microflor adulti più

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Mi ero dimenticato il nome dell’integratore che il mio amico Fulvio mi aveva consigliato per migliorare le prestazioni della memoria e di tutto il contenuto della scatola cranica tout court, che detta così sembra proprio una battuta di quelle che non fanno ridere. Allora, per sdrammatizzare, glielo ho chiesto nuovamente tramite whatsapp e proprio in questo modo. Nei momenti di stress o di particolare affaticamento quelli che io chiamo inappropriatamente svarioni, e che nel mio lessico meno che famigliare indicano cose che si fanno o si dicono al posto di un’altra, si manifestano tutt’altro che di rado. A fine anno scolastico sono così stanco che inverto l’ordine delle parole mentre spiego alla LIM, oppure squilla il telefono in macchina e non ricordo cosa devo fare, qual è la sequenza delle azioni, per non parlare della settimana scorsa quando ho messo in bocca l’accendino e ho tentato di generare il fuoco con la sigaretta e tenete conto che non fumo nemmeno.

Ieri, ultimo giorno di scuola, alla mamma di Alex che è venuta a prendersi la sacca delle scarpe di motoria nonostante avessimo raccomandato ai bambini di ricordarsi di riportarle a casa – chissà a settembre che piedi avranno – ho detto che erano rimaste in classe delle scarpe ma che erano di Alex, come se Alex – che era lì insieme alla mamma – fosse un altro bambino, non so se mi sono spiegato. Una cosa strana perché so di sapere i nomi di tutti anche se, in classe, li sbaglio continuamente. Dovrei rallentare come fa Corrado Augias, con cui da un po’ condivido il colore e lo stile dell’acconciatura e di cui invidio fortemente la lucidità, quando spiega le cose in tv.

D’altronde è un dato di fatto che la dimensione più adeguata ai riflessi della terza età sia proprio questa in cui mi sto cimentando ora, cioè la scrittura. Ogni parola necessita di un tempo ragionevole per essere messa nero su bianco e, al netto dei typo, c’è sempre il margine giusto tra pensiero e azione. Nelle conversazioni noi vecchi di merda dovremmo mantenere proprio questo ritmo qui, quello che sto seguendo io anche se voi non mi vedete e sempre che voi non siate come certi miei colleghi che non utilizzano più di un solo dito di una sola mano per scrivere sulla tastiera, e fare gli scrutini con loro al registro elettronico è sempre un bagno di sangue.

Io scrivo al pc con una certa regolarità oramai da trent’anni e non solo non riesco più a usare penne e matite – non vi dico le figuracce con i bambini a scuola – ma sono in grado di digitare sui tasti con entrambe le mani e guardando di lato, proprio come faceva la mia ex datrice di lavoro che scriveva le email da mandare ai clienti guardando la persona che le suggeriva il contenuto anziché lo schermo con un’inclinazione del collo da bambina protagonista de “L’esorcista”. Parlavo di lei giusto ieri con mia moglie. Mi chiedevo quanti anni abbia ora la mia ex datrice di lavoro e perché non sia ancora andata in pensione. Ma di cosa stavamo parlando? Non ricordo più. Ah, giusto, la memoria.

prova a dire cioppi cioppi

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Il motivo per cui la scuola prevede tre mesi di vacanza per studenti e insegnanti principalmente è dovuto al fatto che, se non vi fosse soluzione di continuità, studenti e insegnanti si metterebbero le mani addosso. Anzi, coinvolgerebbero il personale amministrativo, i collaboratori ai piani (già bidelli) e persino i presidi – e ci aggiungerei pure i genitori e i rappresentati dei libri – in una rissa globale in cui darsele di santa ragione. Ragazzi, che fantastico sfogo che sarebbe. Sogni a parte, le avvisaglie di questo decorso interrotto sagacemente, per fortuna, dal suono dell’ultima campanella dell’ultimo giorno di scuola, sono già nell’aria a partire dal rientro dal ponte delle vacanze di pasqua la cui durata è direttamente proporzionale alla profondità della consapevolezza che si stia molto meglio a casa con l’educazione parentale – lato utente finale – e con lo smart-working – lato operatore di settore.

Io lo so il perché: a fine maggio i bambini puzzano di bambino esagitato e sono fuori da ogni grazia di dio, fattori che, uniti alla stanchezza diffusa e incontrollata dell’intero ecosistema pedagogico, rendono l’esperienza didattica decisamente faticosa. I docenti non sono meno nervosi, e lo scontro è inevitabile. Fino a quando si consuma un miracolo, lo stesso che si ripete dalla notte dei tempi. C’è una data di fine anno scolastico che sancisce la vittoria sulle barbarie e sull’oscurità e il ritorno a un umanesimo sociale e conseguente rinascimento relazionale in cui tutti, al sicuro dalle proprie vacanze effettive o presunte (quelle degli insegnanti sono presunte, quelle degli studenti lo sono solo nel caso di debiti didattici) tornano a ricoprire il proprio ruolo, almeno fino al ponte di pasqua dell’anno scolastico successivo. I docenti, a preparare il materiale in vista della ripresa e a ricostruire la propria dimensione auto-percettiva con aspettative che nemmeno un prof de “L’attimo fuggente”. Gli studenti, a fare il pieno di buoni propositi come ringraziamento per “averla scampata bella ancora una volta e il prossimo anno si comincerà a studiare e riordinare gli appunti presi in classe sin dal primo giorno”, proposito la cui bontà viaggia con una data di scadenza inferiore a quella di un cartone di latte fresco.

Io non sono da meno. Da qualche settimana rispondo ai miei bambini come fa quel cabarettista specializzato nell’interpretazione degli stereotipi umani che popolano le scuole italiane. Sono ormai dipendente dalle sue gag, in cui mi ritrovo moltissimo, e oramai, privo per ragioni anagrafiche di ogni inibizione, non riesco a trattenermi. Una sorta di incontinenza di sarcasmo che prima o poi, lo so, mi si ritorcerà contro. Stamattina Alex è venuto a dirmi che Nathan aveva detto una parolaccia. Ho chiesto ad Alex che parolaccia avesse detto Nathan – una richiesta pericolosa, lo so, ma i bambini sono solitamente molto pudichi nel ripetere volgarità al cospetto di un insegnante, diventano subito rossi e a malapena si spingono a pronunciare le iniziali oppure danno suggerimenti da gioco a quiz su raiuno, cose tipo “ha detto quella parolaccia con le due zeta” – e invece Alex, che è esonerato da religione, ha riportato fedelmente, letteralmente e senza peli sulla lingua una bestemmia da competizione. E siamo solo in prima elementare.

Io non sono riuscito a trattenermi e gli sono scoppiato a ridere in faccia. So di non aver dato un bell’esempio, peraltro in quell’istante tutti mi stavano guardando – c’era l’intervallo – deducendo cosa fosse accaduto perché nel frattempo la notizia si era diffusa. Ora andranno a casa a dire ai genitori che “il maestro ride quando bestemmiamo”, ma non è quello il punto. Alex, lo dovreste vedere. Ha due guance così carnose che ora che siamo a fine anno e vale tutto gliele stringo – delicatamente – con una mano in modo che le labbra si concentrino estrudendosi dallo spazio dedicato e poi gli chiedo di dire cioppi cioppi, che è un gioco che faceva mia figlia quando aveva l’età di Alex, fa sembrare i bambini dei pesci e mi dà molta soddisfazione.

E comunque alle colleghe più maestre degli altri, le ipermaestre, in questo periodo si accentua quel tono cantilenato con cui – per deformazione professionale – si rivolgono anche ai colleghi (farei un podcast audio solo per farvi capire a cosa mi sto riferendo, ma se siete insegnanti della primaria come me avete capito bene) e che lo sforzo di tenere a freno il nervosismo per la fine dell’anno e tutto quello che abbiamo detto prima, porta la cantilena all’eccesso, una roba da non credere, quasi da film horror.

E io, al cospetto di così tanta stupidera in classe, di coltri atmosferiche gravide di entusiasmo e ormoni prepuberali così fitte da tagliare con il coltello, avrei tanta voglia di smettere di fare lezione all’improvviso e imbastire, seduta stante, un dj set di musica deprimente come so io dedicato proprio a loro, ai miei bambini, così carini le prime settimane di scuola, così diabolici a maggio. Io me ne intendo di musica deprimente. Sono cintura nera di musica deprimente. Potrei soffocare quella supponenza e quella boria tipica di chi ha tutta la vita davanti in un istante, con versi come quelli di “Endsong” dei Cure, quando Robert Smith verso la fine della canzone canta che

è tutto finito, è tutto finito
mi perderò nel tempo, non ci vorrà molto
è tutto finito, è tutto finito, è tutto finito
lasciato solo senza niente alla fine di ogni canzone
lasciato solo senza niente alla fine di ogni canzone
lasciato solo senza niente
niente
niente
niente

mirko

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Quel tizio là fuori ha i capelli rosa e, quando gli passo a fianco, noto un piccolo tatuaggio ripetuto su entrambe le tempie. Non mi soffermo a lungo a osservarlo, non vorrei cacciarmi nei guai – cazzo c’hai da guardare? – ma mi sembrano dei disegni a forma di saetta dalla punta convergente verso gli zigomi proprio come quelli che compaiono nel menu a tendina di Google Presentazioni cliccando su inserisci -> forma. Non ci sarebbe nulla di male se non mi trovassi all’uscita della scuola primaria in cui insegno, in mezzo a decine di genitori e bambini urlanti, e l’uomo dalla chioma che sembra un livello di Candy Crush non avesse quarant’anni e fosse il papà di una mia alunna, la seconda di quattro figli di cui l’ultimo di poco più di un anno, lo vedo in braccio alla madre quando c’è lei a prenderla. Alla consegna delle pagelle, che ora si chiama informazioni quadrimestrali alle famiglie dato che, nell’era del registro elettronico, le pagelle non si consegnano più e da un bel pezzo, è stata lei a dirci che con il marito, poco prima di natale, hanno risolto la faccenda. Erano in crisi e pensavo che alla fine il buon senso avesse prevalso. E infatti è successo proprio così, ma non nel (buon) senso che intendevo io. Il marito non vive più con loro e la notizia mi ha lasciato un po’ così, nel senso che non sono certo un bacchettone e la cosa importante è la serenità dell’ambiente famigliare in cui crescono i figli, non occorre certo fare i moralisti. Di sicuro è che forse era meglio accorgersene prima di cagarne fuori quattro. Così, appena rientrato a casa, ho acceso il pc e ho guglato il nome del padre della mia alunna. Ho scoperto – aspetto che almeno giustifica il suo look, non certo il suo comportamento – che il motivo per cui sfoggia i capelli colorati con quella tinta pugno in un occhio è che è un componente della band dei Bee Hive. Non so sinceramente al posto di chi sia subentrato, non li seguo più da tempo, di certo non si tratta di Satomi o di Mirko, i membri principali, nel caso si sarebbe venuto a sapere. A vederlo da vicino sembra più un batterista. Se avete seguito le loro vicende, come tutte quelle delle rock e pop star, anche nei Bee Hive c’è stato qualche problema riconducibile alla maledizione di Montezuma, come la chiamava la mia amica Ale, quel fenomeno in cui la compagna/il compagno o fidanzata/fidanzato di una/un musicista si innamora di un altro/a membro del complesso, generando conseguenze a domino e mettendo l’intero progetto a rischio di sopravvivenza. Questo per dire che forse è stata invece la madre della mia alunna a mollare Matt – si chiama così il batterista dei Bee Hive – per mettersi magari proprio con Mirko, quello con i capelli giallorossi, perché nel frattempo si è lasciato con Licia che è tornata con Satomi, quello con i capelli viola. Di certo nessuno dei loro figli ha i capelli blu, tantomeno la mia alunna, questa è l’unica cosa che so di sicuro.

d’istinto

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Tutto da rifare. Da questo quadrimestre tornano i giudizi sintetici alla primaria, nella scala che va dall’ottimo giù fino al baratro dell’insufficienza. Basta quindi con i livelli. Ogni materia avrà una valutazione unica, chiara ed efficace. La precedente modalità è durata sin troppo. Era stata introdotta durante il Covid, mentre facevamo lezioni su Google Meet e i miei bambini della prima di allora si erano trovati costretti a imparare, nel giro di qualche giorno, come si avvia un pc, come si inseriscono le credenziali, come si accede alla app, come si seguono le lezioni a distanza, come si attiva e si disattiva il microfono, quali sono i tempi della DAD e, in genere, come ci si comporta se sei a casa da solo ma dentro allo schermo c’è una classe intera divisa in quadratini che ti ascolta. Tutto questo, ribadisco, in prima.

Erano giusto cinque anni fa, proprio di questi tempi, anzi in queste ore. Una triste ricorrenza, e l’aver spazzato vita uno dei pochi strascichi rimasti – dopo le mascherine, le vaccinazioni e il distanziamento sociale – probabilmente sarà d’aiuto a rimuovere tutto il male che il lockdown ci ha provocato. L’esperienza della valutazione descrittiva dei livelli di apprendimento di ogni singola materia, al contrario, non è stata poi così negativa. Poter raccontare a studenti grandi e piccini e ai loro genitori le considerazioni di noi insegnanti sul loro percorso didattico, lavoro dopo lavoro, per me è stata un’opportunità efficace per non assumermi l’odiata responsabilità di cristallizzare in un valore una prestazione. Una cosa che non sono assolutamente in grado di fare. Ogni errore va contestualizzato, allo stesso modo in cui ogni risposta corretta è a sé. Certo, argomentare tutto questo comporta impegno, dedizione, attenzione e tempo indipendentemente dalla classe in cui il docente opera. In prima primaria ci sono mille osservazioni da fare, tanto quanto in una quinta liceo occorre essere convincenti al cospetto di un pubblico già adulto. Aspetti diversi, chiaro, ma la questione non cambia. A scrivere ottimo, distinto, buono e discreto ci vorrà invece un attimo. Un soffio. Noi insegnanti italiani torneremo così finalmente ad avere tutto il tempo libero che ci compete, secondo la narrazione mainstream. L’importante è che siate contenti voi.

turuturuturu banana

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Quest’anno ho un bambino autistico tenerissimo e quasi per nulla oppositivo rispetto a come ce lo avevano presentato le colleghe dell’infanzia. È a funzionamento bassino ma è uno dei pochi che quando entra in classe la mattina viene a salutarmi, e sempre con il sorriso. Trascorre i primi quaranta minuti stremato sul banco e quando non è coperto dal sostegno non sono capace di coinvolgerlo in nulla. Fino a quando si sveglia e allora riusciamo a intenderci un po’ di più. Ogni tanto lancia qualche verso dei suoi – da metà novembre è in modalità babbo natale e mi delizia nelle situazioni meno adatte con i suoi HO HO HOOOOOO e non gli è ancora passata, nonostante il carnevale imminente – ma se gli dico di piantarla lì smette subito. Stesso discorso con qualche slancio disfunzionale. Ho visto però che rivolgendosi a lui con gentilezza desiste all’istante. Nelle ore con il sostegno probabilmente soffre il fiato sul collo e si innervosisce. Strappa dalle mani dei compagni i giochi che vorrebbe possedere, si sdraia sul pavimento, strilla. Nell’insieme, a parte il primo giorno che per lui dev’essere stato l’equivalente di uno sbarco in Normandia degli stati d’animo e che mi aveva fatto temere il peggio, dà molti meno problemi di altri suoi compagni noiosi, petulanti, infantili e bisognosi di attenzione senza soluzione di continuità.

L’unico problema è che nei rimasugli delle lezioni, quando non c’è niente da fare e chiedo di proporre qualche ascolto musicale da condividere con i compagni, mi chiede di mettere “turuturuturu banana”. La prima volta ho faticato a interpretare la richiesta perché ha tutti i difetti di pronuncia possibili e si fa una certa fatica a capire quello che dice. In più si esprime a raffica e la dizione ne risente. Ho tentato di scrivere nel campo delle ricerche di Youtube proprio le parole “turuturuturu banana” senza successo. Ho sopravvalutato l’algoritmo con cui altre volte, a fronte di titoli farneticanti e pronunce in inglese più che discutibili traslitterate fedelmente, avevo avuto fortuna. Poi qualcuno ha capito e mi ha suggerito di cercare “bing” e così l’ho trovato. Un video dal titolo “La Canzone della Banana” da 6,9 Mln di visualizzazioni pubblicato 5 anni fa. 10+ minuti di cartone animato in cui due entità dalla dubbia natura cantano una canzone che è un misto tra “Manamanà” di Piero Umiliani e “Tequila”. E da quando ha capito la mia passione per la musica mi sollecita l’ascolto decontestualizzato dalle lezioni di musica di “turuturuturu banana” nei momenti meno appropriati, tanto che un giorno non ce l’ho più fatta. Non possiamo ascoltare “turuturuturu banana” ogni volta che me lo chiedi, gli ho detto. Perché non chiedi alla mamma di metterlo? In più è lunghissimo, dura un’eternità ed è tutto uguale. Qui cerchiamo di ascoltare canzoni, non video in cui la musica è un di cui, e poi evitiamo di richiedere lo stesso brano, cerchiamo di scoprire musica nuova. Ma non è servito a nulla. Puntuale, ogni giorno, basta che io abbassi la guardia per un instante, che si palesi un momento destrutturato che lui parte all’attacco. Maestro, mi chiede, possiamo sentire “turuturuturu banana”?

Così, qualche giorno fa, mi sono sentito in colpa. Non posso dirgli sempre di no, anche perché non si arrabbia ma insiste e so che non c’è via di scampo. Quando è rientrato in classe, qualche minuto prima della fine del mio turno, prima della mensa, dopo che l’insegnante di sostegno lo aveva portato fuori per seguirlo nelle attività previste dal suo piano personalizzato, senza dirgli nulla ho fatto partire alla LIM “turuturuturu banana”, versione integrale, dall’inizio alla fine. Non appena ha riconosciuto la sua hit è rimasto con un sorriso stampato sulla faccia per mezzo minuto buono, un’espressione che non dimenticherò mai. Poi mi ha guardato e si è fatto capire bene. Maestro, mi ha detto, questa è proprio una bella sorpresa.

litio

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Da qualche settimana tengo un corso di informatica e cultura digitale a una trentina di ragazzini della secondaria di primo grado del comprensivo in cui insegno. Si tratta di una delle svariate iniziative di formazione a cui mi sono reso disponibile grazie ai finanziamenti ottenuti con il PNRR che mi consentono di arrotondare i quattro soldi dello stipendio da insegnante di scuola primaria. Al corso di informatica e cultura digitale si sono iscritti in tutto una sessantina di studenti provenienti da tutti e tre gli anni di quella che una volta chiamavamo scuola media. Ce li siamo divisi equamente io e il collega della secondaria che, come me, è stato selezionato dopo aver partecipato al bando. Quindici lezioni da due ore ogni venerdì pomeriggio che, tra vacanze e ponti, si concluderanno a metà maggio. Il collega ed io siamo siamo ubicati in due aule, una di fronte all’altra. Accogliamo i ragazzi terminato il panino che si portano da casa e che consumano nel grande spazio a cui si affacciano i laboratori del piano terra. Saliamo insieme a loro al piano superiore, dove si trovano le classi, e da lì i due gruppi si dividono seguendo il prof a cui sono stati assegnati.

Il programma è grosso modo identico e finalizzato al conseguimento del cosiddetto patentino ICDL. Cambia ovviamente l’approccio, nonostante il mio collega ed io rientriamo ampiamente nella categoria degli smanettoni. Siamo due umanisti, nell’accezione del tipo di studi in cui abbiamo conseguito la laurea, ma non so per quale forma mentis riusciamo a risolvere qualunque problema tecnico legato all’uso dei dispositivi digitali si presenti ai colleghi. E non sto esagerando. Qualche giorno fa il mio collega mi ha insegnato una cosa che non sapevo: staccando per qualche minuto la pila al litio ubicata sulla scheda madre il sistema si resetta completamente. Una procedura empirica che si è rivelata utile per ripristinare da zero un paio di ferrivecchi desktop che ho in laboratorio e sui quali il tentativo di revamping in Chrome OS ha fatto cilecca.

La cosa strana è che poche ore dopo ho assistito a un intervento analogo su un’automobile super-moderna in cui era andato in tilt il sofisticatissimo sistema informatico e non c’era verso di farla ripartire. Il proprietario, che poi è un amico, ha staccato il cavo della batteria, abbiamo atteso qualche minuto, ha ripristinato i connettori nella posizione corretta e l’auto è si è riaccesa come se niente fosse. Alcuni sostengono che trovarsi in balia dell’elettronica sia molto più grave che trovarsi in balia della meccanica. Ti si blocca la macchina perché il computer di bordo è impazzito – quelli del Discovery con a bordo HAL 9000 ne sanno qualcosa – e sei letteralmente fottuto. A quel punto devi aprire l’involucro in cui vive e respira e si nutre quella specie di entità soprannaturale e, brugola alla mano, devi scollegare fisicamente chissà quante parti cablate per salvarti il culo. Giro giro tondo, casca il mondo, avete capito bene, proprio quella roba lì.

Vi confesso però di aver accusato una non leggera difficoltà nello smontare e montare lo chassis per tentare l’esperimento della pila al litio, togliere e stringere le viti, proteggermi dalla polvere di chissà quanti anni penetrata nel cuore pulsante di quei vecchi computer scolastici. Senza contare che vivo nella consapevolezza – assolutamente non dimostrata – di essere allergico alla polvere e in genere a certe particelle presenti nello smog. Ai tempi dell’università la viuzza che collegava la stazione ferroviaria alla mia facoltà era aperta al traffico e non passava mattina che non dovessi correre in bagno al primo bar aperto per porre rimedio a fortissimi attacchi non sto a specificarvi di cosa ma ci siamo capiti.

Comunque, tornando ai computer, il mio resta un approccio decisamente in linea con le aspettative dei ragazzi del corso, tutti più che millennials. Nessuno di loro ha voglia di ascoltare paternali su hardware e periferiche che non servono più a niente e anche l’ICDL, vista con gli occhi dell’adolescente del 2025, è un acronimo che suona come una cagata pazzesca. A chi interessa se confondono browser e motore di ricerca, tanto ora ci sono Trump e Musk e la Meloni che spazzeranno via l’intera civiltà come l’abbiamo conosciuta e chi ha le possibilità si trasferirà su Marte. A chi interessa se non hanno idea di come rendere editabile un PDF, che peraltro pensavo che la P stesse per Printable e invece è l’iniziale di Portable ma, e non lo dico per eludere una qualche responsabilità nell’averne equivocato la definizione, il senso non cambia di un bit.

prime

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Ieri pomeriggio, nel corso delle due ore settimanali in cui insegno inglese in seconda C, è venuta fuori la questione Babbo Natale. Hanno sette anni, ci credono tutti e non c’è alcun bisogno di fornire prove documentate sul fatto che esista o meno. Nessuno di loro l’ha mai visto, qualcuno dice di sì ma mente sapendo di mentire, qualcun altro sostiene di aver intravisto una slitta parcheggiata sotto casa. Arianna, una delle più sveglie, ha addirittura chiesto a mamma e papà di visionare le immagini delle videocamere dell’impianto di antifurto domestico per coglierlo sul fatto ma i genitori – davvero geniali – le hanno dimostrato – non so come – che le riprese si sono interrotte proprio sul più bello, probabilmente a causa di qualche superpotere che gli consente di neutralizzare i sistemi di sorveglianza. Ho pensato a tutto questo potenziale sprecato, ma Babbo Natale rappresenta l’onestà per antonomasia e non ci possiamo fare nulla.

Una trovata che comunque ho avallato con convinzione. Anzi, il momento mi è sembrato propizio per verificare se tutti loro avessero sottoscritto con Babbo Natale l’abbonamento Prime, e, superato il primo momento di stupore, non è stato difficile convincerli sulla veridicità di quanto sostenessi. In comune con Amazon c’è anche il modo in cui sono organizzate le consegne. La slitta non può certo contenere i pacchi regalo per tutto il mondo, per questo Babbo Natale ottimizza i percorsi secondo le zone di residenza dei destinatari. Non solo. Babbo Natale Prime prevede il plus di un refill di dolci nei calzettoni vuoti lasciati appesi sul camino, proprio come quelli presenti nell’illustrazione dell’attività natalizia proposta dal nostro libro di testo di inglese che tutti, giustamente, hanno ricondotto alla festa della Befana (sanno benissimo comunque che le due multinazionali dell’e-commerce preferito dai bambini non sono affatto in concorrenza).

E se pensate che la mia giornata è proseguita poi con l’ultimo collegio docenti dell’anno, quello prenatalizio, potrete riconoscere quanto, quello del docente, sia un mestiere strano. Anche sottopagato, ma fondamentalmente strano. La maggior parte delle professioni si esercita fianco a fianco con i colleghi. Poi ci sono i lavori (pochi) che si fanno in solitudine (così sui due piedi mi vengono in mente appunto i corrieri di Amazon – quelli in carne sudamericana e ossa – e chi si occupa di pastorizia). I docenti sono nel mezzo, perché siamo tanti dipendenti della stessa organizzazione ma manca completamente lo spirito di squadra, non so se sia il termine più adatto. Intendo quella sorta di intesa che ti spinge a fermarti a fine giornata lavorativa a prendere un aperitivo insieme o al limite quell’aziendalismo sincero o interessato che ti convince di fare parte di una famiglia, che poi in realtà la famiglia è quella dei proprietari dell’azienda che diventano ricchi grazie al tuo aziendalismo sincero o interessato.

Durante il collegio docenti prenatalizio non ci sono regali di natale ai dipendenti e nemmeno il catering con il rinfresco. I dirigenti più illuminati danno alle collaboratrici i soldi per andare a comprare qualche panettone o pandoro, due bocce di prosecco e la Pepsi per gli astemi, da consumare durante il brindisi al termine della riunione. Ma in realtà, avallato anche l’ultimo punto all’ordine del giorno, tutti si affrettano a tornare dalle rispettive famiglie. Anche i colleghi più giovani, quelli che nelle aziende degli altri settori considerano il posto di lavoro anche un ambiente di caccia, sbocconcellano una fetta di dolce parlando dell’ultima nota che hanno dato e poi se ne vanno quasi senza salutare. La triangolazione con il resto della popolazione scolastica, in primis gli alunni, frena un po’ l’impeto alla socializzazione sul lavoro quando non si parla di lavoro – per non dire che è un deterrente all’accoppiamento – ed è un peccato. Questa granularità di rapporti umani – passatemi il termine – penalizza la scuola tanto quanto l’assenza di reti di rappresentanza e di marketing di sé fatto con criterio, a partire dalla quasi totale latitanza di insegnanti su LinkedIn. Sarebbe bello un Tinder da intellettuali e pedagogisti esclusivo per i docenti, ma anche lì occorrerebbe un sistema di filtro per evitare ogni tipo di ingerenza dei genitori, nel bene o nel male.

elephant

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Dallo scorso venerdì insegno cultura digitale e fondamenti di informatica a ventisei tra studentesse e studenti della secondaria di primo grado del mio comprensivo. Si tratta di un corso pomeridiano finanziato grazie ai fondi del PNRR dedicati alla formazione inclusiva sulle competenze di base e che durerà fino a maggio, due ore la settimana. Le ragazze e i ragazzi sono lì per scelta, magari non proprio tutti, e il primo incontro è andato nel migliore dei modi. Tra gli obiettivi c’è anche il fornire una preparazione propedeutica al successivo conseguimento della certificazione ICDL. Quando ho introdotto la questione, a inizio lezione, qualcuno si è precipitato immediatamente a googlare il significato dell’acronimo, facendo piombare di colpo l’intera classe alla fine degli anni novanta.

Inutile dirvi che ho sfruttato a pieno la ghiotta occasione. Per un’ora o poco più ho provato nuovamente l’ebbrezza di sentirmi addosso tutti i capelli e tutti neri, liberato da quei dieci kg in eccesso – a essere ottimisti – che mi hanno reso ostile a più di un capo d’abbigliamento che tutt’ora faccio fatica a buttare tanto gli sono affezionato, ritrovando persino quella indimenticata forma e prestanza fisica da trentenne che mi consentiva di superare ogni limite, a partire dall’applicare tutte quelle competenze descritte dalla certificazione ICDL sul posto di lavoro di allora – facevo il programmatore – per quasi 48 ore di fila – e di file, perdonate il gioco di parole – senza dormire.

Ho approfittato così dell’inaspettato varco spazio-temporale che ha inghiottito me e le ragazze e i ragazzi partecipanti al corso per introdurre la lezione con i due video che uso come best practice dell’impiego del deepfake e dell’AI al servizio della creatività umana. C’è stato non poco scetticismo a fronte dei 4:33 di “Yellow” dei Coldplay, le story dei social su cui la generazione zeta misura la scansione della vita durano molto ma molto meno, così mi sono limitato alla prima strofa e ritornello, tanto la faccenda non cambia. La successiva proiezione di “Grace” degli Idles però li ha lasciati di stucco, mai mi sarei aspettato una reazione così wow, da parte loro. Nessuno conosceva la canzone, tantomeno uno dei migliori album usciti quest’anno, per non parlare della band, a quell’età non ascoltano certo la musica di noi vecchi né seguono XFactor. Qualcuno però aveva già sentito e visto Chris Martin e soci. Un ragazzo di terza ha sostenuto addirittura che sua madre sfoggiasse il testo della canzone tatuato sul corpo, peccato non avergli chiesto dove e con quale font (sicuramente in corsivo, un must delle indelebili citazioni a cazzo sulla epidermide).

Il corso di cultura digitale conferma il fascino che il mese di dicembre esercita su tutta la popolazione scolastica. Io l’ho presa con grande entusiasmo, ci voleva dopo settimane di cinque e seienni che si cagano ancora addosso. Non solo. I miei bambini, tra addobbi, calendari dell’avvento e i lavoretti tipici del suprematismo bianco e cattolico, sono fuori dalla grazia di dio e non vi sto a descrivere la reazione delle mie colleghe alla nuova fotocopiatrice di plesso, una tappa del percorso di trasformazione digitale in potenza ma che invece – tanto quanto l’ICDL – ha costituito un passo tecnologico all’indietro. La mia scuola ha cambiato finalmente fornitore ma la sostanza non cambia. Ci hanno rifilato un modello di fascia piuttosto economica. Tanto per cominciare è privo del wi-fi, per fortuna mi era rimasta una vecchia chiavetta USB, anch’essa della preistoria, uno di quegli accrocchi in grado di connettere alla intranet anche i morti. Poi, a differenza della stampante ormai alla frutta di cui disponevamo prima, è sprovvista di un sistema di job accounting nativo per impostare utenze e relativi valori di utilizzo, a meno dell’installazione di una periferica aggiuntiva per la lettura di badge, una delle tante spese su cui la DSGA non scende a compromessi. Il destino delle foreste amazzoniche del pianeta, già a partire da queste settimane prefestive ricche di renne e slitte da stampare, è purtroppo segnato.

Anche Jacopo, il bambino di quarta che io chiamo “Elephant” – proprio come il film di Gus Van Sant perché il rischio che, raggiunta l’adolescenza, si presenti a scuola con un borsone traboccante di AK-47 e munizioni compatibili, non è così campato in aria – è in fibrillazione per le feste imminenti. Da quando l’ho trascinato fuori a forza dalla mia prima, dopo che aveva lanciato una bottiglia da due litri piena d’acqua in classe per colpirmi perché poco prima l’avevo contenuto per consentire alle collaboratrici che voleva menare di mettersi in salvo uscendo dal bagno centrando invece una delle mie alunne più delicate, finalmente mi evita come la peste. Un episodio che rischia di essere frainteso come una buona notizia ma, se leggete tra queste righe, riconoscerete il fallimento didattico e sociale della scuola, nel senso dell’istituzione ma anche un po’ della mia in cui io faccio la mia parte, trascinando a forza un bambino di nove anni e contribuendo quindi alla resa incondizionata alle complessità. Agendo da uomo, come ha detto la mia dirigente, comportamento che ho impiegato tutta una vita a disimparare.

La scuola è il vero elemento con disabilità, in questa storia, e non è facile trovare una soluzione. Quando Jacopo ha spalancato la porta per scagliare dentro quella molotov disinnescata, con il cappuccio della felpa sulla testa come nei video dei rapper bianchi che scimmiottano i maestri afroamericani, mi è sembrato proprio il figlio di un trumpiano. Qualche settimana dopo il fattaccio, mi sono trattenuto all’uscita perché ho notato la mamma di Jacopo assalire a male parole la collega di sostegno che se ne prende cura per ventidue ore la settimana, una cosiddetta copertura totale ma dalle crisi di rabbia del bambino, a differenza mia e di tutti gli altri inquilini della primaria in cui insegno, semplici e casuali comparse della sua vita, come la collega che è stata sfiorata per un pelo dal cuscino dell’aula di psicomotricità che Jacopo ha lanciato giù dalla tromba delle scale. La mamma di Jacopo era molto risentita, mi è sembrato addirittura che dicesse “belle cose che insegnate a scuola”, ma posso essermi sbagliato. Comunque, di fronte a quella scena, ho pensato una cosa molto populista che mette in stretta relazione il RAL di noi insegnanti pubblici con quello che facciamo, cose che vanno dallo schivare bottiglie da due litri d’acqua a ingegnarsi per mettere in rete una stampante spacciata per modello di ultima generazione.

un po’ di male nel bene e viceversa

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La mamma di Nicholas sfoggia lunghissime e vistose unghie a colori alternati: bianche con inserti tondi neri e nere con inserti tondi bianchi. Una scelta che sarà simbolo di armonia ed equilibrio tra le dualità dell’universo, nonché di interazione tra le energie antitetiche, quella positiva contro quella negativa e passiva, ma che al lato pratico le crea enormi difficoltà nel digitare la nuova password del suo account Google scolastico e dimostrarmi che c’è qualcosa nel suo smartphone che non va, d’altronde touchscreen e onicotecnica da sempre non sono compatibili. L’impatto tra le due forze si manifesta comunque sul tempo extra non pagato in cui devo fermarmi a scuola per quel tipo di assistenza tecnologica, così un po’ invidioso del suo telefono da mille e passa euro (un mese del mio stipendio) mi limito a suggerirle, la prossima volta, di acquistare un Android.

Non aggiungo che la resilienza di cui ci riempiamo la bocca e che va tanto di moda, vista da vicino, è un disvalore, una posa che ci impedisce di agire la vera rottura che poi è il break-even point in cui mandiamo affanculo tutto e tutti, ma in questi tempi di sovranismi non è il caso. I genitori che ci vengono a incontrare in prima sono comunque molto carini e ingenui. Chiedono più compiti – con figli in alcuni casi di nemmeno sei anni – e li crescono a merende bio in confezioni che si aprono solo con le forbici. L’intervallo lo perdo a tentare di strappare materiale di nuova generazione, probabilmente alieno, così dirotto quei mocciosi, a cui ancora un paio di anni all’infanzia avrebbero fatto più che bene, all’impiego del materiale scolastico di cui sono dotati. E non è tanto il problema che non sanno allacciarsi le scarpe, che si mettono i piumini al contrario, che non riescono a chiudere le zip, che non hanno forza sufficiente nelle mani per stringere il meccanismo che libera le fibbie degli zaini. È che qualcuno se la fa addosso, nel senso della cacca.

Nel migliore dei casi nei pantaloni in classe, nel peggiore cercando di risolvere l’impasse in bagno, perché poi sono cazzi delle collaboratrici sistemare le cose, e se si rifiutano potete stampare come ho fatto io la pagina del CCNL e evidenziare in rosa il passaggio in cui, non è scritto proprio così, spetta a loro prestare assistenza in queste situazioni di merda. Quando invece capita durante la lezione colgo immediatamente le avvisaglie di ciò che sta accadendo e mi blocco, talvolta sul più bello di un intervento appassionante, talaltra nel corso di una spiegazione di quelle che sono certo faranno la storia e che i miei alunni si porteranno dentro, per sempre, nella vita. Tutto ciò che mi circonda svanisce. I bambini, la LIM accesa, la collega di sostegno, i banchi, le pale sul soffitto. Tutto ciò che mi circonda svanisce, guardo nel nulla come certi ACD che hanno l’interruttore on/off. Mi spengo mentre la realtà continua il suo corso, cado in trance e penso: che cosa ci faccio io qui?

istruzione e merit

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Alla fine sembra che Parthenope fumi quasi più di Berlinguer, anche se del compiantissimo segretario del PCI si notano molti più pacchetti ancora sigillati. Due differenti approcci al tabagismo che, purtroppo, sottendono una componente decisamente sessista. I comunisti fumano in quanto intellettuali, le loro sigarette contribuiscono a mettere per iscritto ideali, strategie, visioni, e le sedi di partito immerse nella nebbia che ovatta persino il rumore delle macchine da scrivere trasmettono la visione romantica dell’abnegazione civile che anni di reti Mediaset, grillismo e nazifascismo melonista hanno spazzato via. Il fumo delle dee nate in acqua invece costituisce un valore aggiunto al desiderio che la bellezza ispira nel prossimo e alla sensualità femminile, e una laurea in antropologia (attenzione spoilerissimo) con il massimo dei voti, alla fine, risulta un di cui. Mi chiedo solo se Paolo Sorrentino avesse in testa l’idea di Stefania Sandrelli come volto e corpo perfetto per interpretare la Napoli del 2024 e quindi abbia setacciato le agenzie alla ricerca dell’attrice più somigliante alla sua versione da giovane, che poi sarebbe stata Amanda Sandrelli, o viceversa. Di certo, il gesto indotto dalla memoria muscolare all’uscita dalla sala, a seguito della visione di entrambi i film, è quello di tastarsi il taschino della giacca alla ricerca di un pacchetto.

Il connubio tra tabacco e politica nel mio caso si è consumato proprio nel corso di una manifestazione di piazza contro il primo governo Berlusconi. Rammento perfettamente l’istante: era il 12 novembre 1994, e a nemmeno metà percorso del corteo di protesta contro la legge finanziaria ho estratto le Winston dal mio parka ma, anziché accendermi l’ennesima sigaretta, ho gettato il pacchetto ancora pieno in un cestino della spazzatura a lato della strada. Avevo iniziato sottraendo le Milde Sorte dalla borsetta di mia mamma in seconda media, circa quindici anni prima, e da allora non avevo mai smesso. Ho persino toccato punte di due pacchetti al giorno ai tempi dell’università. Prendevo il locale per Genova alle 7.01, rigorosamente nel vagone fumatori, e mi fumavo la prima, facile fare il calcolo fino a notte inoltrata nei bar del centro storico. Si poteva fumare ovunque tranne al cinema, ma mia mamma ricorda l’aria irrespirabile durante i film a cui assisteva con l’uomo che poi sarebbe diventato mio papà, da fidanzati.

Da quella manifestazione non ho mai più fumato sigarette con continuità. Mia moglie ed io le compriamo quando siamo in vacanza perché fumare in estate, usciti dall’acqua o al ristorante all’aperto di sera con il vino bianco fresco, è un cliché da cui non vogliamo esimerci. Non solo. Scrocco una Camel blu alla mia collega di sostegno ogni lunedì, al termine delle lezioni pomeridiane e prima della programmazione. Mi unisco al gruppetto di insegnanti fumatori più o meno accaniti e, tra un tiro e l’altro, ascolto i racconti quotidiani sull’andamento delle classi. Raramente intervengo perché un po’ mi gira sempre la testa, quando fumo, e ho paura di biascicare con la voce. Dopo un po’ di sigarette offerte però acquisto un pacchetto e lo offro in dono alla collega. La prima volta un po’ si è offesa ma poi ha compreso il senso del mio gesto – mi fa sentire meno un peso per il prossimo – e accetta le sigarette con un sorriso.