B2

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Questa mattina ho terminato due dei tre corsi che abbiamo organizzato grazie al programma di formazione del personale scolastico per la transizione digitale previsto dal DM 66/2023 e dedicati ai colleghi del comprensivo in cui insegno. Anzi diciamo pure alle colleghe, perché di colleghi maschi iscritti ce n’è solo uno. Prima di ogni lezione mi offre il caffè del distributore automatico e se vede che sono indaffarato me lo porta direttamente nel laboratorio di informatica. I due corsi in presenza che ho terminato oggi avevano il focus su alcune piattaforme che utilizziamo sia per la didattica che per l’organizzazione e la gestione del nostro lavoro, compresa la collaborazione e la comunicazione. Io cerco di arrivare almeno mezz’ora prima dell’inizio per avere tutto pronto e non rischiare imprevisti. Man mano che l’aula si colma dei partecipanti, offro il mio supporto affinché riescano a seguire le lezioni in modo efficace. Malgrado il laboratorio sia un forno, aiuto le colleghe a collegare i loro notebook alla ciabatta scomodissima avvitata al contrario sotto le postazioni, mi assicuro che utilizzino Chrome e non Edge e cerco di sbrogliare gli inevitabili aggrovigliamenti tra gli account Google personali e quello della scuola che si formano tra le schede aperte del browser. In questi circa dieci minuti mi pezzo come quando vado a correre, ed è a questo punto che arriva il collega a fornirmi ristoro con un bel surrogato di caffè bollente del distributore automatico che non rifiuto per non risultare scostante ma, piuttosto, trangugio il più velocemente possibile per abbattere il tempo di sofferenza.

I tre corsi che abbiamo organizzato sono stati pensati per livello e hanno avuto un’adesione al di là di ogni aspettativa per due ragioni. Intanto perché dieci ore di formazione erano obbligatorie per un motivo che non vi sto a spiegare, e poi perché le colleghe che mi conoscono sanno che il mio approccio è informale, per non dire che, mentre spiego le cose, racconto un sacco di minchiate. Insomma, credo di essere divertente e coinvolgente ed è un plus per un corso di formazione in presenza da seguire sventolando il ventaglio.

I due corsi in presenza, quelli che ho terminato stamattina nella sauna del laboratorio di informatica, erano entry level e ne abbiamo organizzati due solo perché, proprio per l’adesione in massa, i posti in laboratorio non erano abbastanza per tutti. Una casualità che però ha involontariamente generato due diciamo sottolivelli. L’entry level, cioè quello che avevamo pensato, e un livello sotto l’entry level con colleghe che – anche piuttosto giovani – a malapena sanno usare un computer, e quando dico a malapena intendo proprio nemmeno a muovere il cursore sul trackpad o, peggio, coordinare le dita sui tasti del mouse. E, credetemi, non lo dico con cattiveria. Anzi, e questo l’ho condiviso con loro, ho apprezzato tantissimo il fatto che si siano messe alla prova, al di fuori della loro confort zone, in un ambito che sicuramente non costituisce il diciamo core business della loro attività e, quindi, ne possono fare a meno come d’altronde hanno sempre fatto. Sono state loro a darmi la più grande soddisfazione, che poi ho scoperto esser stata reciproca proprio oggi, allo scadere dell’ultima ora dell’ultimo incontro.

Oltre ai due corsi in presenza c’è un terzo corso da remoto che abbiamo pensato invece di livello intermedio. Non tutti i partecipanti a questo modulo, però, si sono iscritti per migliorare la propria dimestichezza con le app didattiche. Il corso online è decisamente più comodo perché, anziché sudare nel girone infernale del laboratorio di informatica (30 persone, 30 dispositivi accesi, zero aria condizionata, finestre che non si possono aprire a causa delle veneziane rotte che ne ostacolano l’uso) è possibile migliorare le proprie competenze digitali a casa in mutande e con l’aria condizionata a manetta, indipendentemente dal livello entry, pro o master a cui ci si sente di appartenere. Una dinamica che va a scapito di chi, invece, si è iscritto per esercitarsi con le attività un po’ più complesse di quelle a cui è abituato ed è costretto ai continui stop di chi dovrebbe essere con il livello for dummies e chiede il mio supporto per le funzionalità più banali. C’è una collega che, addirittura, segue le lezioni con lo smartphone e che, come avrete capito, non può fare nessun tipo di pratica. Quando glielo ho fatto notare mi ha tranquillizzato sostenendo di trovarlo comunque utile. È chiaro che, per lei, è sufficiente la presenza per dimostrare di aver partecipato a un’iniziativa di formazione obbligatoria. La sua diciamo indolenza però è pienamente compensata da un gruppetto di fidate stalker digitali che hanno deciso di seguire sia il corso in presenza (quello non per dummies) sia quello online, giustificandosi col fatto di trovare le attività che propongo interessantissime. Come biasimarle.

Anch’io, a parte i corsi che tengo come esperto formatore (si chiama così nella piattaforma dedicata il docente), dovrò partecipare come studente a qualche altra iniziativa. Dovrebbero partire una serie di incontri sull’intelligenza artificiale – il nuovo tormentone e demone della scuola italiana – e, soprattutto, un corso per conseguire una certificazione di inglese. Al placement test che l’ente che si è aggiudicata l’iniziativa ci ha somministrato, sono risultato B2. Un risultato che mi ha riempito di gioia e ha gonfiato a dismisura il mio ego perché, quando insegno inglese ai miei bambini, mi sento meno che A1 e faccio una fatica boia.

B2 è un risultato più che soddisfacente, anzi, superiore a ogni aspettativa. Da quando ho ricevuto questa notizia ascolto i miei gruppi inglesi e americani preferiti con un approccio diverso. Mi sembra di comprendere di più i testi delle loro canzoni, oppure faccio finta di capire, facendo finta di non fare finta, oppure ancora capivo bene anche prima ma non sapevo che quella fosse una cosa che sapevo fare.

pj

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La prima cosa che mi ha convinto del mestiere dell’insegnante è che, a differenza dei lavori che ho svolto prima in cui ero sempre il più vecchio o quasi, nella scuola ogni anno c’è gente che va davvero in pensione. Ho la prova che esistono persone anziane che, quando la legge glielo permette, smettono di lavorare. Non è una favola.

Al termine del collegio docenti conclusivo erano in otto, a questo giro. Sette colleghe (come sapete, i maschi che insegnano sono mosche bianche) e Anna, la mia bidella preferita, anche se bidella non si dice più. Esaurito l’ultimo punto all’ODG, un nuovo ultimo collegio docenti plenario ha chiuso anche quest’anno scolastico (anche se in realtà saremmo in servizio – pronti in caso di necessità, ma che nessuno si guarda bene dal causare – fino al primo giorno di ferie) non prima di aver festeggiato il personale uscente.

Ma non è questo il punto. Siete mai entrati in una scuola a fine giugno/primi di luglio? Se non credete che l’equazione caldo e fannulloni abbia delle ragioni fondate – che è il luogo comune che il nord del mondo associa al sud del mondo, popoli del Mediterraneo compresi, cioè noi – dovreste mettere piede in un edificio scolastico italiano in estate. Le nostre strutture sono assolutamente inadeguate per un prosieguo dell’attività didattica post calendario, quindi alle cosiddette mamme di merda (non è una diffamazione, si autodefiniscono così loro stesse, provate a documentarvi su Facebook) che ci vorrebbero in cattedra, a noi docenti, e al loro banco, i loro mocciosi, dico che per me va bene.

Prima però voglio l’aria condizionata come negli uffici delle multinazionali in cui probabilmente lavorano loro, e dell’installazione pretendo che se ne occupino i loro mariti, considerando che l’iter per un’opera di riqualificazione di questa entità – richiesta dei docenti alla segreteria, richiesta della segreteria al preside, delibera in consiglio d’istituto e approvazione, richiesta del preside al dirigente dell’ufficio scolastico del comune, proposta in consiglio comunale, aggiunta della voce in bilancio e delibera dei lavori, assegnazione dell’appalto, avvio dei lavori, avanzamento dei lavori, chiusura dei lavori, collaudo e sono sicuro di aver saltato qualche pezzo – si concluderebbe il primo anno dopo il pensionamento mio e di quelli che la pensano come me, quando cioè probabilmente il mondo sarà liquefatto a causa del riscaldamento globale e dei condizionatori non sapremo più che farcene, anche perché i combustibili fossili saranno esauriti e non avremo più energia e tanti saluti all’umanità e alla pedagogia come l’abbiamo conosciuta.

Ed è in questo clima subtropicale monsonico post-negazionista che si consumano i festeggiamenti per i colleghi in uscita. Banchi doppi uniti a formare infinite tavolate a ferro di cavallo imbandite di pizzette, focaccine, tramezzini, brioches salate e mini-panini imbottiti burro e salame, tutte cose a cui io non so resistere. Solo, riflettendo sui rischi di un rientro in auto all’una del pomeriggio con quaranta gradi, il cielo coperto e quell’aria gelatinosa che avviluppa ogni cosa nell’attesa di un tornado da cambiamento climatico, ho declinato l’invito a brindare e poi vuotare alla goccia il calice in plastica non riciclata colmo di bollicine che qualcuno aveva riempito per me.

Negli edifici scolastici, d’estate, e in particolare questa che, con tutti i progetti finanziati dal PNRR che ci sono in ballo, è un’estate molto particolare, succedono strane cose. Ci sono i presidi che impazziscono, parto dalla cima della gerarchia. Ci sono i bidelli a ranghi ridotti che, d’estate, hanno più la funzione di custodi, anche se li vedete pulire cose e ambienti che hanno già ampiamento pulito le settimane prima. Loro sono il vero muro di gomma ed è giusto così, altrimenti ci troveremmo circondati da scuole finlandesi e proprio non è il caso, anche perché con queste condizioni meteo si squaglierebbero all’istante.

Ci sono un paio di amministrativi a chiudere tutte le questioni che gli ultimi mesi di scuola, che stanno all’anno scolastico come il finale caotico e accelerato di certi brani musicali sta all’andamento statico di certi brani che poi esplodono con un finale caotico e accelerato, quando una sana normalizzazione dei ritmi nel corso dell’anno sarebbe il toccasana per la scuola italiana, dicevo tutte le questioni rimaste in sospeso.

Ci sono infine due o tre sfigati, più due che tre, in alcuni casi addirittura uno solo, che tengono corsi di formazione ai colleghi, sistemano i nuovi ambienti didattici, mettono in ordine l’equipaggiamento informatico e digitale, e profanano la scuola con abbigliamento da bassa manovalanza, sudando come maiali e trascorrendo da soli la pausa ai distributori automatici con lattine di chinotto ghiacciato a sessanta centesimi, roba che al bar la pagherebbero almeno il triplo.

Ma, anche se in estate la scuola è vuota, se vi affacciate in una scuola in estate, chiudete gli occhi e vi concentrate sul vostro respiro, vi accorgerete che la scuola è sempre piena. C’è pieno di umanità, a scuola, e a scuola si fa il pieno di umanità. Anche tra i colleghi che partecipano ai corsi di formazione e che ringraziano i colleghi formatori e i colleghi formatori ringraziano i colleghi che partecipano perché è già luglio e tutti vorrebbero essere sull’autostrada del sole, possibilmente non in coda, a rotolare verso sud.

E non smetterò di meravigliarmi ogni volta in cui effettuo l’accesso al mio profilo Facebook e, in cima, riconosco i colleghi con cui l’algoritmo vorrebbe mettermi in contatto ma io me ne guardo bene. La scuola, malgrado faccia di tutto per mutare il suo codice genetico che è di carne, ossa, sangue, sudore, lacrime, bestemmie e passione (e anche un po’ certificati medici in momenti strategici dell’anno) in digitale, non svilirà mai la sua natura fisica in un simulacro virtuale. Accedo al mio profilo Facebook, nei giorni d’estate, quando ogni altra persona normale che non fa l’insegnante è in ufficio, e scorro la home fino a quando spunta una foto di PJ Harvey. C’è sempre una foto di PJ Harvey – per la quale nutro una venerazione che non vi sto a raccontare – che mi aspetta e che compare tra una notizia e l’altra, e la convinzione che Facebook mi legga nel pensiero si tramuta in certezza.

buon viaggio

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Mai mi sarei immaginato che la canzone più adatta alla situazione la potesse proporre Denis. Intanto perché fino ad allora, quando era stato il suo turno di fare il dj, mi aveva steso con la peggio trap, talvolta in rumeno e talaltra in un italiano stentato cantato da rumeni. Per non parlare di un certo reggaeton da Eurovision Song Contest con quell’inconfondibile flavour da ex repubbliche sovietiche lasciate in balia del capitalismo più sfrenato o, il punto più infimo, un certo Artie 5ive (scritto così) e il suo concentrato di doppi sensi, anzi, di sensi unici fin troppo espliciti della hit “La gattina”.

Invece Denis, a pochi minuti dall’ultima campanella, quella definitiva, quella a mai più rivederci, buona fortuna nel buco nero della scuola secondaria di primo grado e nei docenti che la popolano, ha lasciato di stucco tutti, almeno me, con un vero colpo da maestro.

Intanto il cantante, Cesare Cremonini, che di tutta la monnezza poppettosa e italomerda è uno dei più raffinati. La canzone, poi, non è certo l’ultima arrivata. Risale al 2015 quindi, di sicuro, c’è lo zampino dei genitori, una coppia che adoro e che è perfettamente riconducibile a tutti gli stereotipi che circolano da noi sui maschi rumeni e sulle loro consorti.

Infine il testo e il suo senso, il che significa che Denis l’italiano lo capisce alla perfezione – magari anche grazie a noi maestri – e che è perfettamente in grado di mettere in collegamento gli input che lo investono in una lingua che, a casa, non si pratica con assiduità.

E vi assicuro che non avevo mai fatto caso alla canzone fino all’ultimo giorno di scuola, fino a quando Denis l’ha chiesta espressamente come sigla di chiusura di tutto il nostro percorso – altro che “Just Like Heaven” come pensavo io – se non per il video realizzato con la telecamera 360 e quell’effetto assurdo che, ai tempi dell’AI e dei deepfake, sembra davvero una clip realizzata a Croda dai Gemelli Ruggeri, se siete anziani come il sottoscritto avrete capito cosa intendo. Non avevo mai colto appieno il significato del testo, il valore di parole come

Coraggio, lasciare tutto indietro e andare
Partire per ricominciare
Che non c’è niente di più vero di un miraggio
E per quanta strada ancora c’è da fare
Amerai il finale

che, se le avessi lette prima, mi avrebbero fatto inorridire per la loro insulsa melensaggine.

Eppure, vedete, anche una cagata pazzesca come una canzone di Cesare Cremonini, al momento opportuno, ha il superpotere di lasciarci così, di svitare tutti i dadi e i bulloni che ci tengono prigionieri della nostra collezione di dischi post-punk tanto quanto della raccolta di emozioni complesse compresse represse, accumulate in anni e anni di pose, e ci liberano verso stati d’animo elementari come quelli che ci trasmettono le persone come Denis, alte poco più di un metro, che augurano buon viaggio a tutti magari senza sapere nemmeno che cosa vuol dire. Un viaggio non si sa bene verso dove, faccio finta di non saperlo e mi rifiuto di chiederlo.

porcelain

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Quando facevo il copy nel settore della pubblicità, il project manager con cui lavoravo abitualmente intercettò al primissimo ascolto – su mio suggerimento ma resto umile – la portata evocativa di “Porcelain” di Moby. C’eravamo addirittura inventati un soggetto da proporre al nostro principale cliente, un brand che commercializzava emozioni – derivanti dall’impeto, tipico dell’essere umano, di spingersi sempre oltre – forgiate e modellate in orologi sportivi da centinaia di migliaia di lire. Non se ne fece però nulla. Uno dei testimonial storici di quei prodotti ci aveva da poco lasciato le penne proprio per essersi spinto un po’ troppo oltre e “Porcelain” suonava un po’ troppo lugubre per il mondo dell’adv. Era il 2000 o giù di lì, l’album “Play” era stato appena pubblicato e “Porcelain”, che oggettivamente è una delle canzoni pop più evocative al mondo, non aveva ancora raggiunto, nell’immaginario collettivo, anche il primato della canzone più triste al mondo.

Ma il mio pm ed io eravamo nel settore della comunicazione da abbastanza tempo per capire che le emozioni non c’entravano nulla con quel rifiuto. Piuttosto non c’era abbastanza budget a disposizione, un dettaglio che ridimensionò anche il nostro slancio – durato il tempo di una media chiara – di accaparrarci i diritti della canzone per usarla con un altro spot emotional, prima o poi. Eravamo abbastanza morti di fame entrambi, io più di lui che comunque aveva una famiglia benestante alla spalle e, in più, si stava accoppiando con la responsabile comunicazione di uno dei marchi di make-up leader di mercato, ma ci avevamo visto giusto. Di lì a poco “Porcelain” di Moby sarebbe stata scelta millemila volte come colonna sonora di film o come canzone per video pubblicitari e sono sicuro che chiunque di noi ha almeno un ricordo di un’esperienza da rivivere, mentalmente, con il sottofondo di “Porcelain” di Moby.

È per questo motivo che è da allora che vivo nella speranza che mi capiti un’occasione per infilarla dentro a qualche video per confermarmi, come se non lo sapessi già e non fosse di dominio pubblico, che avevo ragione. E, a distanza di quasi venticinque anni, l’occasione si è palesata proprio alla fine di quest’anno scolastico che ha coinciso con la fine del mio primo ciclo scolastico. Negli ultimi mesi ho raccolto una serie di interviste ai bambini della mia classe realizzate con tutti i crismi (telecamera su treppiede e microfono professionale, il tutto in una nuovissima aula tutta insonorizzata che abbiamo allestito grazie al PNRR) e ho montato le loro dichiarazioni – sull’esperienza di fruitori della scuola primaria, sui momenti più belli dei cinque anni, sulle paure per la scuola secondaria di primo grado – un po’ come si fa oggi nei documentari emotional in tv. E, finito il montaggio, ho pensato che “Porcelain” di Moby fosse il commento sonoro più appropriato. Tenete conto che il bello della scuola è che, a differenza del mondo reale, è tutto ammesso – e per fortuna -, a partire dai software craccati fino al download libero di film dal web. Per non parlare del copyright sull’uso delle musiche. D’altronde, trovatemi voi le differenze tra quello che ho realizzato io con un reel di foto che si susseguono a tempo su “Le tagliatelle di nonna Pina”, come fanno certi genitori di mia conoscenza.

Insomma, per farla breve, alla fine il video è venuto piuttosto bene. Almeno, così mi sembrava. Poco più di sei minuti – quasi interamente di parlato – con i bambini inquadrati in primo piano secondo la regola della sezione aurea, sequenze di interventi che si alternano a regola d’arte inframezzate da footage raccolto durante i cinque anni, in cui la musica esplode nei suoi momenti più drammatici, un bel piano di ripresa e svariati fattori che non sempre si vedono in un video di un insegnante di scuola primaria. Il punto è che, se volevo emozionare i bambini, è finita con un saccheggio del loro stato d’animo accompagnato dall’esaurimento delle loro risorse lacrimali, tra attacchi di panico da futuro incerto e abbattimento parziale della smania di crescere.

Al termine del pay off conclusivo – un bel font, scritta bianca su fondo nero – ho preso atto, con sommo sbigottimento, di una classe completamente devastata. Ho cercato di minimizzare, ma era troppo tardi. A due ore circa alla fine della loro esperienza nella scuola primaria, mi trovavo al cospetto delle macerie provocate da uno stato di depressione collettivo. Li ho portati in giardino, confidando nella portata di deconcentrazione che hanno gli spazi esterni in primavera sui bambini, ma niente. Nemmeno il pallone ai maschi ha colmato quella sensazione di nulla cosmico e di buco nero in cui la mia classe era caduta. All’uscita, poi, ci sono stati i soliti festeggiamenti con i palloncini, i coriandoli e le bolle di sapone, ma il mood era fin troppo evidente.

Quanto a me, mi sono commosso molto mentre preparavo il video e ascoltavo a ripetizione le strofe e i ritornelli di “Porcelain”, tanto che, durante la premiere collettiva, oramai il pathos si confermava quasi una routine. Ai primi piagnistei però ho rischiato di scoppiare in lacrime con loro. Poi, compresa la gravità della situazione, la fermezza imposta da ciò di cui ero spettatore ha prevalso e mi sono messo a fare l’adulto. Va da sé che “Porcelain” mi è rimasta addosso tutto il giorno e praticamente tutto il tempo, da allora. La canto con trasporto ed evito persino di parodiare la voce campionata del ritornello, come ho sempre fatto. Domani ci sarà la festa di fine anno e, probabilmente, qualche genitore mi chiederà spiegazioni. Non è un video per bambini, gli dirò. Ditegli di tenerlo, di conservarlo chiuso in una scatola, e di aprirlo e proiettarlo non prima di aver compiuto trent’anni.

luci della ribalta

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Il vero problema dell’insegnamento è che noi docenti siamo legati all’idea di costituirci modello per i nostri allievi. Cioè che, al netto del supporto al raggiungimento dei traguardi delle competenze, che è il nostro diciamo core business, gli studenti ci prendano per esempi di vita. Vi posso assicurare che nessuno dei miei bambini si è ancora presentato in classe con la t-shirt degli Idles, anche se stamattina Elisa indossava la maglietta dei Ramones, quella che conoscete tutti, la più iconica, ma forse perché avevamo le prove generali dello spettacolo di fine anno a conclusione del progetto di teatro/musica con lo specialista, è stato chiesto ai bambini di vestirsi di nero, e a casa di Elisa la maglietta dei Ramones era l’indumento più vicino a un outfit total black da palcoscenico. Che poi la vera maglietta dei Ramones non sarebbe proprio nera nera, piuttosto nera stinta come erano stinti loro. Ma, sfumature a parte, è difficile che dei genitori comprino a ragazzini di 10 o 11 anni una tenuta da Robert Smith da tutti i giorni, quindi per occasioni come queste va bene qualsiasi cosa trovino nei cassetti dell’armadio.

Comunque, tornando al problema dell’esuberanza di personalità dei professionisti della scuola, quell’impeto in cui ciascuno di noi docenti si percepisce come un John Keating pronto a strappare le pagine più reazionarie dei libri di testo e a gratificare ragazzini che salgono in piedi sul banco in senso proprio o in senso lato e traslato, io non sono da meno. E vi confesso che è proprio lo spettacolo che abbiamo messo in piedi, insieme alle altre quinte, a crearmi dei problemi. Intanto perché la trama e l’affidamento dei ruoli penalizza fortemente la mia classe, nell’insieme siamo quelli che hanno meno spazio, e questa cosa mi somiglia tantissimo. Meno spazio ho e più mi sento felicemente vittima e forse questa attitudine al ridimensionamento l’ho trasmessa efficacemente e loro davvero mi hanno preso come modello di tendenza verso il basso.

Non solo. I bambini delle altre quinte sono stati designati per lunghi monologhi e scene ad alto tasso di drammaturgia, mentre noi abbiamo una gag molto veloce, un balletto da tamarri e un finale degno del teatro brechtiano. Per non far loro pesare questa disparità, frutto della smania di protagonismo e di accentramento di alcune colleghe, che addirittura si permettono di mettere in discussione le scelte dello specialista al cospetto degli studenti, una tecnica che mette a rischio la sua autorevolezza, dicevo che per non far pesare loro questa disparità ho puntato sul fatto che salire sul palco alla fine di uno spettacolo è un privilegio riservato alle star. Gli ho portato, come esempio, i concerti, nei quali per ultima è prevista l’esibizione dell’headliner e chi lo precede è solo lì per scaldare la folla per l’atto conclusivo, l’acme, il momento culminante. Gli ho ricordato che quando ho suonato al concertone del Primo Maggio noi abbiamo aperto la manifestazione alle due del pomeriggio, quando la piazza era già bella piena ma la diretta tv sarebbe cominciata un’ora più tardi, e in quell’edizione c’era Sting subito dopo il tg, a coronamento dell’esibizione di decine di artisti sconosciuti come noi.

Vada come vada, è indubbio che non c’è nulla di meglio di un laboratorio teatrale a conclusione di un percorso scolastico di cinque anni, un’esperienza nella quale si esordisce bambini e che si conclude con le mestruazioni e la puzza di crescita. Vederli scorrazzare sotto le luci colorate e la sala al buio, nel silenzio delle prove generali e avvolti nel profumo del legno del palcoscenico, inconsapevoli del fatto che il giorno dello spettacolo la platea non sarà vuota ma ci saranno duecento persone a vederli, trasmette l’emozione forte del tempo che passa e della vita che va. Aspetti che cogliamo solo noi ex genitori di bambini di quell’età, divorati dal rimorso di non poter rivivere certe emozioni da capo, perché su di loro tutto scorre via liscio, senza ieri né domani, in un eterno presente che capire non si sa.

Li osservo provare e mi immedesimo in uno di quei quasi ex bambini, quando saranno evaporate le sensazioni di panico da palcoscenico e l’euforia degli applausi, e mi chiedo se, la sera dopo lo spettacolo, nel loro lettino, magari a seguito di una pizza con tutta la famiglia come premio per la giornata, rifletteranno sul vuoto che li aspetta davanti e l’ignoto che li sta per avviluppare nelle varie declinazioni della crescita, degli affetti, dei cambiamenti, dei dolori, delle passioni, dei dispositivi elettronici che si romperanno e degli ombrelli che dimenticheranno sui treni e del caos della vita. Mi chiedo se ripenseranno a quel turbamento appena provato, tutti in cerchio sul palco a recitare una versione approssimata di quello che sono diventati in quella manciata di anni in cui hanno vissuto, non per loro scelta, in mezzo ad altre persone a grandi linee simili a loro.

E non ho potuto non mettere in relazione questo spettacolo d’addio con un’iniziativa analoga che ha coinvolto una seconda, a cui ho assistito il giorno prima, nello stesso spazio. Esseri umani di una dimensione veramente ridotta, con quell’incertezza in entrambi i ruoli – quello di bambini piccoli e quello di attori – che è poi il principio attraverso il quale inducono gli adulti a prendersi cura di loro, ad accudirli in quanto figli (o bambini tout court) e a insegnargli le cose che sappiamo per aiutarli ad uscirne fuori, da quell’incertezza che ci ispira così tanta tenerezza.

In generale un insegnante non dovrebbe essere troppo sensibile, tendere alla malinconia, metterci troppa passione, caricare le aspettative, portarsi il lavoro a casa, voler cambiare le persone, aspettarsi la riconoscenza da chicchessia. Ogni giornata ha un suo tema, una sua canzone, un colore imprevedibile, un pezzo di sé da portare a scuola e che non è detto che serva a qualcosa.

AAA

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Sto seguendo un corso di formazione tenuto da un collega che ha una visione della lingua italiana tutta sua. Grazie a una sorta di un vezzo dialettale fa terminare alcune parole ubicate in punti strategici delle frasi delle sue spiegazioni con la lettera A, anche se la lettera A non c’è. Quindi è tutto un noa, sia, giovedì alle trea, il fatto chea, cioèa, questa funzionalità dia, perchéa, siete quia e via così. Il punto è che non riesco a concentrarmi sui contenuti perché – il corso si svolge online – mi sono messo a segnarmi tutti i passaggi che, con la lettera A in fondo, suonano più divertenti. Il formatore poi inizia un quarto d’ora dopo l’orario stabilito e, più o meno a metà, va a prendersi un caffè. Ho pensato che sia un modo tutto italiano per gestire questo tipo di attività, non mi ha sorpreso quindi il momento in cui, verso la conclusione, pur parlando di piattaforme di gestione organizzative e didattiche in ambito scolastico, il formatore ha preparato una pizza e ha provato a rifilarci un autoradio con un mattone dentro. Un altro aspetto del suo metodo che non condivido è che lascia troppo spazio a noi e alle nostre domande. Se mi sono iscritto al suo corso è perché voglio ascoltare lui, anzi, luia, e non le farneticazioni di noi discentia che, nell’uso della piattaforma al centro del corso, facciamo un uso discutibilea. Il punto è che i docenti – io in primis – amano parlare di sé e innestano se stessi in qualsiasi narrazione, anche solo per formulare una faq a un help deska. In una classe di bambini o di ragazzini lobotomizzati dai socialcosi si matura poi la consapevolezza che sia naturalea proporre i propri punti di vista senza contraddittorio alcuno. In natura non funziona così. Dici qualcosa e trovi sempre qualcuno che sostiene il contrario e rovina la festa. Per questo non ci vedo niente di male a dire, a questo punto del racconto, che i miei corsi di formazione, quelli che tengo io e che potete cercare sulla piattaforma Scuola Futura – che, per i non addetti ai lavori, è una specie di bric a brac della formazione in cui milioni di insegnanti italiani si improvvisano tuttologi di tutto e si dichiarano responsabilmente pronti alla divulgazione del proprio sapere – sono molto meno divertenti. Parlo per due ore di fila senza sosta e non perdo tempo in Q&A. In più mi mangio le parole, faccio fatica a trovarle e ho questo tono da nevrotico in cui vado velocissimo e chi si è visto si è visto. Ma se devo usare nomi o argomenti di fantasia, per mettere in pratica degli esempi, parlo dei Cure e di Miles Davis. Lo scorso martedì, però, al collegio docenti, una collega dell’infanzia si è congratulata per il mio metodo. Dice che è funzionale e che nessuno si addormenta. Le ho risposto grazie e, dentro di me, ho pensato che potrei brevettarlo. Anzi, di sicuro lo brevetteroa.

kamikaze

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Una delle raccomandazioni che mi sono state fatte quando ho vinto il concorso e ho iniziato a lavorare nella scuola è stata di non diventare uno di quelli che raccolgono gli strafalcioni di alunni, colleghi, bidelli e personale amministrativo e poi tenere un diario, un blog, un profilo social o addirittura scrivere un libro e vendere milioni di copie e fare un pacco di soldi. Tranquilli, cari amici, vi prometto che non ho nessuna intenzione di diventare ricco sfondato. Quello degli errori grossolani costituisce un genere letterario banale, ampiamente sfruttato e che non fa ridere nessuno. È per questo che mi sono sempre rifiutato di pubblicare le foto di alcune scatole che ho trovato nell’armadio del laboratorio di informatica, nemmeno quella su cui qualcuno ha scritto “maus” o quell’altra la cui etichetta in pennarello riporta il contenuto e cioè un “ruter” e non è solo un problema di lingua. Le castronerie informatiche nel mondo della scuola meriterebbero infatti un capitolo a sé, e se potessi occuparmene in prima persona comincerei la storia narrando la leggenda metropolitana, da sempre consolidata nel comprensivo in cui insegno io, secondo cui i file audio mp3 delle prove Invalsi, dopo il primo e unico ascolto consentito, per una certa alchimia soprannaturale non permettono più di essere riprodotte. Stamattina una collega mi ha aggredito verbalmente perché – con un anticipo decisamente ampio rispetto alla campanella e quindi al riparo dal rischio di diffondere un segreto che, Fatima a parte, non ha eguali – ho testato la qualità delle casse della sua aula con l’audio della prova standard del listening di Inglese. Io pensavo scherzasse, poi altri colleghi mi hanno guardato nemmeno avessi bestemmiato. “Sei pazzo”, mi sono sentito dire. “Non lo sai che al secondo ascolto si bloccano e diventano inutilizzabili?”. Ho pensato a quale evoluta tecnologia di crittografia in dotazione al ministero potesse essere in grado di abilitare una funzionalità simile su file scaricati su dispositivi personali, poi ho velocemente passato in rassegna certe farneticazioni istituzionali sul digitale a cui sono quotidianamente esposto nell’ambiente in cui lavoro, ho fatto due più due e, tornato in me, sono scoppiato a ridere. Eppure, un mp3 kamikaze che, al secondo ascolto, si fa esplodere sul desktop potrebbe costituire l’incipit di un best seller di un nuovo genere letterario che coniuga l’intelligenza artificiale a un certo umorismo demenziale tipico di chi, come me, non fa ridere nessuno. Sentite questa: ti va di salire da me a vedere la mia collezione degli audio delle prove Invalsi degli ultimi cinque anni? Li metto con una certa frequenza, soprattutto quando voglio preparare per bene i miei alunni per il test più inutile di tutto l’intero percorso didattico e formativo, eppure funzionano ancora perfettamente. Non se ne è consumato nemmeno un bit.

una volta qui era tutta campania

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Nel quadernone di matematica di Belen sembra che un ordigno sia esploso scaraventando numeri, parole e frammenti di essi alla rinfusa. Anche le figure geometriche hanno tutta l’aria di esser state bombardate: quadrilateri con tetti che crollano e pareti ridotte in macerie, e cerchi che ricordano le poltrone a sacco su cui perdeva l’equilibrio il buon Fracchia. E, tutto intorno, macchie di cancellature, strappi e buchi nei fogli, riconducibili al punto della deflagrazione di cui sopra. Se non fossimo persone che non si lasciano avvincere dal fascino della semplificazione e dei luoghi comuni, potremmo dimostrare che il disordine e l’incuria con cui gestisce il suo materiale riflettono perfettamente la situazione famigliare. Il padre (originario della provincia di Napoli, uno che si mette il gel e non si sa bene che lavoro faccia ma guida un’auto da serie Netflix sulla criminalità e sul profilo Facebook ha impostato una foto con la faccia parzialmente coperta dalla mano con il dito medio – tatuato – alzato verso l’obiettivo, diretto cioè verso il mondo e anche me) e la mamma (nata nel centroamerica e con quel piglio aggressivo di partenza, indipendentemente da quello che le devi comunicare) si stanno separando. Almeno così mi ha fatto comprendere la madre durante un colloquio a metà anno, anche se spesso li vedo recuperare Belen e il fratello, a cui hanno dato un nome altrettanto in linea con l’immaginario Mediaset, insieme.

Nonostante questo, Belen si conferma una delle mie preferite per due, anzi, tre motivi. Il primo è che pratica questo disinteresse totale per la scuola, in linea con i genitori che non credo abbiano mai firmato una delle disastrose verifiche della figlia, con una coerenza encomiabile. È così in tutte le materie e, dalla prima alla quinta, la mia collega ed io non dico che le abbiamo provate tutte ma ne abbiamo provate abbastanza, e quelle che abbiamo provato non hanno avuto alcun successo. Evidentemente, parlo per me, non sono all’altezza di suscitare a lei, e di conseguenza alla famiglia, il benché minimo interesse verso la scuola. Belen se la cava però straordinariamente in due cose, che coincidono con gli altri due motivi per cui la stimo. Intanto in Inglese è tra le migliori della classe, una materia che non studia come le altre ma che coltiva seguendo cartoni e serie tv in lingua e, soprattutto, frequentando l’umanità di TikTok.

Poi sa cantare alla perfezione le canzoni di Geolier. E quando scrivo alla perfezione è perché, oltre a conoscere a memoria tutte le parole dei testi che, come sapete, sono in dialetto stretto napoletano, è in grado di eseguire perfettamente tutte le mosse – principalmente studiate per gli arti superiori e il viso, in quanto pensate per TikTok – che le convenzioni di TikTok appunto impongono all’interpretazione delle canzoni dei cantanti di grido. E ancora, se non fossimo persone che non si lasciano avvincere dal fascino della semplificazione e dei luoghi comuni, legheremmo la sua principale peculiarità, una resilienza a ciò che comunemente riconduciamo al fallimento scolastico fuori del comune, a questo mix esplosivo tra le culture del papà e della mamma.

Forse perché per Belen non costituisce affatto un fallimento, il non aver raggiunto un obiettivo che è uno in matematica, da quando la conosco. La materia prima della sua resilienza fuori dal comune è stare su un pianeta che non è lo stesso in cui abitiamo noi insegnanti, i compagni, in cui c’è un edificio scolastico con le aule e i suoi laboratori. Belen vive in una dimensione parallela in cui queste cose sono invisibili, un secondo pianeta Terra fatto e finito esattamente come il nostro dove però non si studia per acquisire le competenze che poi, nella vita, permettono di vivere indipendenti dagli altri e da tutto. Un secondo pianeta Terra in cui si va in crociera con il papà per dieci giorni così, durante lo svolgimento regolare delle lezioni, senza avvisare nemmeno i docenti. Ma mica per altro, giusto per non farli preoccupare, se l’avessimo saputo prima di certo non le avremmo dato dei compiti da svolgere per non rimanere indietro, anche perché tanto non li avrebbe fatti.

il piacere è tutto mio

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Il percorso affettività che abbiamo organizzato per le nostre quinte ha avuto riscontri che hanno dell’incredibile. Se non sapete di cosa stiamo parlando, con la locuzione percorso affettività si intende una serie di incontri pensati per i bambini ai principi della pubertà condotti da un team specializzato composto da psicologhe e ostetriche e dedicati ai temi legati al sesso, all’amore e a come nascono i bambini.

La mia scuola, come spero la vostra, si rivolge ai consultori pubblici, un vero concentrato di competenze. Da me, una collega ha tentato il golpe proponendo un’organizzazione dal nome Teen Star che basta googlarla per trovarsi nelle pagine dei meeting di Rimini. Per fortuna la mia dirigente e il collegio docenti si sono espressi a favore dell’opzione laica e i superstiziosi oscurantisti, ancora una volta, sono stati giustamente relegati ai loro conciliaboli fantasy. Ma, con i fasciomelonisti al potere e le loro rotture di maroni sul primato bianco italiano cristiano no-vax, i tempi sono quello che sono. Per questo un paio di mamme ha comunque voluto conoscere per filo e per segno il programma previsto dall’iniziativa. Ed è stata proprio una delle loro figlie, nella sessione di Q&A, a chiedere all’ostetrica in che senso, fare l’amore, procura piacere.

Non è il primo progetto che seguiamo quest’anno, e non sarà certo l’ultimo. I docenti sono chiamati a rimanere in classe per ovvie questioni di sorveglianza, ma a me piace comunque restare e ascoltare gli esperti che ingaggiamo per imparare, soprattutto in questo caso e anche perché, in caso di richieste di approfondimenti da parte della mia classe, dovrò cercare di mantenermi in linea con l’approccio delle specialiste. Cosa che sarà impossibile, perché erano così brave da risultare commoventi. Sono riuscite a trattare argomenti delicatissimi con una naturalezza encomiabile. A nessuno dei miei è scappato un risolino, ci sono state domande anche piuttosto scomode alle quali non si sono sottratte e che sono riuscite a evadere perfettamente, come quella che vi ho detto prima.

Ho invidiato moltissimo la bramosia di conoscenza che serpeggiava in classe, un gruppo davvero speciale che non credo mi ricapiterà mai nella mia carriera. Ero seduto in mezzo a loro – dopo essermi accertato che la mia presenza non creasse inibizioni – e captavo quella sete di vita che veniva placata un sorso alla volta. Poi c’è stato un passaggio in cui ho percepito una di quelle emozioni confuse che mescolano esperienze vissute all’istante in corso, ed è stato magico sentirsi immersi nella trasformazione che si stava compiendo intorno a me, anche se è stata questione di un istante, per ritrovarmi di nuovo spettatore come prima che accadesse tutto ciò.

Le specialiste ci hanno lasciato una scatola vuota di latta, quelle che contengono biscotti tipici del nord Europa, in cui i miei alunni potranno mettere le domande in forma anonima. Una trovata efficace dedicata a chi vuole saperne di più ma non se la sente di esporsi. La ragazzina curiosa sul piacere, quella della famiglia ultracattolica, con la sua ingenuità ha invece spiazzato tutti. Almeno me, che vedo tutto dall’altra parte della vita.

out of office

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Se al rientro dal weekend di carnevale la scuola è praticamente finita, a Pasqua e pasquetta, se non fosse che piove sempre – tranne quando siamo costretti in casa per un lockdown – possiamo considerarci già in piene ferie di agosto. Ho allestito un calendario per organizzare al meglio le ultime attività da svolgere con i bambini e lo slalom tra progetti e gite, se fossi uno che patisce il mal d’auto, mi avrebbe esposto a serio rischio sbocco sul file di Google Fogli su cui lo ho preparato. Ho piazzato le ultime esercitazioni (guai a chiamarle verifiche) decisive per tirare le somme dei cinque anni di matematica e, nella manciata di minuti che mi è rimasta libera da qui a giugno, ci infilerò tutto il resto.

Nel corso di formazione che sto tenendo in queste settimane ai miei colleghi, previsto dalle azioni di coinvolgimento degli animatori digitali all’interno del PNRR, ho insegnato ai colleghi a mettere l’out of office con GMail. La tentazione di inviare gli auguri di buona pasqua a tutta la lista per verificare chi ha avuto davvero il coraggio di impostarlo sul serio – la mia era una ironica provocazione – è forte. Le persone che non hanno a cuore la scuola italiana sostengono che, per noi docenti, un risponditore automatico non occorre, intanto perché siamo sempre in ferie e poi perché sarebbe l’unica occasione in cui rispondiamo al mittente come si fa negli uffici seri, cioè appena riceviamo l’email. Invece vi posso assicurare che siamo in tanti a rispondere all’istante come si fa negli uffici seri, soprattutto proprio quando qualcuno – di norma la docente di religione, sicuramente la più coinvolta dalla cosa e la più autorevole nel settore – invia gli auguri a tutti, corredati da gif o immagini in stile buongiornissimo!!1! kaffeeee?? sui gruppi di paese su Facebook, non so se ho reso l’idea. La casella di posta immediatamente si satura di una pioggia di ringraziamenti e saluti incrociati, in un tripudio a metà tra il boomerismo e quel modo di essere digitali tipico degli insegnanti.

In realtà a me spiace non poter salutare tutti, l’ultimo giorno prima delle pause più lunghe. Quando lavoravo in agenzia, l’ultimo giorno, con quello stato d’animo (inesistente altrove in natura) di stupore per l’eccezionalità di non doversi recare al lavoro il giorno dopo e quelli successivi per un causa indipendente dalla propria volontà (la chiusura decisa dall’azienda stessa), alle 18 mi lanciavo in un tour delle postazioni per lasciare il mio arrivederci a dopo le vacanze. Ma eravamo in trenta persone, e con un paio di saluti generici mi era possibile raggiungere tutti.

A scuola questo è impossibile. Siamo cinque volte tanto, distribuiti in più plessi e, nello stesso edificio, su più piani e, ancora, in aule separate e talvolta con le porte chiuse, nel segreto del nostro metodo pedagogico. Un tour di tutto il comprensivo mi esporrebbe alla preoccupazione plenaria sul mio stato di salute mentale. Chi mai lo farebbe? E poi, a dirla tutta, mi sa che domani faccio un salto, tanto le collaboratrici ci sono. Devo sgomberare un magazzino che diventerà un nuovo laboratorio e vorrei installare ChromeOS Flex per recuperare un paio di catorci che, all’ennesimo aggiornamento Windows, non danno più segni di vita. A scuola, volendo, c’è sempre da fare ma non prendetemi per uno di quelli malati di zelo. Mi piace l’atmosfera che si crea nelle aule e nei corridoi durante i giorni di chiusura. Il tempio dell’istruzione svuotato della sua materia prima. Una sensazione che non ha nulla a che vedere con l’andare in ufficio il sabato o la domenica perché c’è una scadenza da rispettare. Quante volte mi è successo. Ecco, a scuola non ci sono scadenze da rispettare, o meglio, non di quel tipo che intendete voi. Si fa sempre tutto tutti insieme e, proprio come in classe, il primo aspetta l’ultimo. E, se nell’attesa si annoia, c’è sempre una cornicetta da disegnare e colorare, per abbellire il foglio.