non spot

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Io le chiamo “le non pubblicità”, ma anche “non spot” rende l’idea se non fosse che ci si concentra di più sul gioco di parole con “non stop”, e si perde in efficacia, perché è sulla sulla sostanza che, come in pubblicità, dovremmo focalizzarci. Adoro le non pubblicità perché mi sono rotto i maroni delle pubblicità e delle narrazioni in cui si parte da qualunque punto del cosmo e si arriva al prodotto in un tripudio di dialoghi e immagini didascalici, modelli o finti tali, o – come usa di questi tempi – ingenue provocazioni. Oramai si è detto tutto ed è un bene stravolgere i paradigmi. Un velato esempio di non pubblicità è lo spot di Prima Assicurazioni, con Derek Shepherd boicottato dagli eventi in diversi modi, a seconda del soggetto. Ma le mie non pubblicità preferite sono quelle di MV Line, produttore di infissi, tende e zanzariere. Lo spiega bene Virginia Dara su Insidemarketing:

Da inesperta della pubblicità, cioè, sembra proprio che MV Line provi a smascherare con ironia e in maniera divertente gli espedienti più spesso usati per vendere. Lo fa cogliendo gli spettatori sulla soglia dell’inaspettato e sorprendendoli in un contesto, quello della comunicazione pubblicitaria in TV

Qui trovate i tre soggetti: barrette


bucato (si può vedere solo su youtube)
https://www.youtube.com/watch?v=sQjP56jseYc
e influenza
https://www.youtube.com/watch?v=5guIGcGyE5Q

Valerie June – Owls, Omens and Oracles

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In un momento storico dominato dall’ansia globalizzata e da un inarrestabile stillicidio di pessime notizie (a corollario di altrettante tragedie) Valerie June dà alle stampe un disco concepito in una dimensione parallela, che per una songwriter del Tennessee non può non coincidere con uno scenario privo di Donald Trump.

Un’opera in cui la resistenza al pessimismo cosmico torna a essere protagonista, a scapito della resilienza e dei suoi compromessi (probabilmente abbiamo esaurito le scorte, o semplicemente ne abbiamo i coglioni pieni) e con il valore aggiunto di un approccio spirituale. Owls, Omens and Oracles è un gospel collettivo che agevola il ricongiungimento dell’ascoltatore con se stesso e risplende flebile come una di quelle lampadine che gli scout indossano sulla fronte per raccapezzarsi nelle tende di notte, facile metafora della riconnessione con la propria luce interiore ai tempi di uno dei black-out più longevi nella storia della civiltà come la conosciamo.

Per questo, se come me ritenete fuori da ogni senso logico l’ascolto di musica che non sia deprimente, il sesto disco di Valerie June lasciatelo stare, non fa per voi. La potente forza salvifica che scaturisce sin dalla prima traccia del disco farà brandelli del vostro spleen. Quell’inconfondibile timbro agrodolce che evocava ancestrali storie di dolore e fatica nei blues di donne costrette a lavorare come i maschi, oggi canta la gioia come non l’avete mai sentita, come impeto di opposizione estrema alla sofferenza. In un modello sociale che promuove rabbia e rassegnazione, Owls, Omens and Oracles è un cantico della felicità come atto di coraggio, la torcia accesa del fuoco che vince l’oscurità.

Quattordici tracce dai titoli che lasciano poco spazio alla sicurezza di una corroborante disperazione: “Joy, Joy!”, “All I Really Wanna Do”, “Endless Tree” e la sua coda da musical, “Inside Me”, dai tratti da road song, “Trust The Path”, con un giro su cui ci si può divertire a contro-cantare una qualunque strofa di De Gregori, l’originale incedere terzinato di “Love Me Any Ole Way”, “Changed”, che vede il featuring dei The Blind Boys of Alabama, “Superpower” – su tutti il brano più intrigante, merito anche del pattern di batteria che richiama la trap, “Sweet Things Just for You”, un preludio country alla raffinatissima “I Am In Love” (cosa di cui, a giudicare da tutta questa euforia, non avevamo dubbi), la suggestiva “Calling My Spirit”, un’orazione corale di più tracce tutte registrate con la sua voce, e le conclusive “My Life Is A Country Song”, “Missin’ You (Yeah, Yeah)” e “Love And Let Go”, brano impreziosito da una coinvolgente sezione fiati a contorno della linea vocale. Singoli momenti di riflessione per un tratto narrativo che esorta a prendere consapevolezza del potere unico di cui siamo stati provvisti. La nostra missione: cambiare le cose con l’amore e la gentilezza, anche quando sembrano fuori luogo.

Ed è Valerie June in persona ad accompagnarci lungo questa rivoluzione tutta interiore con il suo stile, il suo modo di suonare chitarre e banjo, e il suo approccio al canto secondo i canoni più appropriati, di volta in volta. Una costante alternanza tra blues, soul, folk, gospel e country, un ritorno alle radici della comunità afroamericana incrociate con la musica dei bianchi, un richiamo all’eredità spirituale e culturale tramandata dalla tradizione a stelle e strisce in un messaggio universale: c’è qualcosa più grande di noi che ci lega con trame di amore – anche se non sembra -, di dolore – già più plausibile -, e di opportunità di riscatto, che non sempre sappiamo cogliere.

Temi classici e schemi narrativi consolidati, uno specifico del genere ma esposto con un gusto raro e uno sguardo di originalità, frutto anche della produzione di M. Ward. La debolezza si trasforma in arma, uno strumento devastante in grado di condurre alla vittoria. Aprite i vostri cuori, la sentiamo cantare tra le righe, soprattutto quando il rischio di esporsi al prossimo può fare la differenza tra esseri umani.

Owls, Omens and Oracles è una seduta di meditazione, un invito a concentrarci sul respiro per ritrovare l’anima e la sua essenza. Un album che va oltre la musica, in grado di trasmettere riti collettivi e odi alla vita, in tutte le sue accezioni. Un disco tra paura e speranza che risuona proprio in quel frammento e in quell’istante tra esse compreso e da cui si sprigiona la gioia, sentimento allo stato puro, da rendere in melodia.

musica da papà

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La visione del film “Bird” mi ha spalancato un mondo introducendomi alla regista britannica Andrea Arnold, di cui ahimè ignoravo l’esistenza (so cosa state pensando) e il cui nome addirittura ho pronunciato alla francese, Andrè Arnòl, chissà poi perché, quando sabato scorso ho proposto a mia moglie di andare a vederlo.

Il film era in programmazione al nostro cinemino preferito – questo qui, se siete della zona immagino lo frequentiate o ne avrete sentito parlare. Ho visualizzato su Youtube il trailer che ho però seguito molto superficialmente, e il mood che ho percepito a caldo è stato quello dei primi fratelli Dardenne, certe torbide atmosfere del Belgio, ed è questo che probabilmente mi ha indotto a equivocarne la nazionalità e il contesto. Non ne sapevo nulla, per farla breve.

Ho posto parziale rimedio al fraintendimento solo poco prima di entrare in sala, consultando un pamphlet dedicato alla programmazione in corso, seduto in attesa della fine dello spettacolo precedente su una poltroncina nell’atrio. Avevo azzeccato il tipo di film, cosa di cui ho avuto conferma poco dopo, ma non pensavo fosse ambientato nel Kent e che Andrea Arnold fosse una versione molto più radicale, più cruda e ancora meno indulgente del suo conterraneo Ken Loach. Poi, prima che si spalancassero le porte e i tre o quattro spettatori presenti uscissero, ho percepito dalla sala l’inconfondibile cantato di “Too Real?” dei Fontaines D.C. La sigla finale. Ed è in quell’istante che ho avuto l’illuminazione.

Non vi sto a fare una recensione del film, non è il mio mestiere. Vi dico solo che ho trascorso la giornata successiva – era domenica – a ripercorrere parte della filmografia di Andrea Arnold iniziando dalle pellicole più recenti, altrettanto superlative (anche se “Bird”, a mio parere, un vero e proprio pugno nello stomaco, è una spanna sopra gli altri titoli). Ho trovato a noleggio su Prime Video sia “American Honey” che il precedente “Fish Tank”, e alla fine di questa maratona monografica ho avuto l’impressione di aver ripercorso a ritroso un concept dedicato all’adolescenza. In tutti e tre i casi disperata, abusata, sospesa e provvisoria, immersa nel disagio e circondata da tutto il peggio che sia possibile da immaginare.

Anche la musica è un trait d’union che interconnette le tre opere. In ognuno dei tre film con una valenza differente, ma, in tutti i casi, proposta come narrazione alternativa rispetto a una realtà in cui i ragazzi – effettivi o presunti – hanno ancora bisogno delle canzoni per distinguersi dalle generazioni precedenti, per evadere dalle delusioni, per ribellarsi, per fare massa e corpo unico. Una visione distopica rispetto a come funziona, almeno qui dalle nostre parti, ma di cui ho apprezzato la portata drammatica e piacevolmente didascalica rispetto alla gravosità delle riprese.

In “Fish Tank”, uscito nel 2009, si sente molto hip hop (siamo ancora in epoca pre-trap), lo stile che fa da colonna sonora alla via di fuga di Mia, la protagonista, che identifica la danza come formula di emancipazione. Con “American Honey” ci troviamo invece nella provincia degli Stati Uniti e nel 2016. Il genere preferito sul van gremito di adolescenti erranti è la trap, musica in quegli anni nel suo massimo splendore e forte della sua dirompenza in quanto perfettamente inscritta nella contemporaneità di allora e baluardo dell’incomunicabilità generazionale per i giovani del momento. Mi ha fatto quindi doppiamente sorprendere la scelta della regista di abbinare, come genere rappresentativo per il malconcio underground umano inglese di “Bird”, il post-punk dei Fontaines D.C. e dei Sleaford Mods. Non pensavo che un suono così derivativo, o comunque riconducibile a un’altra epoca (la mia), potesse essere associato a un’idea identitaria degli adolescenti di oggi. Dopo i tre film ho capito invece la scelta. In UK probabilmente nulla trasmette meglio l’anima del sottoproletariato della provincia, quello che ha votato la Brexit senza sapere nemmeno perché.

Questa volta, però, con una variante. In “Bird” il post-punk – con l’eccezione dei bambini che si uniscono al coro di “Too Real” nella sigla di coda – fa da corollario principalmente alla generazione del padre di Bailey, un tipaccio di nome Bug pieno di tatuaggi di insetti, appunto, e facile metaforico cibo per gli uccelli con cui Bailey è così in sintonia. Un giovane adulto, di poco più grande dei suoi figli ma molto meno maturo. Bug e la sua combriccola si guadagnano da vivere con la droga derivata dalle secrezioni dalle rane. Il metodo empirico per indurre le rane a espellere dal loro corpo la sostanza utile è di sottoporle a musica in grado di irritarle. E come musica in grado di irritare le rane mettono canzonacce (a detta loro) pop, a partire da “Yellow” dei Coldplay e altri brani dei primi anni duemila, tracce di quando Bug era adolescente. Il gap generazionale è messo per inciso. Tanto che, nella scena conclusiva, quando un Bug pienamente redento in quanto unica scialuppa di salvataggio esistenziale per i figli, tutto sommato il meno peggio del resto, guida Bailey e il fratello veloci sul monopattino elettrico – vero status symbol della miseria – intona “Lucky Man” dei Verve, accompagnato dalla canzone in sottofondo. Bailey si sorprende della cosa, e chiede a Bug perché stia cantando una musica da papà.

A me “Lucky Man” è un pezzo che piace un botto, come tutto l’album dei Verve in cui è compreso. Vi dirò di più. Non ho problemi a inserire “Urban Hymns” tra i miei venti album preferiti di tutti i tempi, e a definire l’iconico video di “Bitter Sweet Symphony” decisamente trasgressivo, con l’infilata di spintoni che Richard Ashcroft infligge alle comparse. Ci sono rimasto un po’ male che, a confronto del post-punk dei nostri tempi, musica che io adoro, la mia preferita, sia ben chiaro, “Bitter Sweet Symphony” ma anche “Yellow”, che tutto sommato suonava abbastanza alternativa ai tempi, oggi siano state declassate a musica da papà, nel senso brani per altre generazioni e per persone che dovrebbero ispirare sicurezza ai più piccoli. Quindi anche a me piace ascoltare musica da papà. Non ci avevo mai pensato prima di vedere “Bird”.

Cold Specks – Light For The Midnight

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Un aspetto che non passa inosservato della voce straordinaria di Ladan Hussein è la cascata di armonici che si libra dalle sue canzoni, particelle colorate dello stesso pantone del timbro di Billie Holiday. Una dolcezza graffiante e tormentata che lascia l’ascoltatore in bilico tra il compiacimento e quel corroborante senso di rammarico che (isolato chimicamente) da sempre costituisce l’elemento primario del blues, uno stile pensato per dare forma alla sofferenza.

La stessa malinconia evocativa che ci ha pervaso lungo i sette anni di attesa del nuovo lavoro di Cold Specks (il nome che Ladan ha scelto per il suo progetto artistico), un tempo insostenibilmente lungo. Ed ecco com’è andata: I Predict a Graceful Expulsion, sorprendente album d’esordio del 2012, Neuroplasticity uscito due anni dopo, fino a Fool’s Paradise, pubblicato nel 2017, e poi il buio, nel vero senso della parola.

Dopo mesi di silenzio, in un’intervista del dicembre 2018 rilasciata al Toronto Star, la cantautrice canadese di radici somale scopriva le sue carte. Ammettere di soffrire di disturbi quali schizofrenia, anoressia, depressione debilitante culminata in tentativi di suicidio però non ha suonato affatto come una resa, tantomeno come una presa d’atto. Tutt’altro. Semmai una dichiarazione di guerra e di rivalsa a quella parte di sé da surclassare, da ridurre ai margini. Che, per Cold Specks, ha coinciso con l’annuncio ufficiale del primo passo della risalita, un percorso a ritroso lungo le impronte (voragini) lasciate dall’affanno nella salute della sua mente. Un nuovo obiettivo, quello del riscatto, per tornare a rivedere la luce.

Questo almeno sulla carta, e non dev’essere stato facile, a giudicare dal silenzio che ne è seguito. Da allora abbiamo assistito a sporadiche quanto deflagranti irruzioni sui profili social con foto, story, reel e considerazioni, a volte anche decisamente allarmanti. Annunci di nuove uscite senza seguito, pensieri tormentati, cupe esternazioni di angoscia mascherata da poesia, persino richieste di aiuto concreto. L’impressione è che le prime anticipazioni di un imminente ritorno sulla scena si siano perse, all’interno di questo dialogo intermittente, e poco o nulla lasciava presagire che andasse tutto bene. Ma la musica, lo sappiamo, fa miracoli. Tanto che un’insperata intensificazione delle comunicazioni, ad un certo punto, è culminata nella pubblicazione di un primo singolo, “Wandering in the Wild”. L’anticipazione del nuovo lavoro, finalmente fuori. Ladan Hussein ce l’ha fatta.

E che il nuovo corso di una Cold Specks libera dai suoi spettri coincidesse con una presa di distanza dal genere con il quale si è affermata nella prima parte della sua carriera, dovevamo comunque metterlo in conto. L’indole dark-soul, addirittura doom, com’è stata definita, con cui trovarsi a convivere, può costituire l’ispirazione con cui leggere la realtà ma anche la conseguenza di come pensiamo che la realtà percepisca noi, per un vortice tentacolare (o un gatto che si morde la coda) da cui non sempre se ne esce vivi. Light For The Midnight, lo dice tra le righe il titolo stesso, è piuttosto un disco di matrice principalmente acustica, da intendere come un barlume di luce raggiunto alla fine di un tunnel. Fuori a ritrovare le stelle, un po’ malconci e con diverse ferite da rimarginare, malinconici e sconsolati, ma tutto sommato sopravvissuti. Tutti interi. È questo che conta, no?

Possiamo finalmente riascoltare Cold Specks mentre canta dal suo cammino intimo, a tratti ancora impervio, diretto verso una lenta ma salvifica trasformazione. Un album vivamente emotivo composto da tracce dense di soul, in un’accezione forse meno lacerante di prima, ma non meno avvolgente. Composizioni che sfidano il disagio della confusione mentale confondendolo tra le tracce per umanizzare il lato più scomodo della nostra essenza, quello più vulnerabile, esposto alle insidie proprie della nostra volatilità e verso le quali ci troviamo impotenti.

Nonostante questo senso di instabilità, Light For The Midnight è tutt’altro che un disco fragile. Il nuovo corso di Cold Specks è merito anche dell’intuito di Adrian Utley dei Portishead e Ali Chant, produttore di Perfume Genius, Dry Cleaning e Aldous Harding, che ne hanno aumentato il respiro e, di conseguenza, la portata. Le atmosfere claustrofobiche dei primi album lasciano spazio alle raffinate orchestrazioni di Owen Pallett (già arrangiatore delle parti di archi nei brani di artisti del calibro di Taylor Swift, Lana Del Rey e Sampha), il tutto arricchito da qualche incursione elettronica di Graham Walsh degli Holy Fuck.

Il risultato è un’opera sontuosa, composta da tracce che suonano sorprendentemente potenti, in grado di soddisfare ogni ascoltatore in cerca di una seconda possibilità e che ci lasciano come quei film in cui, nella scena finale, i perdenti vincono contro tutte le aspettative e coraggiosamente le lotte apparentemente impari. Light For The Midnight ci accende di una luce interiore che ci esorta a risplendere nelle nostre notti più buie. E, se osservate da vicino, potrete scorgere Cold Specks che, con un impagabile concentrato di speranza, ci canta tutta la sua vita che verrà.

La Niña – Furèsta

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Ho ascoltato la prima volta “Figlia d’ ‘a tempesta” eseguita dal vivo alla trasmissione Propaganda Live, qualche settimana fa. Era uno di quei giorni in cui il frenetico rincorrersi di notizie sui crimini a scapito di donne generava confusione (a un ascoltatore distratto) su chi fosse la vittima, se si trattasse di una fase avanzata delle indagini, un delitto fresco di cronaca o di uno dei tanti ancora irrisolti, un processo in corso, un impeto di rivolta all’ennesimo fatto compiuto o una manifestazione di piazza di sensibilizzazione sul tema.

Una babele di informazioni che ha reso l’esibizione de La Niña e della sua nuovissima compagnia di canto popolare così suggestiva da rendere imprescindibile un aggiornamento del bollettino sui morti di questa guerra civile che si sta consumando all’interno dei nostri confini. Al momento in cui scrivo questa recensione, siamo a metà del mese di aprile, i femminicidi (solo quelli riusciti) in Italia sono già a quota 25.

E se il singolo tratto dal nuovo album Furèsta, titolo che non a caso rimanda all’indomabilità e alla selvaticità, diventasse un inno da cantare nelle piazze, nei posti di lavoro, dentro le mura di casa (che paradosso, eh?) sarebbe davvero un’occasione straordinaria. Tanto che, tra cinque o dieci o vent’anni, quando finalmente ripenseremo senza nostalgia alle lotte che hanno posto fine alle barbarie e alle distorsioni da cui scaturisce ogni episodio riconducibile alla questione di genere (sono ottimista di natura), ci verrà da canticchiare le parole di questa canzone, ricorderemo lo sguardo fiero di chi le ha scritte, ci muoveremo al ritmo di tammorra che le ha scandite.

C’è poi un’altra questione, questa volta leggera come certa musica, per fortuna, che riguarda la canzone napoletana, ma chi sono io per spiegarvela. Posso solo tirare in ballo i luoghi comuni, a partire dal fatto che Napoli non è solo mille colori e tutto il resto. Da sempre l’affascinante Parthenope costituisce il più prolifico laboratorio di ricerca musicale del nostro paese, per una serie di fattori che la rendono invidiata (e invisa) al resto d’Italia. Tanto per iniziare per un idioma tutto suo che si abbina perfettamente a qualunque genere, per non parlare di una scala minore e un accordo di sesta che hanno solo da quelle parti e che rendono inconfondibili le melodie nate laggiù, fino a tutti gli artisti che hanno fatto leva su una tradizione piacevolmente ingombrante per portare sempre più distante l’obiettivo della ricerca. Pensate a Liberato e al modo in cui ha conferito dignità alla musica neomelodica (fino a renderla addirittura trendy) oltre i confini campani.

Le radici a cui si ispira Carola Moccia, raffinata cantautrice e producer cresciuta a San Giorgio a Cremano, sono ancora più profonde, e si spingono ben oltre la crosta e il mantello stratificati sotto il Vesuvio, giù fino al passato remoto sepolto nel centro della terra. Un soundscape in cui riecheggiano armonizzazioni primitive di cui abbiamo smarrito traccia se non in qualche rigurgito del nostro inconscio, parti costruite su intervalli desueti ma arditi per voci rigorosamente femminili (un coro di pace, l’unico che indipendentemente dal contesto si riconosce sempre distintamente) e accompagnate dagli strumenti propri del barocco napoletano trattati in perfetta filologia, come la chitarra battente, il mandolino e i tamburi.

Il tutto secondo un gusto e una chiave modernista, così sorprendentemente urban che l’accezione di popolare (quella che riconduciamo a una cultura e a certi mestieri legati alla terra, alla strada, alla povertà e a quel tipo di matericità che le generazioni digitali schifano come non poco) fa il giro completo per collocarsi davanti a tutto, in un futuro dalle tinte sfuggenti. Un società arcaica che si impone prepotentemente in quanto l’unica sostenibile, in una prospettiva remota in cui la tradizione torna a essere femminile. Il matriarcato, finalmente, in tutte le sue derivazioni. Dinamiche in cui la donna si trova sempre al centro, fin dalle storie che hanno reso immortali i commediografi greci.

In Furèsta la coesistenza tra la tradizione napoletana e l’elettronica va oltre la maniera e la ricerca del plauso dei poser dell’ibrido e delle contaminazioni a tutti i costi. Lo stile che emerge è figlio dell’istinto allo stato brado, anema e core scavati da esperienze di rebirthing collettivo e arte in grado di liberare il substrato ancestrale dell’ascoltatore, sin troppo compresso dalle convenzioni e dai compromessi socio-culturali dei nostri tempi e delle nostre latitudini.

Un viaggio allegorico nelle reminiscenze di civiltà inconsapevolmente primitive – quella autoctona de La Niña in primis, riconoscibilissima nei sample delle antiche voci rurali in dialetto, passando per il fado e le collaborazioni con altre periferie del pianeta, dalla producer parigina – ma cittadina del mondo – Kukii al compositore egiziano Abdullah Miniawy. Un ritorno al folklore mediterraneo in cui il timbro femminile si erge protagonista all’origine, grazie all’irrequietezza, alla passione e all’indole sperimentale di un’artista che sa esprimere la propria ricerca con la più ruvida purezza.

Furèsta è lo spettacolo intimo del sentimento, e La Niña una splendida interprete della world music in senso proprio e all’epoca dell’intelligenza artificiale, un ritorno alla terra dove l’antico e il futuro deflagrano, sfiorandosi appena in un frenetico passo di tammurriata.

the chaffeur

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Ogni tanto ti guardo e tu mi guardi da chissà dove. Sfoggi tutti i difetti di pronuncia possibili e riesci persino a mangiarti le parole più voracemente di quanto faccia io. Allora mi chino, sfidando le articolazioni e il rischio che, riconquistando dopo la posizione eretta, qualcosa del mio apparato osseo non ritorni esattamente al punto di partenza, e ti convinco che non ho capito niente, ho imparato che è un compromesso a cui ti piace scendere, non ti sei mai dimostrato oppositivo. Devi parlare lentamente, ti ricordo. Tu riparti da capo come se avessi un pulsante che riduce in percentuale la velocità proprio come i video di Youtube ma è una tecnica che non funziona, non porta a un miglioramento della comprensione. La elle al posto della erre e tutte le parole accavallate, ripetute al rallenty, sono altrettanto indecifrabili. L’unica differenza è che questa volta le scandisci lentamente, ma il senso logico continua a risultare non pervenuto.

Di punto in bianco ti alzi dal banco perché sostieni di annoiarti e apprezzo la tua trasparenza. Se un giorno sarà possibile riformattarti in qualche modo e reinstallare il sistema operativo ti renderai conto che è la cosa meno opportuna che puoi dire a un insegnante. Se si trattasse di chiunque altro, l’ego didattico del tuo docente si manifesterebbe con punizioni, compiti extra o note sul diario. Ma con te e quelli come te sappiamo che la dignità professionale va lasciata nel bagagliaio della macchina, nel parcheggio davanti a scuola. Mi piace però pensare che se sei in grado di giocare così a carte scoperte forse significa che recepisci quello che sto facendo, visto che lo intercetti immediatamente per cestinarlo nella tua cartella dei contenuti troppo difficili. So che non si tratta di pigrizia intellettiva, sono certo che tu sia in grado di distinguere quello che comprendi sin dalla prima parola, anzi, dall’espressione che faccio prima di proferirla, anzi dal modo in cui accendo la LIM.

Quando in classe sono da solo con te, senza la collega di sostegno, non davvero che pesci pigliare. Ho scelto un metodo che sta agli antipodi dell’inclusione ma non potevo saperlo e non potevo nemmeno sapere come saresti stato tu. Tua mamma sperava che, come gli Asperger che si vedono nei film, potessi reinventarti in un genio della matematica. Ci ho pensato qualche settimana fa. Ero seduto a un tavolino fuori da un bar, con un paio di amici, a bere un aperitivo. A fianco a noi si è messa una coppia eccessivamente attenta con il figlio che li accompagnava. Un bambino che, dallo sguardo, sembrava molto più presente nelle situazioni e nei dialoghi, rispetto a te. Teneva un rotolo dal diametro sproporzionato di fogli A4 stretto tra le mani, fino a quando la tentazione di prendere le patatine dal vassoio ha surclassato la passione con cui stringeva il suo tesoro che si è srotolato come fa la carta igienica nella pubblicità, quando ti vogliono convincere sul numero di piani che può eguagliare. I fogli A4 – saranno stati una cinquantina, credo, tutti uniti con il nastro adesivo per il lato corto a formare una chilometrica pergamena – erano fitti di numeri in sequenza, dall’uno in avanti a cercare l’infinito, e ciascuno scritto con un colore di pennarello differente. Stavo bevendo un calice di arneis e, senza pensarci, gli ho fatto i complimenti per il suo lavoro, deformazione professionale, specificandogli che ero del mestiere. I genitori mi hanno guardato sopresi e hanno gioito nello stesso modo in cui ci si felicita con quel tipo di eccellenza dei figli, un orgoglio agrodolce, non so se ho reso l’idea. Così ho capito, avrei potuto arrivarci prima, e mi sono crogiolato nello strascico di quella gaffe per un bel po’. Tu, invece, con i numeri non sembri molto a tuo agio, ma sicuramente è perché sono io a non essere a mio agio con te, e se tu avessi il supporto di un maestro più adeguato forse il venti lo avresti riconosciuto e superato, nel conteggio, già da qualche mese.

Ogni tanto poi fatico a sopportare quelli che i miei standard di comportamento dei bambini mi fanno interpretare come dispetti, ma chissà in realtà che cosa sono. Se avessi studiato l’autismo lo saprei e non sarei qui ad arrovellarmici su. Cerchi di attirare l’attenzione, e vorrei tanto riuscire a convicerti che sei al centro dei miei pensieri anche quando non riesco a coinvolgerti, quando ti spalmi con la fronte sul banco per decine di minuti e non c’è verso di avere un segno di vita e, quando ti tiri su, sembra che ti abbia punto in faccia la madre di tutte le zanzare. Trasmetto su un canale diverso, una pista facilitata, un adattamento della vita in cui non ci sono complessità mentre con te ci vorrebbe ben altro. Internet è veloce, l’auto non dà problemi, la nuova puntina dello stereo enfatizza i bassi come piace a me, tutto è al suo posto. Tu, invece, ancora non sono stato capace di capire dove collocarti, nella mia vita.

a force from above

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Da quando ho visto “Estranei” di Andrew Haigh, uno dei film più belli e commoventi mai usciti negli ultimi anni, percepisco la canzone “The Power Of Love” dei Frankie Goes To Hollywood con un senso completamente stravolto rispetto a prima. Spero di non spoilerare – e comunque se vi siete persi il film vi consiglio di correre subito ai ripari, la ritengo una delle pellicole più intense mai uscite – in caso contrario, ricorderete quanto il brano in questione si manifesti prepotentemente come protagonista, più che colonna sonora, nella scena finale del film, con un impatto così violento sui sentimenti da far esplodere in lacrime chiunque, sempre che fino a quel punto vi sia stato possibile resistere.

Il fatto è che se, come me, siete dei ragazzi degli anni 80, difficilmente vi sarà possibile ricondurre lo spensierato pop e i suoni artificiali di quel periodo – anche nei casi in cui, come “The Power Of Love”, la composizione è decisamente ispirata – a questioni serie come la morte. Anche se, visti da qui, nella decade delle spalline e delle acconciature spettacolari non è che si potesse vivere tanto tranquilli, tra eroina e AIDS. Ma in the “The Power Of Love” dei Frankie Goes To Hollywood, una hit già ai tempi, un brano suonato e cantato da una band che ostentava con fierezza la propria omosessualità e che accostava con intelligenza, per la pubblicazione di questo brano, l’iconografia della religione cattolica alle tematiche del mondo gay, per il popolo di Dee Jay Television risaltava più l’aspetto dell’attrazione romantica tra ragazzini (sicuramente perché io rientravo in questa categoria) rispetto alle tematiche di amore come motore universale, la forza che unisce la carnalità all’impeto dell’anima e ti fa schiantare nella persona che hai adocchiato e con cui vuoi trascorrere un’ora, una notte, una stagione della vita o l’intera esistenza e anche oltre, al di là della morte e dell’infinito, appunto. Che poi è la stessa cosa.

“The Power Of Love” dei Frankie Goes To Hollywood è stata recentemente scelta dagli autori del programma Propaganda Live come canzone per accompagnare le riprese di un momento dei funerali di papa Francesco, quando la bara di Bergoglio viene portata a spalle fuori dalla basilica di San Pietro ed esposta ai milioni di spettatori, tra quelli presenti e quelli che hanno assistito alla diretta tv. Non ho idea di chi lo abbia selezionato, di certo qualcuno nato dopo il 1980, o qualche anziano come me ancora sotto gli effetti di “Estranei”. L’accostamento immagini/colonna sonora ha confermato la cantonata che avevo preso nel 1984, l’anno di pubblicazione di “Welcome To The Pleasuredome” e che è durata fino alla visione della scena di Paul Mescal e Andrew Scott coricati nel letto. “The Power Of Love” dei Frankie Goes To Hollywood è tutt’altro che una canzonetta, i suoni usati per la sua composizione – in linea con l’estetica musicale dei tempi – non ne penalizzano affatto la dirompente portata emotiva, a dimostrazione che non tutto ciò che è stato realizzato negli anni 80 avesse finalità edonistiche (e reaganiane, spero cogliate la citazione). Probabilmente se fosse stata registrata dieci o vent’anni dopo la canzone avrebbe una dignità maggiore? Non ho la risposta, ma poi chi se ne importa. Fa piangere e questo mi basta. Esprime un contrasto tra bellezza e dolore così forte grazie ai due caratteri che trasmette, così agli antipodi, così diversi da risultare struggenti.

cento giorni a pecora

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Finalmente avevo deciso che cosa fare. Come passare il tempo libero. Mi sono messo a cercare un corso da qualche parte – a Milano e dintorni puoi imparare a fare davvero quello che vuoi – di Northern Soul, nel senso del ballo. Se non lo conoscete, è uno stile pazzesco con una storia di cui chi lo professa va orgogliosissimo, non sto a spiegarvelo ma ci sono Google e Youtube e potete tranquillamente arrangiarvi da soli. Non sono un mod, e i dischi su cui ci si muove non appartengono nemmeno ai miei generi preferiti, ma le mosse e i passi sono una delle cose più eleganti che abbia mai visto. Anzi, è del tutto improbabile che abbia la scioltezza per eseguire quei movimenti. Ma non dovete preoccuparvi, al momento non corro nessun pericolo di rimanere bloccato con la schiena nel tentativo di emulare la gente che affolla posti come la Rivoli Ballroom. I risultati che ho trovato sui motori di ricerca rimandavano a un unico insegnante e ad alcuni workshop tenuti da lui nella zona. Ma, a una ricerca più approfondita, ho scoperto che purtroppo quell’esperto di ballo Northern Soul è morto un paio di anni fa. Per il resto nulla, nada, niente, buio totale. Dovrei trasferirmi a Londra o, appunto, nel nord del Regno Unito.

Così mi sono dovuto accontentare del piano B. Mi sono iscritto a un corso di litigio professionale, con una interessante curvatura sull’incazzatura. Litigare è un costrutto emotivo che è stato sempre fuori dalle mie corde, quasi come tutto ciò che esula dal Partito Democratico. Quelle poche volte in cui perdo il controllo e alzo la voce è facile che ridano tutti perché mi viene un tono assolutamente non credibile. In più non riesco a parlare un po’ perché non so proprio cosa dire, come argomentare la mia presa di posizione, e un po’ perché mi si blocca tutto poco sotto la mascella e, per farla breve, non ci faccio proprio una bella figura. Sputo fuori le prime cose che mi passano per testa che spesso non c’entrano con il motivo del litigio, anzi mi invento assurdità che a ripensarci dopo vorrei scomparire dalla faccia della terra. Al corso invece sto scoprendo un mondo. Il mio insegnante è super competente e il programma promette davvero bene: ci sono ore dedicate alla sicurezza di sé, alla presunzione, all’arroganza, all’ignoranza, che poi è il più efficace filtro alla sensibilità, e all’antipatia. Nelle recensioni che ho trovato in rete è pieno di pareri positivi soprattutto da chi, come me, ha fatto della remissività e della gentilezza la propria ragione di vita. E il secondo anno è compreso addirittura uno stage sulla violenza fisica. Proprio quello di cui avevo bisogno.

tirare la cinghia

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Posso vantare una collezione di trentatré giri invidiabile e vi inviterei a salire e contemplarla religiosamente – come faccio io quando sono indeciso su cosa ascoltare – se il mio giradischi non fosse andato proprio ko a ridosso del ponte più lungo della storia delle vacanze di pasqua. Certo, ho anche svariati cd, tera di flac e mp3, e regolare abbonamento a Spotify e Amazon Music, ma sapere di non poter ascoltare i dischi mi manda in tilt, mi fa sentire incompleto. Apparentemente potrei sostituire temporaneamente il piatto, dato che ne possiedo in tutto cinque:

  • un Nordmende RP 1400 che risale al primo impianto hi-fi che ho avuto acquistato da mio papà nel 1979, tra parentesi uno dei ricordi più belli che ho è l’odore che si è sprigionato dal deck del mangiacassette la prima volta che l’ho aperto, cosa darei per annusarlo ancora
  • un Pioneer PL 990 di cui mi sono dotato quando il Nordmende ha iniziato a dare problemi. Si tratta di dispositivo platicosissimo ma con una sua dignità che tuttavia è penalizzato da una insanabile lacuna. C’è un bordo di plastica intorno al piatto che prosegue nella torretta che regge il braccio. La distanza tra questa parte e gli ellepì è così millimetrica che alcuni vinili leggermente più larghi lo toccano e non girano. Ma si può progettare un giradischi così e, soprattutto, si può comprarlo? No comment
  • poi ho un bellissimo Dual CS 503-1 che mi ha regalato un mio collega appena andato in pensione quando ho preso servizio nella scuola. Stavamo facendo il passaggio di consegne sulla gestione del sito e quando ha scoperto la passione che coltivavamo entrambi non ci ha pensato due volte. Mi ha invitato lo stesso giorno (era la prima volta che ci vedevamo) nel suo box per farmi dono dell’ex giradischi di sua suocera. Lui non lo usava, avendo in casa un modello superiore. Con il Dual ha funzionato tutto alla grande fino a quando il piatto inspiegabilmente ha iniziato a vibrare in modo assolutamente casuale durante l’utilizzo, tanto da rendere molto stressante l’esperienza di ascolto
  • ho anche un Technics SL-J11 di cui si è disfatta un’amica, lo stava per buttare. Un piatto da rack con il braccio tangenziale ma tutto scassato, cinghia sbriciolata e testina da cambiare, avrei dovuto portarlo per un revamping ma non mi sono mai organizzato.

Quattro giradischi rotti o malfunzionanti, avete capito bene. Così, due anni fa, era Natale, mi sono regalato un giradischi nuovo, il quinto. Essendo fondamentalmente un morto di fame ho optato per il modello più economico di una marca attualmente molto in voga. Si chiama Pro-ject Primary E, un nome che riflette perfettamente il budget che avevo a disposizione se E sta per economico. È così basico che ha la cinghia esterna. Per installarla bisogna metterla sul pirolino che gira e farla passare intorno al piatto. Il punto è che posizionare la cinghia da soli è un’operazione difficilissima – almeno per me che sono imbranato e ho le mani di ricotta – cosa che non sarebbe un problema se occorresse farla solo una volta nella vita, all’acquisto del giradischi. Invece purtroppo capita spessissimo che, posizionando e togliendo i dischi, la cinghia scivoli via non essendo previsto un solco o qualunque altro sistema, lungo il bordo del piatto, pensato per contenerla.

Ed è proprio questo che è successo il giorno prima delle vacanze di pasqua. La cinghia – che poi è un sottile elastico in gomma dalla sezione circolare – è scivolata fuori dal bordo del piatto mentre passavo dal lato A al lato B di non ricordo quale ellepì. Ho coinvolto mia moglie nell’operazione di ripristino, chiedendole di tenere ferma la cinghia sul pirolino mentre la facevo passare intorno al piatto, ma non ci siamo capiti – può capitare, non sono bravo a dare le istruzioni giuste nei momenti in cui bisogna mantenere la calma, nonostante faccia l’insegnante – e la cinghia si è strappata. Poco male. Mi sono immediatamente precipitato a ordinarne una nuova, dieci euro su Amazon, ma non sapevo che il punto di ritiro fosse chiuso per il ponte e così, per farla breve, l’ho ricevuta solo ieri sera e durante le vacanze non ho ascoltato nemmeno un disco. Nemmeno la compilation di canti della Resistenza che metto sempre in questo periodo.

E, appunto, per fortuna in mezzo ci sono state davvero tante distrazioni. È tornata per le vacanze mia figlia dalla Spagna, ci sono state le vacanze, ed è pure morto un papa. Ma, soprattutto, c’è stato il 25 aprile, la festa più importante dell’anno. Come da tradizione ho partecipato a due cortei. Uno mattutino, organizzato dall’ANPI del paese in cui vivo, e quello del pomeriggio a Milano. Un bagno di folla, decine di migliaia di persone di sinistra che mi hanno rimesso in pace con il mondo. Il corteo della mattina aveva visto infatti la partecipazione del sindaco del posto in cui abito, un fascistello burocrate brutto come il peccato che si è pure arrogato il diritto di fare un discorso che non vi sto a riassumere, tanto trasudava deprivazione culturale, presunzione ignorante e cialtronaggine provocatoria da quattro soldi.

A Milano invece ho addirittura incrociato lo sguardo di Elly Schlein, che mi ha notato applaudirla al lato del corteo con così tanto entusiasmo da essere persino ripreso e immortalato nella storia che la segretaria del PD, o almeno il suo social media manager, ha pubblicato sui suoi profili social.

Infatti, proprio come lo scorso anno, mia moglie ed io ci eravamo appostati su un marciapiede in piazza San Babila per goderci lo spettacolo delle diverse anime del corteo che passavano per recarsi in piazza del Duomo. E, proprio come lo scorso anno, ho contato e applaudito i numerosi movimenti in cui si è frammentata la sinistra, e a causa dei quali non si riesce a vincere un’elezione che è una. Proprio come lo scorso anno mi sono voltato di spalle al passaggio dei grillisti – che, ricordiamolo, hanno governato con Salvini – fino a quando, al passaggio della parte diciamo più antagonista, proprio come lo scorso anno sono stato notato da mia figlia. Era con la stessa amica con cui ha partecipato lo scorso anno, dietro al carro di non ricordo quale centro sociale. Ci siamo abbracciati e salutati esattamente come l’ultima volta, e proprio come lo scorso anno le ho detto addirittura le stesse cose: corri a raggiungere la rappresentanza del PD, l’ho scherzosamente ammonita, altrimenti ti diseredo. E proprio come lo scorso anno, ho deciso che d’ora in poi farò sempre così, sempre uguale, senza cambiare mai.

fedeli alla linea

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