nostri figli alla primaria sicuramente con nostalgia ma consapevoli che non c’è spazio – se non volatilissimo, per esempio sotto il piatto del pranzo di Natale – nella vita e negli ambienti degli adulti per le cose da bambini. Pensate se avessimo conservato gli scarabocchi o le statuine in das di tutti i figli degli esseri umani dagli uomini primitivi in poi. Provate a sbirciare con occhio più responsabile nelle vostre cantine, nei vostri vecchi hard disk o anche nelle vostre coscienze. Noi insegnanti, per primi, siamo consapevoli che i bambini dicano e facciano e scrivano e propongano e pensino un mucchio di stronzate che per la vita e il mondo e la storia e l’economia e la politica sono superflue, peraltro sprecando una quantità di energie e di risorse con le quali potremmo risolvere come minimo il problema della fame nel mondo. Pensate quanti dischi potreste comprare con i soldi che spendete per giochi dei vostri figli, ecomostri in plasticaccia con tempi di degradabilità calcolati in ere geologiche, costruiti in Cina e progettati con un ciclo di vita inferiore alle 24 ore. Potremmo imparare qualcosa, se ascoltassimo i nostri figli, è quello che ci diciamo sempre. Ma poi qualcuno ci ruba il parcheggio, ci passa davanti in fila alla cassa dell’Esselunga, ci chiama per cambiare gestore del gas, prendiamo una multa e siamo daccapo.

La playlist di classe, i brani li scelgono loro, com’è facile immaginare è una scaletta vergognosa. Vi dico solo che l’unica canzone che si salva è il tormentone di Bruno Mars, per il resto c’è da mettersi le mani nei capelli. Forse il percorso evolutivo degli esseri umani è stato pensato così proprio per evitare, una volta grandi, di provare vergogna per i gusti di merda che abbiamo da piccoli. E, in questo periodo storico, con il pop puberale abbiamo davvero toccato il fondo ed è un peccato, perché non ricordo di aver ascoltato novità musicali interessanti come negli ultimi dieci anni a questa parte. Ieri sera, per dire, ho seguito la prima puntata in chiaro delle audizioni di Xfactor e la cultura musicale che c’è in giro è talmente disarmante che ho spento la tv, dopo la sigla finale, con un fortissimo senso di colpa per aver sprecato così tanto tempo in un’attività inutile. Che mi serva da lezione, mercoledì prossimo metterò su un ellepì della mia collezione, guarderò un film, leggerò un libro, andrò a prendere un gelato con la mia famiglia, ci sono tante cose più interessanti della deriva della società contemporanea ai tempi della meloni.

Qualche barlume di speranza sul futuro me la restituisce mia figlia, anche se so che sono di parte. Non avendo nulla da insegnarle, perché sostanzialmente non so combinare granché, però sono riuscito almeno a trasmetterle un po’ di amore per la musica, credo lo stesso che mi hanno trasmesso i miei genitori che, a loro volta, hanno ricevuto dai loro e così via, chissà fino a quante generazioni a ritroso nella mia famiglia. Oggi l’amore per la musica nei giovani non è così scontato, lo so di scrivere una banalità ma è così. La musica è un aspetto a corollario di altre cose, meme, videogame, balletti su TikTok ed esibizionismi di questo tipo, ma non ci si concentra più sull’atto artistico che sottende ai sottofondi della nostra vita, del nostro divertimento, dei nostri momenti romantici, di quando ci sfoghiamo o balliamo o ci viene nostalgia perché una combinazione di note ha fatto vibrare chissà quale cellula del nostro corpo. La musica deve vedersi in video, altrimenti è palpabile poco più del gas di scarico di un’auto.

Mia figlia ha il mio stesso approccio ossessivo alla musica, forse non è bello ma cosa ci volete fare. Nel giro di qualche mese è andata poco più che in giornata a Viareggio a vedere Lana Del Rey, a Monaco di Baviera per il concerto di The Weekend (“papà all’Ippodromo di San Siro c’è un’acustica pessima e poi c’è troppa polvere”), nei dintorni di Firenze per un happening di techno che è durato dodici e ore e a Napoli per vedere Liberato in piazza del Plebiscito. È partita di notte con un Flixbus da Milano, si è ricongiunta all’arrivo la mattina dopo con alcuni ex compagni di liceo che erano già lì, ha visto il concerto la sera, ha dormito da un’amica e la mattina dopo è rientrata in treno. Mi ha condiviso un po’ di foto e di video che mi hanno confermato che, per me, la stagione dei concerti è finita. Un mare di smartphone puntati verso il palco a riprendere pezzi di esperienze a cazzo che poi nessuno rivedrà mai più, come le letterine per la festa del papà o i lavoretti di pasqua e tutte quelle cose che si preparano a scuola e che nessuno ha ancora capito che fine facciano.

il budino senza la carne

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Another Brick In The Wall è un po’ l’Attimo Fuggente della musica, un prodotto culturale pensato per scardinare i paradigmi della scuola borghese e gentiliana in favore di una didattica più moderna e inclusiva, per non dire meno bacchettona. Sarà per questo che il contact center telefonico dell’azienda tutta italiana (è bene specificarlo per allinearsi alla narrazione meloniana del nostro paese) che produce uno dei servizi di registro elettronico e scuola digitale più diffuso in Italia – di certo il meno caro e di sicuro quello sviluppato peggio – lo ha impostato come musichetta di attesa.

Se frequentate le segreterie scolastiche in questo periodo vi capiterà di sentire Another Brick In The Wall come sottofondo musicale agli sfoghi di rabbia, agli screzi, agli improperi e agli sbotti isterici del personale amministrativo spesso sottodimensionato che, in una manciata di giorni, si fa in quattro per rimettere in moto una delle macchine organizzative più complesse del mondo e che, a fronte di funzionalità dimenticate o bug nativi dei programmi utilizzati, necessita di supporto. Non c’è tempo per smanettare o andare per tentativi. Questo induce all’assistenza che, sotto il tiro simultaneo di migliaia di scuole, lascia in attesa senza tanti complimenti il personale bisognoso e Another Brick In The Wall, trasmesso in viva voce, va avanti per ore. Il perché della scelta di questo brano non ve lo sto nemmeno a dire. Il mondo va così: si parla di vittorie e mettiamo “We Are The Champions”, si parla di finanza e mettiamo “Money”, si parla di scuola e mettiamo “Another Brick In The Wall”.

Il punto è che i servizi di centralino spesso non prevedono la possibilità di impostare un brano musicale dall’inizio alla fine, e l’edit a cui siamo esposti, focalizzato sui versi più significativi del celebre concept dei Pink Floyd – non abbiamo bisogno di istruzione! Hei, maestro, lascia in pace i bambini! – ci sottrae a uno dei soli di chitarra più riconoscibili del mondo, restituendo un’esperienza parziale di ascolto attraverso un loop che non rende giustizia alla sua portata dirompente. La musichetta di attesa arriva a un punto, poco dopo il primo ritornello, e poi riparte da capo, “We don’t need no education” eccetera eccetera, con una vocina beffarda che avvisa che sarai il prossimo a essere servito secondo però una cognizione del tempo ampiamente arbitraria.

La qualità della vita della prima settimana di scuola dopo i cinque mesi di vacanza di cui beneficiamo potrebbe essere quindi soggetta a una maggiore cura, e non mi riferisco solo all’effetto audio da scatoletta dei telefoni fissi di una segreteria di una scuola nell’Italia meloniana. Gli uffici sono rigorosamente privi dell’aria condizionata, alla faccia della ripresa e della resilienza, e i docenti che danno una mano ai pochi amministrativi sopravvissuti alle nomine ancora da fare e ai colleghi che si danno malati per evitare l’onda d’urto dei primi giorni si spartiscono pizze consegnate a domicilio nel cartone unto (la mia rigorosamente salsiccia e friarielli) e lattine mignon di bevande gassate acquistate a pochi centesimi al distributore in sala docenti. Il tutto a scapito della didattica: configurare le piattaforme digitali, sistemare i danni che i precedenti impiegati hanno procurato prima di beneficiare del trasferimento a Pozzuoli o altri borghi meloniani del sud che ci invidia tutto il mondo, spostare monumentali armadi stipati di materiale obsoleto e aggiornare firmware a dispositivi digitali sottrae energie al nostro core business, che è l’educazione dei vostri figli.

Nonostante questo, il nostro continua a essere il lavoro più bello del mondo e, anzi, la varietà di attività – dai metodi innovativi per l’insegnamento della matematica alla sostituzione dei toner – lo rende ogni anno sempre più avvincente. Non dovreste infatti mai perdere di vista il fattore umano, della scuola. Il mio collega di sostegno che comunica in calabrese ai genitori cinesi del mio alunno ACD è stato assegnato ad altre vittime, quest’anno, ed è una bella notizia. Mi sono fatto fidelizzare dal parrucchiere che ha la bottega proprio di fronte alla primaria in cui sono in servizio, mi ha già tagliato i capelli tre volte, e mi capita spesso di incrociarlo, in questi giorni di preparazione, quando esco pezzato dal cancello della scuola per rientrare a casa. La mia è una scuola di paese, con la p minuscola ma comunque sempre nell’accezione meloniana, anzi di frazione di paese, che forse è ancora più meloniano. Se incontro qualcuno nei paraggi sorrido e saluto sempre perché è facile che abbiano figli o nipoti che studiano da me. Ieri mi sono imbattuto in una donna musulmana tutta imbacuccata con due figlie al seguito. La più grande mi ha sorriso, piena di riccioli e di vitalità, probabilmente mi ha riconosciuto ma io no, mica posso ricordarmi tutte le facce, e di rimando – per non sbagliare – ho ricambiato. La mamma si è voltata dall’altra parte, coprendosi immediatamente il viso con il velo, forse fraintendendo il mio interessamento.

hobby&work

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La scuola è un lavoro meraviglioso e allo stesso tempo un hobby appassionante. Si lavora nelle ore di servizio, in mensa e in programmazione. Terminate le ore in classe ci sono poi i consueti straordinari per finire tutto il resto che nel tempo regolamentare abbiamo lasciato a metà, un insieme di cose che va dalle correzioni delle verifiche, i giudizi descrittivi da articolare nel registro elettronico, la preparazione delle lezioni successive e molto altro. Infine, concluso tutto questo, possiamo dedicarci al nostro hobby preferito nel tempo libero che è ancora la scuola, con le numerose email di colleghi e genitori che meritano una risposta, i corsi di formazione da seguire o i confronti sulle piattaforme social inerenti i macro-temi della pedagogia o delle discipline che insegniamo, oppure qualche fuori programma comunque sempre riconducibile alla nostro lavoro che alcuni dicono essere una missione ma poi, chi è di questa idea, lo ritrovi spesso in prima linea a denigrarci quando (e scusate se mi ripeto) qualche dipendente pubblico fantastico in grado di esercitare superpoteri come assentarsi 20 anni su 24, o spararsi Napoli – Milano a/r in giornata, sale agli onori della cronaca.

Ma, a parte questa letteratura da spiaggia, la meraviglia della scuola è che è il mestiere in cui, più di ogni altro impiego, un individuo può davvero sentirsi utile. Non avete idea di quanto sia facile darsi da fare per il prossimo. Lo so, direte voi, può sembrare facile, in un ambiente composto al 99% di esseri umani (studenti, genitori, bidelli, docenti, personale amministrativo) e dall’1% di asset. Lanci una buona azione chiudendo gli occhi e stai sicuro che comunque riesci a colpire qualcuno. Fare cose per gli altri, a scuola, è facilissimo. A volte in queste buone azioni ci passi dentro come quei videogiochi in cui SuperMario attraversa le monete per aumentare il punteggio, avete presente? Questo perché tutti, nella scuola, hanno bisogno di qualcosa ed è un qualcosa che è alla portata di tutti gli altri. Oppure ci si può anche impegnare, a essere utili, ci si può mettere all’opera e cercare cosa c’è da fare per la collettività e, come potete immaginare, è un po’ come quando sollevi una botola e ti trovi sotto una stanza del tesoro.

Stamattina mi è capitata una cosa bellissima che rientra in quei casi in cui, ad aiutare il prossimo a scuola, ti ci imbatti dentro. Non c’è molto da dire: una ragazzina in attesa del suo turno all’orale di terza media è andata nel panico perché non riusciva più ad aprire la presentazione che aveva preparato da esporre alla commissione. Io non insegno alla secondaria, ero lì perché c’è l’ufficio della mia dirigente ed ero in meeting con lei. Anzi, a onor del vero stavo già tornando a casa ma la dirigente mi ha telefonato per chiedermi se potevo tornare indietro. La ragazzina era completamente in tilt, altrettanto la mamma che avrebbe dovuto infonderle coraggio e così anche la nonna, che non sapeva che pesci pigliare. Ci siamo messi all’opera sul suo PC e in pochi minuti la sua presentazione sul razzismo è tornata a rifulgere in tutto il suo splendore. La mamma si è commossa, la nonna si è esaltata, la ragazzina si è calmata e, constatato che tutto era sotto controllo, questo miracolo ha definitivamente sancito la fine della mia giornata lavorativa, pronto a dedicarmi – una volta rientrato a casa – al mio hobby preferito che avrete capito qual è.

ti sblocco un ricordo

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Ogni tanto scatto uno screenshot del mio collega di sostegno durante i GLO del mio ACD (anche la scuola in quanto ad acronimi non scherza) su Meet e lo mando alla sua responsabile del comprensivo in cui insegno per farci due risate. Le scrivo sempre la stessa didascalia, “ti sblocco un ricordo” perché io sono uno dei tanti maschi etero bianchi della terza età che fanno sempre le stesse battute perché, in primis, fanno ridere me e per questo non ho intenzione di desistere. Ma la Franci, la responsabile si chiama così, credo che apprezzi il mio senso dell’umorismo da sad dad, come direbbero i The National, e quindi continuo imperterrito sul medesimo registro. Le espressioni che il mio collega di sostegno fa sono un compendio delle macchiette della commedia scollacciata all’italiana e meritano di essere immortalate. Peccato non possa sbloccare un ricordo anche a voi.

Per farvi capire, quando facevo il copy, nella mia agenzia avevo un web developer nemmeno tanto giovane che faceva così tardi a giocare ai videogiochi durante la notte che poi, di giorno in ufficio, seduto alla scrivania di fronte alla mia, si addormentava in continuazione. Io gli scattavo delle foto di nascosto durante le sue reiterate pennichelle al computer e poi le mandavo alla sua responsabile che lavorava in remoto ma non a scopo delatorio, ci mancherebbe. Il punto è che bisogna imparare a stare al mondo e certe cose te le puoi permettere solo se fai le scuole medie. Era una gag consolidata, io le inviavo alla sua capa e ci facevamo grasse risate su whatsapp, e ho continuato a farlo (avevo messo su una collezione così ampia che, se non avessi rischiato querele e chissà cos’altro, mi sarei potuto poporre per una mostra fotografica o per lo meno andare on line con un blog tematico sul fannullonismo) perché so che lei apprezzava proprio come la Franci quando le mando gli screenshot del mio collega di sostegno.

Quest’anno l’hanno affibbiato a me con la scusa che sono vicepreside ma anche perché sanno che ho un temperamento paziente. Ce lo siamo passati un po’ tutti, poi a fine anno scolastico i malcapitati di turno – l’ho appena fatto anch’io, qualche settimana fa – vanno dal dirigente a implorarlo di lasciare qualcun altro con il il cerino in mano, al prossimo giro. Potrei dirvi tante cose su di lui. Parla solo in dialetto o al massimo in un idioma italo-calabro, pur essendo laureato e anche molto più giovane di me. Entra in classe, accende il suo computer e si mette a guardare chissà che cosa ma forse è meglio così, perché ogni tanto si sveglia dai suoi 10 mesi di vacanza e interviene a cazzo nelle lezioni e i miei alunni – che in quanto a ciarlatani, dopo anni di mie spiegazioni, se ne intendono – lo osservano sbigottiti. Riprende pure la specialista madrelingua inglese, e io mi imbarazzo per lui. La mia collega di team gli ha chiesto di fare una fotocopia ed è rientrato in classe dopo un’ora abbondante. Ogni tanto si assenta per qualche riunione sindacale ed è allora che tiriamo un sospiro di sollievo.

Ho pensato a lui leggendo della docente che si è imboscata per 20 anni su 24 – vi riporto solo il titolo da clickbait perché ben me ne guardo dal soddisfare la mia morbosa curiosità fasciogrillista latente andando a fondo nella notizia – e il pensiero è poi subito rimbalzato verso la bidella pendolare quotidiana della tratta Napoli Milano in alta velocità a botte di centinaia di euro la settimana. La narrazione della scuola estiva purtroppo è questa, e io mi adeguo. Sogno un futuro in cui potrò lavorare, come tutti voi, fino al 31 luglio.

effetto presenza

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Essere o non essere, sosteneva il Bardo. Una dicotomia che ha avuto un discreto successo, se ci pensate, anche perché non fa una piega. Non c’è una zona grigia. Tutte le condizioni intermedie che ci vengono in mente – il mondo è pieno di gente che è come se non ci fosse, oppure pensate a certe dipendenze che ci riducono a larve – sono poco più che una boutade. Nel mondo del lavoro c’è un sistema per attestare se ci siamo o non siamo ed è il badge, che per chi lavora nella pubblica amministrazione assume la denominazione di cartellino. La pandemia ha cambiato molte delle carte in tavola. Possiamo non essere ma ci siamo lo stesso, collegati in qualche modo da remoto. Oppure anche scollegati. Siamo in smart e la nostra giornata non ce la portiamo più a casa perché a casa ci siamo già. Quale azione, in questo scenario, è in grado di sancire il momento in cui ci cade la penna e possiamo considerarci out of office? Magari non spegniamo nemmeno il pc perché, effettuato il log-out dalla piattaforma aziendale, apriamo una nuova scheda di Chrome per avviare il nostro social preferito senza muoverci di un millimetro. Siamo fuori dall’ufficio – inteso come condizione e non come luogo fisico – ma rimaniamo comunque sul computer con cui lavoriamo.

Troviamo un ulteriore paradosso se pensiamo che gli orari, e questo accade non necessariamente se lavoriamo da remoto, non esistono più. Il concetto di inizio e fine turno è talmente superato che con la testa stiamo al lavoro senza soluzione di continuità. Resta un piccolo led rosso acceso che ci avverte che siamo in condizione di stand-by, non liberi del tutto, pronti per essere riaccesi grazie a un sistema operativo sempre all’erta. Non c’è un modo per spegnere completamente il senso di responsabilità che ci portiamo dentro per quello che facciamo. C’è una interessante pellicola in giro in questo periodo che si intitola Afterwork del regista Erik Gandini, quello di Videocracy, che tocca queste questioni. Si vedono, per esempio, le telecamere operative sempre accese nell’abitacolo dei furgoni dei corrieri, installate per ragioni di sicurezza ma pensate come sistema di controllo: essere o non essere sul posto di lavoro?

A scuola non abbiamo ancora il badge – le realtà più innovative lo hanno già introdotto – ma comunque la firma sul registro elettronico attesta il fatto che abbiamo preso servizio in classe. Ci sono occasioni in cui è necessario ricorrere a strumenti obsoleti come il foglio firme, tecnicamente una tabella in Word con il nome stampato in Calibri su una colonna e a fianco una sfilza di colonne che rappresentano i giorni da riempire con lo stesso contenuto della cella a sinistra ma scarabocchiato di nostro pugno. Un documento che può essere prodotto da chiunque ma che non è da meno dei sistemi digitali in quanto a possibilità di contraffazione. I docenti più sgamati nell’uso delle piattaforme online custodiscono le credenziali dei colleghi che hanno meno dimestichezza, questo per dire che chiunque potrebbe coprire l’assenza di qualcun altro.

Essere o non essere è quindi una questione di senso del dovere. A giugno, a lezioni finite, si rinnova ogni anno la sfida degli adempimenti conclusivi e della preparazione per l’anno successivo. Ci si incontra con diversi assortimenti – per disciplina, per interclasse, per ordine – e si compilano monumentali relazioni per accertarsi di quello che è stato fatto e programmare quello che seguirà. Ma senza le lezioni in classe non siamo soggetti a una scansione rigida di tempi e turni. Ci vediamo ogni mattina per tre ore, ci distribuiamo a seconda di quello che dobbiamo fare e procediamo. Ogni volta qualcuno risulta assente perché fa parte di una commissione a sé oppure ha preso un permesso ma non sempre la struttura amministrativa ci mette al corrente di quello che fanno gli altri. Questo per dire che, foglio firma o no, volendo chiunque potrebbe approfittare di questa approssimazione. Nella scuola le maglie dei controlli sono piuttosto larghe, e non solo su orari e presenze. Sta tutto a noi, sta tutto a me. Avete presente la barzelletta di Pierino? “Oggi non voglio andare a scuola!”. E Pierino risponde: “Ma devi andare a scuola. Sei l’insegnante!”. Ecco, da William Shakespeare a Pierino i gradi di separazioni sono davvero ridotti al minimo.

programma

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Quando un docente termina in anticipo il programma si diffonde il sospetto che abbia lavorato male o in modo superficiale. Per un insegnante risulta difficile auto-valutarsi perché ci sono diversi fattori da tenere in considerazione. Di certo ho proceduto in modo piuttosto spedito, quest’anno. I miei bambini invogliano ad andare avanti e mi gratificano molto, sotto questo aspetto. Ne ho un paio che sono rimasti piuttosto indietro ma ho la sicurezza che non sarebbe cambiato nulla se avessi organizzato la didattica diversamente. Sta di fatto che è da metà maggio a oggi, a nemmeno una settimana dalla fine dell’anno scolastico, ho avuto tutto il tempo per riprendere gli argomenti di matematica e geometria e ripassarli. Anche la prova di fine quadrimestre in stile invalsi, che riassume un po’ tutto quello che sanno, è andata piuttosto bene. Mi sono permesso così di avviare un’attività un po’ diversa dal solito. Ho chiesto a ogni bambino di prepararsi una ricerca su un vertebrato a scelta in autonomia. Raccogliere le informazioni in Internet o su materiale vario a disposizione (documentari e testi di famiglia o eventualmente da recuperare presso la biblioteca comunale), completare una traccia di riferimento che ho condiviso con loro, creare infine una presentazione Google. Ho dedicato più ore del solito in laboratorio di informatica, in modo da consentire a chi è privo di strumentazione digitale a casa di mettersi in pari con gli altri, e ho programmato persino un calendario di esposizioni delle ricerche svolte come fanno i grandi che sto ultimando proprio in questi giorni. In pratica, da lunedì scorso, facciamo solo scienze. A parte questo, per il resto del tempo non è facile fare lezione. La nostra aula è molto calda e anch’io sono piuttosto stremato. Se non piovesse così tanto me ne starei tutto il tempo in giardino, seduto sulle gradinate del campetto di basket, a guardare i miei alunni che litigano giocando a calcio con la palla di gommapiuma sotto il sole cocente, quando c’è. Gli altri si misurano la vita reciprocamente. Quanto sono già cresciuti e quanto cambieranno di lì a poco. Alcuni si rincorrono sui pneumatici che una mia collega ha posizionato nel prato per il suo asperger a basso funzionamento. Altri li osservo parlare tutto il tempo. Ogni tanto si chinano a raccogliere una noce, un fiore, un rametto, un lombrico. So quello che state pensando: c’è della poesia, in tutto questo. È vero: la scuola è piena zeppa di poesia. Chi non la coglie, peggio per lui.

infradito

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Il regolamento d’istituto della mia scuola impone un abbigliamento decoroso e adeguato all’ambiente didattico e coinvolge le famiglie nell’impegno a far rispettare agli studenti le linee guida. Io non ho una posizione ben definita sulla questione e, come sempre, mi auguro che il buon senso mi venga in soccorso nel momento del bisogno. Da noi non sussiste l’obbligo del grembiule, per dire, ma a me non dispiacerebbe introdurlo. I detrattori sostengono che si tratta di indumenti realizzati con materiale di scarsissima qualità (ultra-cinese, come dice una mia collega) e in questi tempi di global warming il rischio di provocare irritazioni o sfoghi sulla pelle dei bambini quando il sudore si trova a contatto con l’acrilico è piuttosto concreto. A me piacerebbe che tutto il mondo si vestisse con le casacche blu come ai tempi di Mao, figuratevi come potrei reagire al cospetto di una classe dal look omologato. Di sicuro mi sarei evitato la situazione spiacevole che vado a introdurre. Ieri una delle mie alunne, al primo caldo della stagione, si è presentata in shorts, e siamo in quarta elementare. Mi sono confrontato con colleghe più esperte di me che mi hanno consigliato, piuttosto che scrivere alla mamma o, peggio, diramare un generico “sì bermuda, no pantaloncini inguinali” attraverso la rappresentante dei genitori, di rivolgermi direttamente alla bambina. Non volevo metterla però su quanto il suo abbigliamento lasciasse scoperto perché ero strasicuro che il fastidio che provavo non derivasse da un approccio bacchettone, che sono sicuro di non avere, piuttosto da un’esigenza di sobrietà. A scuola ci si concia da gente che va a scuola, comprese le stravaganze che ragazzini e adolescenti adottano per mostrare al mondo quanto sono originali e fuori di testa (e diversi da loro). Ma questo è un altro paio di maniche, ed è proprio il caso di dirlo. In generale negli esseri umani di età superiore ai 3 anni approvo i pantaloni corti ma solo in prossimità di uno stabilimento balneare e con del reggaeton in sottofondo. Stavo per proporre alla mia alunna scosciata di recarmi a scuola anch’io in costume e infradito, magari con addosso una camicia hawaiana a maniche corte aperta fin sotto lo sterno e un bel cuba libre in mano. Ma non so se la bambina avrebbe compreso il nesso, e poi dovrei depilarmi. L’ho messa allora sul rischio di punture di zanzare e moschini quando trascorriamo l’intervallo lungo in giardino, ma mi ha guardato con quegli occhi come a dire ma per chi mi hai preso, sono una bimba ma non sono un’idiota. Di certo so che ha come modello una mamma molto appariscente, e il veto sugli shorts le ha rovinato la giornata. È andata a sedersi su una panchina tutta imbronciata e non si è alzata più. Avrei voluto dirle che, da seduta, l’effetto degli shorts è ancora peggiore (o migliore, a seconda dei punti di vista) ma non volevo sembrarle fuori luogo. E così stamattina si è presentata in classe con gli stessi pantaloncini di ieri. Mi ero già preparato a uno scontro Whatsapp mattutino con la famiglia ma, prima ancora di prendere posto nel banco, è venuta a dirmi una cosa. La mamma si scusa, mi ha detto, ma proprio non aveva altro da farle indossare, quel giorno.

prestito

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Ho un collega che parla come Nino Frassica ma con l’accento calabrese e fa molto meno ridere, quando riesco a capire quello che dice. Non è il primo insegnante di sostegno che non parla italiano che mi ritrovo in classe. Il punto è che deve assistere un ragazzino di origini straniere e affetto da ipoacusia e i molteplici passaggi della comunicazione (dialetto rurale del secolo scorso -> dispositivo protesico -> madrelingua origine dell’alunno -> italiano L2) –  tra i due è decisamente lacunosa. Anche con me, comunque, il dialogo è ampiamente compromesso. Anch’io sono un po’ sordo, comprendo con difficoltà la parlate del sud, sono mono-tasking, non mi intendo di automobili e di tecnologia fine a se stessa. Invece lui si rivolge a me nel suo idioma, spesso quando sto facendo altro, e frequentemente chiedendomi dettagli sul modello di macchina che guido o sul mio pc che non conosco, anche mentre faccio lezione. Poi si intromette in continuazione senza chiedere il permesso, una procedura che a scuola si insegna sin dal primo giorno della prima primaria. Ho detto alla responsabile delle assegnazioni degli insegnanti di sostegno di levarmelo di torno, il prossimo anno. Le ho inviato uno screenshot che ho scattato durante l’ultima riunione a distanza del GLO che lo ritrae, cogliendo perfettamente la sua natura testarda e ottusa. Interviene a sproposito anche con la specialista di inglese, sfoggiando il suo anglo-calabro, ed è in uno dei suoi sproloqui che ho percepito la somiglianza con Nino Frassica. Non solo si esprimono in modo inconcludente allo stesso modo, ma appartengono entrambi al teatro dell’assurdo.

hasta la victoria siempre

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Io con le lingue sono un vero disastro. Già mi agito a conversare in italiano con le altre persone, potete immaginare il mio stato d’animo al cospetto di uno straniero. Mi fa stare talmente a disagio che ho anche sviluppato e brevettato una nuova fobia, la paura delle lingue straniere, che poi ho scoperto che esisteva già, come tutte le cose che pensiamo di sperimentare o anche solo dire per primi. Il punto è che il nome di questa paura, xenoglossofobia, fa ridere, e non rende l’idea del terrore che si prova quando non c’è verso di farsi capire o, peggio, di comprendere il prossimo. Quindi possiamo chiamarla solo paura delle lingue straniere e basta. Decido io, una piccola rivincita al tiro che mi ha giocato il destino. Ho un bambino spagnolo in classe, da qualche settimana, che parla solo spagnolo. A onor del vero è talmente sveglio che se la cava alla grande, con i compagni e con noi, e in questo breve periodo di esplorazione della nuova vita in Italia ha già imparato diverse frasi. Io, invece, no. Sono al punto di partenza. E non credete a quelli che vi dicono che lo spagnolo è facile e intuitivo. Il mio alunno è peruviano e parla velocissimo e tutto attorcigliato. Io uso Deeplo in classe per tradurgli le cose più importanti e lui ride perché l’intelligenza dei traduttori artificiali non è poi così aggiornata ai bambini di oggi. Ho fatto però il calcolo delle parole che so nella sua lingua e ho capito che non farò molta strada. Posso incitarlo come si sentiva nei cartoni di Speedy Gonzales o far leva sul suo orgoglio cantandogli qualcosa degli Inti Illimani o, al massimo, del Sergente Garcia o di Manu Chao, ma qui le cose iniziano a complicarsi. Non conosce nulla dei miei punti di riferimento musicali in spagnolo e, anzi, quando gli ho chiesto che musica gli piacesse non ha saputo rispondere, ma forse perché non ha capito la domanda.

lombroso

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A scuola è successa una cosa che ha dell’incredibile. Qualcuno ha rubato una fotocamera 360 per la realtà immersiva dall’attrezzatura pronta per essere collocata nel laboratorio stem. Siamo riusciti finalmente a organizzare la formazione per i colleghi, la scorsa settimana. Per allestire il set della parte pratica del corso, ho messo in carica i visori e quando ho aperto la scatola della fotocamera dentro era vuota. La scuola è un porto di mare, purtroppo. Quest’estate hanno cablato tutti i plessi del mio comprensivo e a novembre hanno sostituito otto vecchie LIM con altrettanti modernissimi schermi touch. Se ho ricondotto il furto a questi due episodi è perché il dispositivo è talmente anonimo e da addetti ai lavori che solo uno del settore poteva rubarlo. Con tutta la tecnologia consumer che abbiamo a scuola – a partire da tablet e pc – più facilmente rivendibile, la sparizione di apparecchiature specifica restringe i sospetti sulle uniche persone in grado di riconoscere che il contenuto della scatola dalla sagoma di un telecomando non era, appunto, un telecomando. Se poi volete un parere personale, i tecnici che si sono occupati degli interventi nella mia scuola avevano qualcosa di losco ma, come potete immaginare, potrei anche essere stato io. Di certo non i miei colleghi – poco avvezzi alla realtà virtuale e mista – per non parlare dei bambini della scuola, la fotocamera non assomiglia né a un iPhone e tantomeno a un pallone. Mi sono improvvisamente ricordato di chi potrebbe essere il colpevole – uno di quelli che portava su per le scale i proiettori smontati per ammassarli nell’aula ripostiglio dove riponiamo tutto quello che non serve all’istante – proprio ieri pomeriggio, e unicamente perché a Milano esiste Via Lombroso e non so se si tratti proprio di quel Lombroso che matchava facce a tendenze criminali. Ma la vergogna per il rigurgito di pregiudizio che mi è fuoriuscito dai pensieri è stato sovrastato all’istante dal fastidio di ritrovarsi in mezzo alle migliaia di persone convenute nello stesso posto in cui mi trovavo io e per lo stesso motivo. Gli ex-macelli di Via Lombroso erano una delle principali mete delle iniziative del Fuori Salone, aspetto che si evinceva dalla coda all’ingresso che non aveva nulla da invidiare da quella da più di un’ora che avevo dovuto sopportare pazientemente qualche settimana fa fuori dai cancelli dell’Allianz Cloud per la partita di coppa tra Vakifbank e Vero Volley Monza. A Milano siamo in tanti e abbiamo tutti le stesse idee simultaneamente. Posso quindi confermare di esser stato al Fuori Salone non più di dieci minuti. Mi sono allontanato dalla folla, ho mangiato un gelato spaziale alla Gelateria Marchetti e ho trovato rifugio al Coin, dove sono tornate di moda le sedie con le strisce di plastica colorata e persino la gente che non era nata quando c’erano le sedie con le strisce di plastica colorata sorridevano toccando le sedie con le strisce di plastica colorata.