mirko

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Quel tizio là fuori ha i capelli rosa e, quando gli passo a fianco, noto un piccolo tatuaggio ripetuto su entrambe le tempie. Non mi soffermo a lungo a osservarlo, non vorrei cacciarmi nei guai – cazzo c’hai da guardare? – ma mi sembrano dei disegni a forma di saetta dalla punta convergente verso gli zigomi proprio come quelli che compaiono nel menu a tendina di Google Presentazioni cliccando su inserisci -> forma. Non ci sarebbe nulla di male se non mi trovassi all’uscita della scuola primaria in cui insegno, in mezzo a decine di genitori e bambini urlanti, e l’uomo dalla chioma che sembra un livello di Candy Crush non avesse quarant’anni e fosse il papà di una mia alunna, la seconda di quattro figli di cui l’ultimo di poco più di un anno, lo vedo in braccio alla madre quando c’è lei a prenderla. Alla consegna delle pagelle, che ora si chiama informazioni quadrimestrali alle famiglie dato che, nell’era del registro elettronico, le pagelle non si consegnano più e da un bel pezzo, è stata lei a dirci che con il marito, poco prima di natale, hanno risolto la faccenda. Erano in crisi e pensavo che alla fine il buon senso avesse prevalso. E infatti è successo proprio così, ma non nel (buon) senso che intendevo io. Il marito non vive più con loro e la notizia mi ha lasciato un po’ così, nel senso che non sono certo un bacchettone e la cosa importante è la serenità dell’ambiente famigliare in cui crescono i figli, non occorre certo fare i moralisti. Di sicuro è che forse era meglio accorgersene prima di cagarne fuori quattro. Così, appena rientrato a casa, ho acceso il pc e ho guglato il nome del padre della mia alunna. Ho scoperto – aspetto che almeno giustifica il suo look, non certo il suo comportamento – che il motivo per cui sfoggia i capelli colorati con quella tinta pugno in un occhio è che è un componente della band dei Bee Hive. Non so sinceramente al posto di chi sia subentrato, non li seguo più da tempo, di certo non si tratta di Satomi o di Mirko, i membri principali, nel caso si sarebbe venuto a sapere. A vederlo da vicino sembra più un batterista. Se avete seguito le loro vicende, come tutte quelle delle rock e pop star, anche nei Bee Hive c’è stato qualche problema riconducibile alla maledizione di Montezuma, come la chiamava la mia amica Ale, quel fenomeno in cui la compagna/il compagno o fidanzata/fidanzato di una/un musicista si innamora di un altro/a membro del complesso, generando conseguenze a domino e mettendo l’intero progetto a rischio di sopravvivenza. Questo per dire che forse è stata invece la madre della mia alunna a mollare Matt – si chiama così il batterista dei Bee Hive – per mettersi magari proprio con Mirko, quello con i capelli giallorossi, perché nel frattempo si è lasciato con Licia che è tornata con Satomi, quello con i capelli viola. Di certo nessuno dei loro figli ha i capelli blu, tantomeno la mia alunna, questa è l’unica cosa che so di sicuro.

d’istinto

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Tutto da rifare. Da questo quadrimestre tornano i giudizi sintetici alla primaria, nella scala che va dall’ottimo giù fino al baratro dell’insufficienza. Basta quindi con i livelli. Ogni materia avrà una valutazione unica, chiara ed efficace. La precedente modalità è durata sin troppo. Era stata introdotta durante il Covid, mentre facevamo lezioni su Google Meet e i miei bambini della prima di allora si erano trovati costretti a imparare, nel giro di qualche giorno, come si avvia un pc, come si inseriscono le credenziali, come si accede alla app, come si seguono le lezioni a distanza, come si attiva e si disattiva il microfono, quali sono i tempi della DAD e, in genere, come ci si comporta se sei a casa da solo ma dentro allo schermo c’è una classe intera divisa in quadratini che ti ascolta. Tutto questo, ribadisco, in prima.

Erano giusto cinque anni fa, proprio di questi tempi, anzi in queste ore. Una triste ricorrenza, e l’aver spazzato vita uno dei pochi strascichi rimasti – dopo le mascherine, le vaccinazioni e il distanziamento sociale – probabilmente sarà d’aiuto a rimuovere tutto il male che il lockdown ci ha provocato. L’esperienza della valutazione descrittiva dei livelli di apprendimento di ogni singola materia, al contrario, non è stata poi così negativa. Poter raccontare a studenti grandi e piccini e ai loro genitori le considerazioni di noi insegnanti sul loro percorso didattico, lavoro dopo lavoro, per me è stata un’opportunità efficace per non assumermi l’odiata responsabilità di cristallizzare in un valore una prestazione. Una cosa che non sono assolutamente in grado di fare. Ogni errore va contestualizzato, allo stesso modo in cui ogni risposta corretta è a sé. Certo, argomentare tutto questo comporta impegno, dedizione, attenzione e tempo indipendentemente dalla classe in cui il docente opera. In prima primaria ci sono mille osservazioni da fare, tanto quanto in una quinta liceo occorre essere convincenti al cospetto di un pubblico già adulto. Aspetti diversi, chiaro, ma la questione non cambia. A scrivere ottimo, distinto, buono e discreto ci vorrà invece un attimo. Un soffio. Noi insegnanti italiani torneremo così finalmente ad avere tutto il tempo libero che ci compete, secondo la narrazione mainstream. L’importante è che siate contenti voi.

turuturuturu banana

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Quest’anno ho un bambino autistico tenerissimo e quasi per nulla oppositivo rispetto a come ce lo avevano presentato le colleghe dell’infanzia. È a funzionamento bassino ma è uno dei pochi che quando entra in classe la mattina viene a salutarmi, e sempre con il sorriso. Trascorre i primi quaranta minuti stremato sul banco e quando non è coperto dal sostegno non sono capace di coinvolgerlo in nulla. Fino a quando si sveglia e allora riusciamo a intenderci un po’ di più. Ogni tanto lancia qualche verso dei suoi – da metà novembre è in modalità babbo natale e mi delizia nelle situazioni meno adatte con i suoi HO HO HOOOOOO e non gli è ancora passata, nonostante il carnevale imminente – ma se gli dico di piantarla lì smette subito. Stesso discorso con qualche slancio disfunzionale. Ho visto però che rivolgendosi a lui con gentilezza desiste all’istante. Nelle ore con il sostegno probabilmente soffre il fiato sul collo e si innervosisce. Strappa dalle mani dei compagni i giochi che vorrebbe possedere, si sdraia sul pavimento, strilla. Nell’insieme, a parte il primo giorno che per lui dev’essere stato l’equivalente di uno sbarco in Normandia degli stati d’animo e che mi aveva fatto temere il peggio, dà molti meno problemi di altri suoi compagni noiosi, petulanti, infantili e bisognosi di attenzione senza soluzione di continuità.

L’unico problema è che nei rimasugli delle lezioni, quando non c’è niente da fare e chiedo di proporre qualche ascolto musicale da condividere con i compagni, mi chiede di mettere “turuturuturu banana”. La prima volta ho faticato a interpretare la richiesta perché ha tutti i difetti di pronuncia possibili e si fa una certa fatica a capire quello che dice. In più si esprime a raffica e la dizione ne risente. Ho tentato di scrivere nel campo delle ricerche di Youtube proprio le parole “turuturuturu banana” senza successo. Ho sopravvalutato l’algoritmo con cui altre volte, a fronte di titoli farneticanti e pronunce in inglese più che discutibili traslitterate fedelmente, avevo avuto fortuna. Poi qualcuno ha capito e mi ha suggerito di cercare “bing” e così l’ho trovato. Un video dal titolo “La Canzone della Banana” da 6,9 Mln di visualizzazioni pubblicato 5 anni fa. 10+ minuti di cartone animato in cui due entità dalla dubbia natura cantano una canzone che è un misto tra “Manamanà” di Piero Umiliani e “Tequila”. E da quando ha capito la mia passione per la musica mi sollecita l’ascolto decontestualizzato dalle lezioni di musica di “turuturuturu banana” nei momenti meno appropriati, tanto che un giorno non ce l’ho più fatta. Non possiamo ascoltare “turuturuturu banana” ogni volta che me lo chiedi, gli ho detto. Perché non chiedi alla mamma di metterlo? In più è lunghissimo, dura un’eternità ed è tutto uguale. Qui cerchiamo di ascoltare canzoni, non video in cui la musica è un di cui, e poi evitiamo di richiedere lo stesso brano, cerchiamo di scoprire musica nuova. Ma non è servito a nulla. Puntuale, ogni giorno, basta che io abbassi la guardia per un instante, che si palesi un momento destrutturato che lui parte all’attacco. Maestro, mi chiede, possiamo sentire “turuturuturu banana”?

Così, qualche giorno fa, mi sono sentito in colpa. Non posso dirgli sempre di no, anche perché non si arrabbia ma insiste e so che non c’è via di scampo. Quando è rientrato in classe, qualche minuto prima della fine del mio turno, prima della mensa, dopo che l’insegnante di sostegno lo aveva portato fuori per seguirlo nelle attività previste dal suo piano personalizzato, senza dirgli nulla ho fatto partire alla LIM “turuturuturu banana”, versione integrale, dall’inizio alla fine. Non appena ha riconosciuto la sua hit è rimasto con un sorriso stampato sulla faccia per mezzo minuto buono, un’espressione che non dimenticherò mai. Poi mi ha guardato e si è fatto capire bene. Maestro, mi ha detto, questa è proprio una bella sorpresa.

litio

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Da qualche settimana tengo un corso di informatica e cultura digitale a una trentina di ragazzini della secondaria di primo grado del comprensivo in cui insegno. Si tratta di una delle svariate iniziative di formazione a cui mi sono reso disponibile grazie ai finanziamenti ottenuti con il PNRR che mi consentono di arrotondare i quattro soldi dello stipendio da insegnante di scuola primaria. Al corso di informatica e cultura digitale si sono iscritti in tutto una sessantina di studenti provenienti da tutti e tre gli anni di quella che una volta chiamavamo scuola media. Ce li siamo divisi equamente io e il collega della secondaria che, come me, è stato selezionato dopo aver partecipato al bando. Quindici lezioni da due ore ogni venerdì pomeriggio che, tra vacanze e ponti, si concluderanno a metà maggio. Il collega ed io siamo siamo ubicati in due aule, una di fronte all’altra. Accogliamo i ragazzi terminato il panino che si portano da casa e che consumano nel grande spazio a cui si affacciano i laboratori del piano terra. Saliamo insieme a loro al piano superiore, dove si trovano le classi, e da lì i due gruppi si dividono seguendo il prof a cui sono stati assegnati.

Il programma è grosso modo identico e finalizzato al conseguimento del cosiddetto patentino ICDL. Cambia ovviamente l’approccio, nonostante il mio collega ed io rientriamo ampiamente nella categoria degli smanettoni. Siamo due umanisti, nell’accezione del tipo di studi in cui abbiamo conseguito la laurea, ma non so per quale forma mentis riusciamo a risolvere qualunque problema tecnico legato all’uso dei dispositivi digitali si presenti ai colleghi. E non sto esagerando. Qualche giorno fa il mio collega mi ha insegnato una cosa che non sapevo: staccando per qualche minuto la pila al litio ubicata sulla scheda madre il sistema si resetta completamente. Una procedura empirica che si è rivelata utile per ripristinare da zero un paio di ferrivecchi desktop che ho in laboratorio e sui quali il tentativo di revamping in Chrome OS ha fatto cilecca.

La cosa strana è che poche ore dopo ho assistito a un intervento analogo su un’automobile super-moderna in cui era andato in tilt il sofisticatissimo sistema informatico e non c’era verso di farla ripartire. Il proprietario, che poi è un amico, ha staccato il cavo della batteria, abbiamo atteso qualche minuto, ha ripristinato i connettori nella posizione corretta e l’auto è si è riaccesa come se niente fosse. Alcuni sostengono che trovarsi in balia dell’elettronica sia molto più grave che trovarsi in balia della meccanica. Ti si blocca la macchina perché il computer di bordo è impazzito – quelli del Discovery con a bordo HAL 9000 ne sanno qualcosa – e sei letteralmente fottuto. A quel punto devi aprire l’involucro in cui vive e respira e si nutre quella specie di entità soprannaturale e, brugola alla mano, devi scollegare fisicamente chissà quante parti cablate per salvarti il culo. Giro giro tondo, casca il mondo, avete capito bene, proprio quella roba lì.

Vi confesso però di aver accusato una non leggera difficoltà nello smontare e montare lo chassis per tentare l’esperimento della pila al litio, togliere e stringere le viti, proteggermi dalla polvere di chissà quanti anni penetrata nel cuore pulsante di quei vecchi computer scolastici. Senza contare che vivo nella consapevolezza – assolutamente non dimostrata – di essere allergico alla polvere e in genere a certe particelle presenti nello smog. Ai tempi dell’università la viuzza che collegava la stazione ferroviaria alla mia facoltà era aperta al traffico e non passava mattina che non dovessi correre in bagno al primo bar aperto per porre rimedio a fortissimi attacchi non sto a specificarvi di cosa ma ci siamo capiti.

Comunque, tornando ai computer, il mio resta un approccio decisamente in linea con le aspettative dei ragazzi del corso, tutti più che millennials. Nessuno di loro ha voglia di ascoltare paternali su hardware e periferiche che non servono più a niente e anche l’ICDL, vista con gli occhi dell’adolescente del 2025, è un acronimo che suona come una cagata pazzesca. A chi interessa se confondono browser e motore di ricerca, tanto ora ci sono Trump e Musk e la Meloni che spazzeranno via l’intera civiltà come l’abbiamo conosciuta e chi ha le possibilità si trasferirà su Marte. A chi interessa se non hanno idea di come rendere editabile un PDF, che peraltro pensavo che la P stesse per Printable e invece è l’iniziale di Portable ma, e non lo dico per eludere una qualche responsabilità nell’averne equivocato la definizione, il senso non cambia di un bit.

prime

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Ieri pomeriggio, nel corso delle due ore settimanali in cui insegno inglese in seconda C, è venuta fuori la questione Babbo Natale. Hanno sette anni, ci credono tutti e non c’è alcun bisogno di fornire prove documentate sul fatto che esista o meno. Nessuno di loro l’ha mai visto, qualcuno dice di sì ma mente sapendo di mentire, qualcun altro sostiene di aver intravisto una slitta parcheggiata sotto casa. Arianna, una delle più sveglie, ha addirittura chiesto a mamma e papà di visionare le immagini delle videocamere dell’impianto di antifurto domestico per coglierlo sul fatto ma i genitori – davvero geniali – le hanno dimostrato – non so come – che le riprese si sono interrotte proprio sul più bello, probabilmente a causa di qualche superpotere che gli consente di neutralizzare i sistemi di sorveglianza. Ho pensato a tutto questo potenziale sprecato, ma Babbo Natale rappresenta l’onestà per antonomasia e non ci possiamo fare nulla.

Una trovata che comunque ho avallato con convinzione. Anzi, il momento mi è sembrato propizio per verificare se tutti loro avessero sottoscritto con Babbo Natale l’abbonamento Prime, e, superato il primo momento di stupore, non è stato difficile convincerli sulla veridicità di quanto sostenessi. In comune con Amazon c’è anche il modo in cui sono organizzate le consegne. La slitta non può certo contenere i pacchi regalo per tutto il mondo, per questo Babbo Natale ottimizza i percorsi secondo le zone di residenza dei destinatari. Non solo. Babbo Natale Prime prevede il plus di un refill di dolci nei calzettoni vuoti lasciati appesi sul camino, proprio come quelli presenti nell’illustrazione dell’attività natalizia proposta dal nostro libro di testo di inglese che tutti, giustamente, hanno ricondotto alla festa della Befana (sanno benissimo comunque che le due multinazionali dell’e-commerce preferito dai bambini non sono affatto in concorrenza).

E se pensate che la mia giornata è proseguita poi con l’ultimo collegio docenti dell’anno, quello prenatalizio, potrete riconoscere quanto, quello del docente, sia un mestiere strano. Anche sottopagato, ma fondamentalmente strano. La maggior parte delle professioni si esercita fianco a fianco con i colleghi. Poi ci sono i lavori (pochi) che si fanno in solitudine (così sui due piedi mi vengono in mente appunto i corrieri di Amazon – quelli in carne sudamericana e ossa – e chi si occupa di pastorizia). I docenti sono nel mezzo, perché siamo tanti dipendenti della stessa organizzazione ma manca completamente lo spirito di squadra, non so se sia il termine più adatto. Intendo quella sorta di intesa che ti spinge a fermarti a fine giornata lavorativa a prendere un aperitivo insieme o al limite quell’aziendalismo sincero o interessato che ti convince di fare parte di una famiglia, che poi in realtà la famiglia è quella dei proprietari dell’azienda che diventano ricchi grazie al tuo aziendalismo sincero o interessato.

Durante il collegio docenti prenatalizio non ci sono regali di natale ai dipendenti e nemmeno il catering con il rinfresco. I dirigenti più illuminati danno alle collaboratrici i soldi per andare a comprare qualche panettone o pandoro, due bocce di prosecco e la Pepsi per gli astemi, da consumare durante il brindisi al termine della riunione. Ma in realtà, avallato anche l’ultimo punto all’ordine del giorno, tutti si affrettano a tornare dalle rispettive famiglie. Anche i colleghi più giovani, quelli che nelle aziende degli altri settori considerano il posto di lavoro anche un ambiente di caccia, sbocconcellano una fetta di dolce parlando dell’ultima nota che hanno dato e poi se ne vanno quasi senza salutare. La triangolazione con il resto della popolazione scolastica, in primis gli alunni, frena un po’ l’impeto alla socializzazione sul lavoro quando non si parla di lavoro – per non dire che è un deterrente all’accoppiamento – ed è un peccato. Questa granularità di rapporti umani – passatemi il termine – penalizza la scuola tanto quanto l’assenza di reti di rappresentanza e di marketing di sé fatto con criterio, a partire dalla quasi totale latitanza di insegnanti su LinkedIn. Sarebbe bello un Tinder da intellettuali e pedagogisti esclusivo per i docenti, ma anche lì occorrerebbe un sistema di filtro per evitare ogni tipo di ingerenza dei genitori, nel bene o nel male.

elephant

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Dallo scorso venerdì insegno cultura digitale e fondamenti di informatica a ventisei tra studentesse e studenti della secondaria di primo grado del mio comprensivo. Si tratta di un corso pomeridiano finanziato grazie ai fondi del PNRR dedicati alla formazione inclusiva sulle competenze di base e che durerà fino a maggio, due ore la settimana. Le ragazze e i ragazzi sono lì per scelta, magari non proprio tutti, e il primo incontro è andato nel migliore dei modi. Tra gli obiettivi c’è anche il fornire una preparazione propedeutica al successivo conseguimento della certificazione ICDL. Quando ho introdotto la questione, a inizio lezione, qualcuno si è precipitato immediatamente a googlare il significato dell’acronimo, facendo piombare di colpo l’intera classe alla fine degli anni novanta.

Inutile dirvi che ho sfruttato a pieno la ghiotta occasione. Per un’ora o poco più ho provato nuovamente l’ebbrezza di sentirmi addosso tutti i capelli e tutti neri, liberato da quei dieci kg in eccesso – a essere ottimisti – che mi hanno reso ostile a più di un capo d’abbigliamento che tutt’ora faccio fatica a buttare tanto gli sono affezionato, ritrovando persino quella indimenticata forma e prestanza fisica da trentenne che mi consentiva di superare ogni limite, a partire dall’applicare tutte quelle competenze descritte dalla certificazione ICDL sul posto di lavoro di allora – facevo il programmatore – per quasi 48 ore di fila – e di file, perdonate il gioco di parole – senza dormire.

Ho approfittato così dell’inaspettato varco spazio-temporale che ha inghiottito me e le ragazze e i ragazzi partecipanti al corso per introdurre la lezione con i due video che uso come best practice dell’impiego del deepfake e dell’AI al servizio della creatività umana. C’è stato non poco scetticismo a fronte dei 4:33 di “Yellow” dei Coldplay, le story dei social su cui la generazione zeta misura la scansione della vita durano molto ma molto meno, così mi sono limitato alla prima strofa e ritornello, tanto la faccenda non cambia. La successiva proiezione di “Grace” degli Idles però li ha lasciati di stucco, mai mi sarei aspettato una reazione così wow, da parte loro. Nessuno conosceva la canzone, tantomeno uno dei migliori album usciti quest’anno, per non parlare della band, a quell’età non ascoltano certo la musica di noi vecchi né seguono XFactor. Qualcuno però aveva già sentito e visto Chris Martin e soci. Un ragazzo di terza ha sostenuto addirittura che sua madre sfoggiasse il testo della canzone tatuato sul corpo, peccato non avergli chiesto dove e con quale font (sicuramente in corsivo, un must delle indelebili citazioni a cazzo sulla epidermide).

Il corso di cultura digitale conferma il fascino che il mese di dicembre esercita su tutta la popolazione scolastica. Io l’ho presa con grande entusiasmo, ci voleva dopo settimane di cinque e seienni che si cagano ancora addosso. Non solo. I miei bambini, tra addobbi, calendari dell’avvento e i lavoretti tipici del suprematismo bianco e cattolico, sono fuori dalla grazia di dio e non vi sto a descrivere la reazione delle mie colleghe alla nuova fotocopiatrice di plesso, una tappa del percorso di trasformazione digitale in potenza ma che invece – tanto quanto l’ICDL – ha costituito un passo tecnologico all’indietro. La mia scuola ha cambiato finalmente fornitore ma la sostanza non cambia. Ci hanno rifilato un modello di fascia piuttosto economica. Tanto per cominciare è privo del wi-fi, per fortuna mi era rimasta una vecchia chiavetta USB, anch’essa della preistoria, uno di quegli accrocchi in grado di connettere alla intranet anche i morti. Poi, a differenza della stampante ormai alla frutta di cui disponevamo prima, è sprovvista di un sistema di job accounting nativo per impostare utenze e relativi valori di utilizzo, a meno dell’installazione di una periferica aggiuntiva per la lettura di badge, una delle tante spese su cui la DSGA non scende a compromessi. Il destino delle foreste amazzoniche del pianeta, già a partire da queste settimane prefestive ricche di renne e slitte da stampare, è purtroppo segnato.

Anche Jacopo, il bambino di quarta che io chiamo “Elephant” – proprio come il film di Gus Van Sant perché il rischio che, raggiunta l’adolescenza, si presenti a scuola con un borsone traboccante di AK-47 e munizioni compatibili, non è così campato in aria – è in fibrillazione per le feste imminenti. Da quando l’ho trascinato fuori a forza dalla mia prima, dopo che aveva lanciato una bottiglia da due litri piena d’acqua in classe per colpirmi perché poco prima l’avevo contenuto per consentire alle collaboratrici che voleva menare di mettersi in salvo uscendo dal bagno centrando invece una delle mie alunne più delicate, finalmente mi evita come la peste. Un episodio che rischia di essere frainteso come una buona notizia ma, se leggete tra queste righe, riconoscerete il fallimento didattico e sociale della scuola, nel senso dell’istituzione ma anche un po’ della mia in cui io faccio la mia parte, trascinando a forza un bambino di nove anni e contribuendo quindi alla resa incondizionata alle complessità. Agendo da uomo, come ha detto la mia dirigente, comportamento che ho impiegato tutta una vita a disimparare.

La scuola è il vero elemento con disabilità, in questa storia, e non è facile trovare una soluzione. Quando Jacopo ha spalancato la porta per scagliare dentro quella molotov disinnescata, con il cappuccio della felpa sulla testa come nei video dei rapper bianchi che scimmiottano i maestri afroamericani, mi è sembrato proprio il figlio di un trumpiano. Qualche settimana dopo il fattaccio, mi sono trattenuto all’uscita perché ho notato la mamma di Jacopo assalire a male parole la collega di sostegno che se ne prende cura per ventidue ore la settimana, una cosiddetta copertura totale ma dalle crisi di rabbia del bambino, a differenza mia e di tutti gli altri inquilini della primaria in cui insegno, semplici e casuali comparse della sua vita, come la collega che è stata sfiorata per un pelo dal cuscino dell’aula di psicomotricità che Jacopo ha lanciato giù dalla tromba delle scale. La mamma di Jacopo era molto risentita, mi è sembrato addirittura che dicesse “belle cose che insegnate a scuola”, ma posso essermi sbagliato. Comunque, di fronte a quella scena, ho pensato una cosa molto populista che mette in stretta relazione il RAL di noi insegnanti pubblici con quello che facciamo, cose che vanno dallo schivare bottiglie da due litri d’acqua a ingegnarsi per mettere in rete una stampante spacciata per modello di ultima generazione.

un po’ di male nel bene e viceversa

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La mamma di Nicholas sfoggia lunghissime e vistose unghie a colori alternati: bianche con inserti tondi neri e nere con inserti tondi bianchi. Una scelta che sarà simbolo di armonia ed equilibrio tra le dualità dell’universo, nonché di interazione tra le energie antitetiche, quella positiva contro quella negativa e passiva, ma che al lato pratico le crea enormi difficoltà nel digitare la nuova password del suo account Google scolastico e dimostrarmi che c’è qualcosa nel suo smartphone che non va, d’altronde touchscreen e onicotecnica da sempre non sono compatibili. L’impatto tra le due forze si manifesta comunque sul tempo extra non pagato in cui devo fermarmi a scuola per quel tipo di assistenza tecnologica, così un po’ invidioso del suo telefono da mille e passa euro (un mese del mio stipendio) mi limito a suggerirle, la prossima volta, di acquistare un Android.

Non aggiungo che la resilienza di cui ci riempiamo la bocca e che va tanto di moda, vista da vicino, è un disvalore, una posa che ci impedisce di agire la vera rottura che poi è il break-even point in cui mandiamo affanculo tutto e tutti, ma in questi tempi di sovranismi non è il caso. I genitori che ci vengono a incontrare in prima sono comunque molto carini e ingenui. Chiedono più compiti – con figli in alcuni casi di nemmeno sei anni – e li crescono a merende bio in confezioni che si aprono solo con le forbici. L’intervallo lo perdo a tentare di strappare materiale di nuova generazione, probabilmente alieno, così dirotto quei mocciosi, a cui ancora un paio di anni all’infanzia avrebbero fatto più che bene, all’impiego del materiale scolastico di cui sono dotati. E non è tanto il problema che non sanno allacciarsi le scarpe, che si mettono i piumini al contrario, che non riescono a chiudere le zip, che non hanno forza sufficiente nelle mani per stringere il meccanismo che libera le fibbie degli zaini. È che qualcuno se la fa addosso, nel senso della cacca.

Nel migliore dei casi nei pantaloni in classe, nel peggiore cercando di risolvere l’impasse in bagno, perché poi sono cazzi delle collaboratrici sistemare le cose, e se si rifiutano potete stampare come ho fatto io la pagina del CCNL e evidenziare in rosa il passaggio in cui, non è scritto proprio così, spetta a loro prestare assistenza in queste situazioni di merda. Quando invece capita durante la lezione colgo immediatamente le avvisaglie di ciò che sta accadendo e mi blocco, talvolta sul più bello di un intervento appassionante, talaltra nel corso di una spiegazione di quelle che sono certo faranno la storia e che i miei alunni si porteranno dentro, per sempre, nella vita. Tutto ciò che mi circonda svanisce. I bambini, la LIM accesa, la collega di sostegno, i banchi, le pale sul soffitto. Tutto ciò che mi circonda svanisce, guardo nel nulla come certi ACD che hanno l’interruttore on/off. Mi spengo mentre la realtà continua il suo corso, cado in trance e penso: che cosa ci faccio io qui?

istruzione e merit

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Alla fine sembra che Parthenope fumi quasi più di Berlinguer, anche se del compiantissimo segretario del PCI si notano molti più pacchetti ancora sigillati. Due differenti approcci al tabagismo che, purtroppo, sottendono una componente decisamente sessista. I comunisti fumano in quanto intellettuali, le loro sigarette contribuiscono a mettere per iscritto ideali, strategie, visioni, e le sedi di partito immerse nella nebbia che ovatta persino il rumore delle macchine da scrivere trasmettono la visione romantica dell’abnegazione civile che anni di reti Mediaset, grillismo e nazifascismo melonista hanno spazzato via. Il fumo delle dee nate in acqua invece costituisce un valore aggiunto al desiderio che la bellezza ispira nel prossimo e alla sensualità femminile, e una laurea in antropologia (attenzione spoilerissimo) con il massimo dei voti, alla fine, risulta un di cui. Mi chiedo solo se Paolo Sorrentino avesse in testa l’idea di Stefania Sandrelli come volto e corpo perfetto per interpretare la Napoli del 2024 e quindi abbia setacciato le agenzie alla ricerca dell’attrice più somigliante alla sua versione da giovane, che poi sarebbe stata Amanda Sandrelli, o viceversa. Di certo, il gesto indotto dalla memoria muscolare all’uscita dalla sala, a seguito della visione di entrambi i film, è quello di tastarsi il taschino della giacca alla ricerca di un pacchetto.

Il connubio tra tabacco e politica nel mio caso si è consumato proprio nel corso di una manifestazione di piazza contro il primo governo Berlusconi. Rammento perfettamente l’istante: era il 12 novembre 1994, e a nemmeno metà percorso del corteo di protesta contro la legge finanziaria ho estratto le Winston dal mio parka ma, anziché accendermi l’ennesima sigaretta, ho gettato il pacchetto ancora pieno in un cestino della spazzatura a lato della strada. Avevo iniziato sottraendo le Milde Sorte dalla borsetta di mia mamma in seconda media, circa quindici anni prima, e da allora non avevo mai smesso. Ho persino toccato punte di due pacchetti al giorno ai tempi dell’università. Prendevo il locale per Genova alle 7.01, rigorosamente nel vagone fumatori, e mi fumavo la prima, facile fare il calcolo fino a notte inoltrata nei bar del centro storico. Si poteva fumare ovunque tranne al cinema, ma mia mamma ricorda l’aria irrespirabile durante i film a cui assisteva con l’uomo che poi sarebbe diventato mio papà, da fidanzati.

Da quella manifestazione non ho mai più fumato sigarette con continuità. Mia moglie ed io le compriamo quando siamo in vacanza perché fumare in estate, usciti dall’acqua o al ristorante all’aperto di sera con il vino bianco fresco, è un cliché da cui non vogliamo esimerci. Non solo. Scrocco una Camel blu alla mia collega di sostegno ogni lunedì, al termine delle lezioni pomeridiane e prima della programmazione. Mi unisco al gruppetto di insegnanti fumatori più o meno accaniti e, tra un tiro e l’altro, ascolto i racconti quotidiani sull’andamento delle classi. Raramente intervengo perché un po’ mi gira sempre la testa, quando fumo, e ho paura di biascicare con la voce. Dopo un po’ di sigarette offerte però acquisto un pacchetto e lo offro in dono alla collega. La prima volta un po’ si è offesa ma poi ha compreso il senso del mio gesto – mi fa sentire meno un peso per il prossimo – e accetta le sigarette con un sorriso.

alone

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Una cosa che manda in brodo di giuggiole i genitori sono gli insegnanti che fanno ascoltare i Beatles in classe. Non ho abbastanza elementi per dimostrare se si tratti di una best practice pedagogica consolidata o semplicemente di una leggenda metropolitana, tanto quanto l’esposizione a Mozart degli esseri umani sin dalla fase pre-natale che ci renderebbe più intelligenti, men che meno di un metodo di mia invenzione.

Da attempato musicologo trombone posso solo dimostrarvi l’interdisciplinarietà del valore dei Beatles, nella fascia di età della scuola primaria. Sono utili se insegnate inglese, ovviamente, perché vi permettono di coniugare lo sviluppo dell’orecchio alla pronuncia perfetta con un dizionario adatto a qualunque esigenza, per non parlare di ciò che il quartetto di Liverpool rappresenta, ossia un’icona inconfondibile della cultura e della civiltà britannica. Sono utili se insegnate musica, perché rendono superfluo il ricorso alle zecchinate d’oro per l’intrattenimento dei più piccoli e intercettano le derive tamarre, nel migliore dei casi verso la trap di periferia ricca di parolacce, nel medio dei casi verso il pop in quota Annalisa e battiti live vari, nel peggiore dei casi verso i balli di gruppo da oratorio/club vacanze, grazie alla portata di un’alternativa convincente, comunque popolare, decisamente autorevole, poco di nicchia, tutt’altro che superata e di facile ascolto. Sono utili anche se insegnate italiano – i loro testi grondano di citazioni utili a semplificare grandi questioni, una volta tradotti – e perché no storia, in quanto perfettamente ascrivibili a un periodo decisivo per la modernità. Per non parlare del cartone animato di Yellow Submarine, provate a proiettarlo in classe e godetevi le reazioni.

Ma mai avrei immaginato che il mio vezzo di introdurre le lezioni con una sigla, una canzone dei Beatles – siamo partiti con la classica “All Together Now”- da variare ogni mese per catturare al meglio l’attenzione dei bambini, avrebbe generato una così invidiabile sintonia con i genitori della seconda C, la classe in cui insegno solo inglese. Le famiglie sono i principali stakeholder della scuola, metterli al corrente nel corso delle assemblee di classe di quello che facciamo costituisce un insuperabile veicolo di customer satisfaction. Ho presentato il programma nemmeno fossimo all’università – in seconda sono previste due ore la settimana, una in più rispetto alla prima – e senza volerlo ho centrato in pieno le aspettative rispetto all’insegnamento della lingua straniera, oggi secondo solo alle STEM come ossessione didattica della scuola dell’obbligo. Un papà ha detto che proporre i Beatles ai bambini gli sembra un’idea fantastica, tutti gli altri hanno confermato di trovarsi d’accordo, una mamma dichiaratamente metallara mi ha chiesto addirittura che cosa pensavo di far ascoltare nei prossimi anni. Non le ho detto che con i metallari noi dark ci menavamo, anzi i metallari menavano noi, negli anni ottanta, non mi sembrava la sede più adatta. Ma non è questo il punto.

So di deludervi, ma a me l’idea di somministrare una seconda lingua a mocciosi che a malapena si sanno esprimere nella prima non convince per niente, e mettere musica in inglese mi sembra comunque un modo efficace per perdere un po’ di tempo a lezione. Alla fine l’inglese per bambini così piccoli si risolve in una serie di istruzioni e parole tradotti letteralmente da imparare a memoria. Se va bene così, allora non c’è problema anche da parte mia. Un bagaglio a mano linguistico utile a sguinzagliarli da soli ad acquistare gelati in occasione delle prossime vacanze all’estero che farete. Un consiglio però: controllate che sappiano farsi restituire il resto corretto.

Il problema sono semmai le foto in bianco e nero, dei Beatles. Com’è possibile che siano esistiti giovani negli anni 60?, sembrano chiedere i bambini. Com’è possibile che delle canzonette pop siano state composte quando i nostri nonni erano appena nati? Quanti anni hanno, ora, quei capelloni?

Io sono uno che non indora certo la pillola, faccio eccezione solo per Babbo Natale ma non ho nessun problema a dire tutte le altre verità. Paul ha 82 anni, Ringo 84, George è morto a causa di un tumore e John è stato addirittura freddato da un folle mitomane a 40 anni, davanti a casa sua. Spoilero immediatamente come stanno le cose per evitare il susseguirsi di domande morbose su argomenti che interessano tantissimo i bambini di quella fascia di età e tagliare corto.

Questa volta però c’è stato un plot twist che devo assolutamente raccontarvi. Ginevra, quella che siede nel secondo banco, è piena di tic perché a 4 anni è stata dimenticata sullo scuolabus che la portava alla scuola materna. Ha trascorso tutta la mattina chiusa nel deposito fino a quando qualcuno è riuscito a ricostruire la catena degli avvenimenti, l’ha riportata a casa e sono state avviate tutte le procedure del caso per attribuire la scala delle responsabilità. La mia è una scuola di un comune di quattro gatti, e questa notizia ha fortunatamente fatto passare in secondo piano quella – decisamente più sconveniente per l’istituzione che rappresento – del nonno che ha sbagliato a ritirare il nipote giusto. Ha preso un bambino e, sulla via di casa, qualcuno che lo ha rincorso gli ha fatto notare il qui pro quo.

Dicevo che Ginevra, tra un tic e l’altro, scesa l’attenzione sulla morte dei Beatles, mi ha chiesto se i musicisti quando diventano vecchi vanno in pensione. Volevo dirle che sarebbe una cosa fantastica perché significherebbe che quello del musicista è un lavoro, che i musicisti arrivano a un certo punto della loro vita senza morire di overdose o suicidarsi a ventisette anni e che, a quel punto della vita, sono riconosciuti da un sistema previdenziale che tiene i conti anche alla loro attività e che fa anche per i musicisti i calcoli per capire quando è il momento di fermarsi. Che poi sarebbe un bene che i musicisti, a quel certo punto della loro vita, si fermassero. Volevo dire a Ginevra che avevo la risposta, o meglio che le avrei risposto solo dopo aver ascoltato il nuovo disco dei Cure che sta per uscire, tra qualche settimana. Avrò le idee più chiare sul fatto che i musicisti sanno riconoscere davvero quando è il momento giusto per andare in pensione.

black out

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Sono pochi i mestieri come il mio che, tra i rischi, comprendono la possibilità che un moccioso di sei anni ti vomiti sulle Camper scamosciate. Il fatto è che, per la prima volta da quando insegno, ho un bambino cinese con cui instaurare un rapporto normale, e per normale intendo che io parlo e lui mi risponde, oppure lui parla, io capisco e posso rispondergli. Mi spiace se avete intercettato una venatura di ottuso razzismo in quello che ho scritto, ma vi posso assicurare che le mie ragioni sono motivate e la provenienza (che poi sono tutti bambini italiani nati qui, fatti e finiti, ma lo sarebbero anche se non fossero nati qui, non vedo problemi) non c’entra un tubo. Due cicli fa c’era una ragazzina che praticava il mutismo selettivo, e io rientravo a pieno merito nella sua blacklist appartenendo alla categoria degli adulti non di famiglia con l’aggravante dell’autorità precostituita. Il ciclo scorso è stato quindi il turno di un bimbo ipoacusico, un po’ Asperger e tutto accartocciato nel suo mondo di numeri e forme geometriche. Mi manca molto, e sono sicuro che qualcosa delle nostre conversazioni strampalate e senza capo né coda sia rimasto anche a lui.

Quello di quest’anno è invece simpaticissimo e dolcissimo, anche se un po’ timido. Lui mi parla, io gli parlo, e insomma ci capiamo. Ieri, durante la merenda di metà mattinata, mi ha detto di accusare un po’ di mal di pancia, dopo pranzo. Gli ho proposto di chiamare a casa, ma ha preferito resistere. L’ho rassicurato chiedendogli di avvisarmi, nel caso il fastidio perdurasse. E così è stato. Pochi minuti dopo mi si è avvicinato – eravamo al centro della classe – ha biascicato qualcosa di cui, purtroppo, non ho colto granché.

Un’incomprensione che si è rivelata fatale. Ha riaperto bocca ma, questa volta, non per parlare. Ho fatto un balzo all’indietro ma non è stato sufficiente. Il vomito – poca roba, per lo più acqua, non so perché ma i bambini da quando si portano le borracce ecologiche a scuola bevono come dei cammelli, e la merendina appena consumata – si è distribuito democraticamente tra il suo zaino, il pavimento e le mie scarpe.

La procedura, quando un bimbo sta male, è quella di avvisare in segreteria in modo che la segreteria chiami uno dei genitori. Da più di una settimana, però, i telefoni degli uffici amministrativi sono guasti, come dicono loro. Chiami e ti dà sempre occupato. Non saprei dirvi se sia una cosa da nulla, una di quelle che si risolvono spegnendo e accendendo qualcosa, se qualcuno non ha pagato una bolletta o se il problema è invece serio. Il punto però è che in nessun’altra organizzazione, di qualunque settore o dimensione, sarebbe ammissibile un black-out dei telefoni di questa portata. Più di una settimana in cui un servizio (acquistato da un servizio pubblico) non funziona e nessuno è venuto a sistemarlo, sempre che qualcuno abbia chiamato l’assistenza.