il gioco si fa duro

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Se prendete la metro a Milano in questi giorni noterete – io l’ho vista in tutte le stazioni in cui sono passato, probabilmente a causa della concomitanza con le festività e la conseguente corsa ai regali – la gigantesca pubblicità di una poltrona da gaming. Mi sono chiesto il senso dell’esistenza di un arredo così impattante sul design di interni di qualsiasi appartamento – oggettivamente kitsch – dedicato a un passatempo da ragazzini delle medie, non che i ragazzini delle medie non possano ricoprire un ruolo così centrale in una famiglia da non pretendere una sedia tutta per loro, pensata per un’attività di questo tipo. Io allora potrei voler avere una chaise longue da blog, per dire, un hobby altrettanto adolescenziale. Una poltrona che non lascerei a nessuno, tantomeno alla mia gatta, considerando che ha dei modi di ricordarmi di pulire la lettiera che, tra gli esseri umani, solo la ndrangheta o al limite i Blues Brothers.

Cari genitori, avete capito: questo post è dedicato a voi. Non è proprio il caso di spendere e spandere per un arredo così ingombrante e che per giunta i vostri figli, una volta cresciuti, non utilizzeranno più. I ragazzini smettono presto con le console e i videogiochi, non appena scoprono i passatempi da adulti, e non mi riferisco solo al sesso o alle canne. Vi ritroverete a breve con una sedia orrenda – impresentabile in qualunque stanza della vostra casa – che metterete su Vinted il natale prossimo. Tanto di cappello, comunque, all’azienda che commercializza articoli così di nicchia – il mercato dei videogame non è per nulla rilevante, da quanto mi risulta – e che si è potuta permettere una copertura pubblicitaria di così alto profilo. Per farvi capire il livello, i cartelloni si alternavano ad altri pezzi grossi del marketing da metropolitana del calibro dell’Università Cattolica che, in quanto a opulenza, non è seconda a nessuno.

Peraltro, l’invenzione di una poltrona per giocare ai videogiochi, un prodotto che concentra in sé l’idea di un modo per buttare via il proprio tempo malsano e per deprivati, unita alla ricerca della comodità estrema attraverso posture deleterie per la salute, è in palese contraddizione con l’attitudine al movimento e pratica sportiva che contraddistingue i nostri ragazzi. Non si spiegherebbe altrimenti la diffusione, tra le nuove generazioni, dell’abbigliamento tecnico anche fuori contesto. Se vi guardate intorno, la maggior parte dei giovani – e non solo i maranza – indossa tute da allenamento nelle diverse varianti per le più comuni situazioni (appuntamento galante, giorno di scuola, pomeriggio in piazza del Duomo e notte di capodanno) abbinate a scarpe in gomma dai colori sempre più vistosi. L’impressione è che i nostri ragazzi si vestano da educazione motoria per farsi trovare pronti ad ogni sfida improvvisa: una corsa, un salto, un gesto atletico, un combattimento, tutte prove impossibili da affrontare – e superare – con addosso un pantalone di velluto, un pullover o un paio di Clarks. Com’è possibile che il marketing abbia frainteso con proposte così fuori luogo gli ideali di una generazione? Come riuscite a immaginare i ragazzi di oggi stravaccati tutto il giorno davanti a uno schermo a millanta pollici, a sparare a nemici digitali o a far rincorrere la palla a calciatori antropomorfi pilotati da joystick? In ogni caso, la nostra società non corre nessun rischio di adolescentizzazione. Avete mai conosciuto un adulto che preferisca Candy Crush alla lettura di un buon libro?

capolinea

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Il valore degli immobili fa un bel balzo in avanti quando la fortuna, acquisite le sembianze di una fermata della metro, si scomoda fino alla periferia della terra e va a baciare sulla bocca i loro proprietari. Comasina è il capolinea della linea gialla, la M3, e sorge in un territorio che, una volta, era tutta vallanzasca. Le cose, da allora, sono cambiate così tanto che ora hanno persino allestito un’installazione pop up con il nome del quartiere nel bel mezzo della rotonda di fronte alla fermata, con un bel font Hollywood che trasmette il senso del sogno che si vive abitando qui. Per farvi capire, in Comasina hanno addirittura ambientato un episodio di “Casa a prima vista” e, potrei sbagliarmi, ma l’appartamento in una delle vie parallele alla strada principale, quella che poi si allontana verso nord, è risultato quello vincente.

Casa mia dista dal capolinea della gialla due km tondi tondi, e per me risulta il mezzo più comodo quando devo andare in centro. La maggior parte delle volte mi armo di calma e auricolari per la musica e ci vado addirittura a piedi. Prendere l’auto è fuori discussione: tutti i parcheggi nei pressi della fermata sono a pagamento, il che rende la scelta di non raggiungere Milano con mezzi propri per nulla conveniente. C’è un autobus che collega Comasina con il paese dove vivo ma passa ogni mezz’ora e, soprattutto nelle ore di punta, ci impiega troppo tempo. Farsela a piedi poi soddisfa una delle mie più audaci perversioni che è quella di camminare in luoghi di periferia pensati solo per il transito di automezzi. Ma non sono pochi gli scorci a ridosso delle metropoli che invece sembra che nessuno abbia progettato. Sono sorti per caso, come risulta tra grandi interventi prossimi tra di loro ma non perfettamente combacianti, o anche saltati fuori per sottrazione, non so se rendo l’idea.

A poche centinaia di metri dal capolinea della gialla sorge un locale a dir poco equivoco. Si chiama “Sauna Milano Relax” e, dall’esterno, si riconosce per certe gigantografie all’ingresso che non lasciano spazio all’immaginazione sul tipo di trattamenti offerti. Di fronte c’è un bar sudamericano da cui risuona cumbia a tutte le ore, e, poco dopo, un ristorante che cucina un kebab decisamente di qualità ma che è penalizzato da un odore di cibo insostenibile. Al massimo va bene per un take away, una sosta veloce che consenta di salvare i vestiti, ma soprattutto ci si chiede chi mai verrebbe a mangiare in un posto così fuori mano.

Il punto è che la fermata della metro Comasina è frequentatissima a qualunque ora, lungo l’intero orario di servizio della metro che, fosse per me, dovrebbe funzionare tutta la notte, se considerate il via vai di gente che si sposta tra centro e periferia. Intorno alle rampe di scale che scendono ai treni c’è un’umanità multietnica che non ha confronti. La mattina presto, la stazione è presa d’assalto da furgoncini – tutti parcheggiati in seconda fila – che, in stile capolarato da campi di pomodori del sud, raccolgono le maestranze dell’edilizia da smistare verso i numerosissimi cantieri dell’hinterland che si sono centuplicati grazie al bonus negli ultimi due anni. Non mancano i venditori ambulanti di merce contraffatta e un dignitosissimo fiorista cingalese che allestisce, ogni giorno, la sua bancarella super-attrezzata. Ogni tanto risuona l’eco di qualche accenno di rissa, con dialetti meridionali che si mischiano con rabbia a idiomi arabi e africani, e a farne le spese spesso sono le bici che qualcuno ancora si ostina a legare ai pali a ridosso del bar tabacchi a gestione cinese, crocevia di tutta la fauna che gravita in quel luogo di transito.

Alla domenica, verso l’ora di pranzo, i treni della metropolitana però sfornano centinaia di persone di tutte le nazionalità che hanno accettato un invito da parenti e amici che vivono da queste parti. Si possono incontrare bambine orientali vestite a festa, coppie multietniche che procedono tenendosi per mano e reggendo con l’altra un vassoio di qualche profumatissima prelibatezza d’oltreoceano, praticanti di improbabili derivazioni di chiese dai nomi esotici vestiti di tutto punto che amano farsi trovare eleganti all’appuntamento con il rito, persino qualche fattone che rientra a casa dopo un rave party tenutosi chissà dove.

Mi reco in Comasina quasi ogni giorno per accompagnare in auto mia figlia a prendere la metro per andare a scuola, fino a un paio di anni fa, e ora a lezione all’università. Osserviamo insieme, in coda tra tutti gli altri che raggiungono la fermata per lo stesso motivo, quella sintesi di mondo che si raduna lì senza coglierne la vera essenza. Aspettiamo il momento più adatto, poi lei scende, mi saluta, quindi chiude la portiera con una forza sovradimensionata per la prestazione che quel gesto comporterebbe. Ogni volta cerco di segnarmi in qualche modo di parlarle per chiederle di usare un po’ più di gentilezza nei confronti della macchina di famiglia, ma poi finisce che mi scordo sempre. Proseguo fino alla rotonda con la scritta Comasina, la percorro per intero e mi dirigo verso casa, riflettendo su considerazioni come queste.

i really never can say g……

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Quindi davvero Gloria Gaynor non riusciva mai a dire goodbye

area c

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Con il solito gesto ho invitato il pubblico a smorzare gli applausi al termine della mia performance, cosa che faccio sempre – giunti alla replica numero 1541 del mio monologo dovreste saperlo – per ringraziare tutti e per sottolineare proprio che quella a cui avevano appena assistito era la replica numero 1541 del mio monologo, ma questa volta mi sono superato. Ho puntato l’indice verso il signore anziano seduto nella fila D, posto 21, l’ho guardato nel modo in cui si scrutano gli spettatori durante la recitazione ma, a differenza del non-messaggio che trasmetto durante lo spettacolo, ho parlato e gli ho detto che mi ero accorto che, a nemmeno una ventina di minuti dall’inizio, aveva subito un colpo di sonno. Nella fila davanti a lui sedevano un gruppetto di colleghi – gente che paga fior di quattrini per i corsi di teatro e che viene ai miei spettacoli per imparare qualcosa di più – e poco più indietro ho riconosciuto quella bella signora alta con i capelli rossi, quella che poco prima che si spegnessero le luci raccontava l’esperienza della figlia alla scuola di musica, l’entusiasmo delle lezioni di esecuzione di insieme e il divertimento di vederla suonare in prova un improbabile adattamento per ragazzini alle prime armi di “Acida” dei Prozac+. Una replica apparentemente di ordinaria amministrazione: le luci si sono spente, si è spalancato il sipario, i fari sulla sedia nera, unico arredo di scena, e poi il mio corpo, la mia voce, i miei sguardi, i miei movimenti. Questa volta, con una variante: quel vecchio vestito male, in mezzo ai soliti abbonati dell’area C, a cui è crollata la testa in avanti proprio mentre mi trovavo alle prese del passaggio più drammatico, quello della morte di Lisetta. Il brivido si è irradiato lungo la platea proprio come quella volta in cui ho visto l’onda del terremoto attraversare il lato lungo del living rettangolare dell’appartamento in cui ho abitato tanto tempo fa. La scossa si è propagata, nell’ordine, dalla porta del balcone al tavolo della cucina, poi ha attraversato me – ero seduto al computer, tanto per cambiare – e quindi si è dileguata verso la casa dei vicini. Così, a spettacolo concluso e applausi scemati, quel vecchio si è avvicinato all’orecchio della signora che sedeva al suo fianco – sua moglie? – e l’ho sentito, è stato sufficiente il labiale, sussurrare qualcosa che aveva a che fare con la quarta parete e una commedia di Plauto al liceo, quando uno dei protagonisti aveva fermato lo spettacolo per lamentarsi del chiasso che quel gruppetto di deficienti ignoranti bifolchi conciati come i Cure stavano facendo. “Stiamo lavorando”, il soldato fanfarone aveva gridato dal palcoscenico, “meritiamo più rispetto”.

un po’ di male nel bene e viceversa

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La mamma di Nicholas sfoggia lunghissime e vistose unghie a colori alternati: bianche con inserti tondi neri e nere con inserti tondi bianchi. Una scelta che sarà simbolo di armonia ed equilibrio tra le dualità dell’universo, nonché di interazione tra le energie antitetiche, quella positiva contro quella negativa e passiva, ma che al lato pratico le crea enormi difficoltà nel digitare la nuova password del suo account Google scolastico e dimostrarmi che c’è qualcosa nel suo smartphone che non va, d’altronde touchscreen e onicotecnica da sempre non sono compatibili. L’impatto tra le due forze si manifesta comunque sul tempo extra non pagato in cui devo fermarmi a scuola per quel tipo di assistenza tecnologica, così un po’ invidioso del suo telefono da mille e passa euro (un mese del mio stipendio) mi limito a suggerirle, la prossima volta, di acquistare un Android.

Non aggiungo che la resilienza di cui ci riempiamo la bocca e che va tanto di moda, vista da vicino, è un disvalore, una posa che ci impedisce di agire la vera rottura che poi è il break-even point in cui mandiamo affanculo tutto e tutti, ma in questi tempi di sovranismi non è il caso. I genitori che ci vengono a incontrare in prima sono comunque molto carini e ingenui. Chiedono più compiti – con figli in alcuni casi di nemmeno sei anni – e li crescono a merende bio in confezioni che si aprono solo con le forbici. L’intervallo lo perdo a tentare di strappare materiale di nuova generazione, probabilmente alieno, così dirotto quei mocciosi, a cui ancora un paio di anni all’infanzia avrebbero fatto più che bene, all’impiego del materiale scolastico di cui sono dotati. E non è tanto il problema che non sanno allacciarsi le scarpe, che si mettono i piumini al contrario, che non riescono a chiudere le zip, che non hanno forza sufficiente nelle mani per stringere il meccanismo che libera le fibbie degli zaini. È che qualcuno se la fa addosso, nel senso della cacca.

Nel migliore dei casi nei pantaloni in classe, nel peggiore cercando di risolvere l’impasse in bagno, perché poi sono cazzi delle collaboratrici sistemare le cose, e se si rifiutano potete stampare come ho fatto io la pagina del CCNL e evidenziare in rosa il passaggio in cui, non è scritto proprio così, spetta a loro prestare assistenza in queste situazioni di merda. Quando invece capita durante la lezione colgo immediatamente le avvisaglie di ciò che sta accadendo e mi blocco, talvolta sul più bello di un intervento appassionante, talaltra nel corso di una spiegazione di quelle che sono certo faranno la storia e che i miei alunni si porteranno dentro, per sempre, nella vita. Tutto ciò che mi circonda svanisce. I bambini, la LIM accesa, la collega di sostegno, i banchi, le pale sul soffitto. Tutto ciò che mi circonda svanisce, guardo nel nulla come certi ACD che hanno l’interruttore on/off. Mi spengo mentre la realtà continua il suo corso, cado in trance e penso: che cosa ci faccio io qui?

amici di scuola

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La cassiera dell’Esselunga che mi ha servito mi ha confidato che l’anziano dimesso che mi si è avvicinato mentre infilavo la spesa nelle borse è una vecchia conoscenza del supermercato. Abita nei pressi, viene a piedi – e, visto il suo stato confusionale, meno male – e gli piace pontificare con i suoi coetanei, ed è per quello che ieri ha scelto me. Il tema dei monologhi si riconduce a un thread consolidato, un classico della letteratura da bar, ma il suo discutibile senso della realtà lo porta a mettere in relazione due aspetti antitetici: l’evasione fiscale che genera lo squilibrio di contribuzione alla spesa pubblica tra chi paga tutte le tasse e chi no, con i comunisti americani che dovrebbero prenderselo nel culo tutti perché pretendono di controllare nelle tasche della gente che poi, appunto, vota Trump, con l’aggravante dell’auto-dichiarazione delle proprie origini meridionali, come se l’accento – e l’ubicazione stessa del supermercato, un quartiere periferico costruito per favorire l’accoglienza dell’immigrazione dal sud negli anni 60 e 70 – impedisse di capirlo. A me basta che la coppia di albanesi che mi ha preceduto alla cassa, probabilmente ancora priva di figli in età scolare, mi abbia regalato i buoni ottenuti grazie a un budget ampiamente al di sopra della mia portata. Mi hanno lanciato uno sguardo di intesa, caricando il loro carrello pieno di prodotti industriali, e non c’è nemmeno stato il bisogno di chiedermelo. Ho detto che faccio l’insegnante e con i buoni della campagna “Amici di scuola” ci compriamo i computer.

Un bel mazzetto, che poi ho unito a miei, molti meno. Al “terronazzo” – è stato lui ad autodefinirsi così – invece gli avrei voluto mostrare la mia collezione di foto che custodisco sullo smartphone. Tutta la gente che vedo estrarre rotoli di banconote da cinquanta, cento e duecento euro e pagare la spesa in contanti. Da dove crede che vengano tutti quei soldi? Io sono uno di quelli che non gira nemmeno con i 50 centesimi per il carrello. Se sono fortunato becco l’addetto alla raccolta e me ne faccio sbloccare uno. Nelle giornate no, vado al punto informazioni e chiedo in prestito una moneta. Ci sono sempre impiegate diverse ed è per questo che, non ricordandosi di me, si raccomandano che, una volta caricata la spesa in macchina e riposto il carrello, la restituisca, e questa cosa la prendo sempre un po’ sul personale. Anni fa sfoggiavo un praticissimo tondino di plastica – un gadget rubato in un centro commerciale a Berlino – delle dimensioni perfette, peccato che poi l’ho dimenticato in un carrello. Se si fosse trattato di una moneta, vi assicuro che non sarebbe mai successo.

istruzione e merit

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Alla fine sembra che Parthenope fumi quasi più di Berlinguer, anche se del compiantissimo segretario del PCI si notano molti più pacchetti ancora sigillati. Due differenti approcci al tabagismo che, purtroppo, sottendono una componente decisamente sessista. I comunisti fumano in quanto intellettuali, le loro sigarette contribuiscono a mettere per iscritto ideali, strategie, visioni, e le sedi di partito immerse nella nebbia che ovatta persino il rumore delle macchine da scrivere trasmettono la visione romantica dell’abnegazione civile che anni di reti Mediaset, grillismo e nazifascismo melonista hanno spazzato via. Il fumo delle dee nate in acqua invece costituisce un valore aggiunto al desiderio che la bellezza ispira nel prossimo e alla sensualità femminile, e una laurea in antropologia (attenzione spoilerissimo) con il massimo dei voti, alla fine, risulta un di cui. Mi chiedo solo se Paolo Sorrentino avesse in testa l’idea di Stefania Sandrelli come volto e corpo perfetto per interpretare la Napoli del 2024 e quindi abbia setacciato le agenzie alla ricerca dell’attrice più somigliante alla sua versione da giovane, che poi sarebbe stata Amanda Sandrelli, o viceversa. Di certo, il gesto indotto dalla memoria muscolare all’uscita dalla sala, a seguito della visione di entrambi i film, è quello di tastarsi il taschino della giacca alla ricerca di un pacchetto.

Il connubio tra tabacco e politica nel mio caso si è consumato proprio nel corso di una manifestazione di piazza contro il primo governo Berlusconi. Rammento perfettamente l’istante: era il 12 novembre 1994, e a nemmeno metà percorso del corteo di protesta contro la legge finanziaria ho estratto le Winston dal mio parka ma, anziché accendermi l’ennesima sigaretta, ho gettato il pacchetto ancora pieno in un cestino della spazzatura a lato della strada. Avevo iniziato sottraendo le Milde Sorte dalla borsetta di mia mamma in seconda media, circa quindici anni prima, e da allora non avevo mai smesso. Ho persino toccato punte di due pacchetti al giorno ai tempi dell’università. Prendevo il locale per Genova alle 7.01, rigorosamente nel vagone fumatori, e mi fumavo la prima, facile fare il calcolo fino a notte inoltrata nei bar del centro storico. Si poteva fumare ovunque tranne al cinema, ma mia mamma ricorda l’aria irrespirabile durante i film a cui assisteva con l’uomo che poi sarebbe diventato mio papà, da fidanzati.

Da quella manifestazione non ho mai più fumato sigarette con continuità. Mia moglie ed io le compriamo quando siamo in vacanza perché fumare in estate, usciti dall’acqua o al ristorante all’aperto di sera con il vino bianco fresco, è un cliché da cui non vogliamo esimerci. Non solo. Scrocco una Camel blu alla mia collega di sostegno ogni lunedì, al termine delle lezioni pomeridiane e prima della programmazione. Mi unisco al gruppetto di insegnanti fumatori più o meno accaniti e, tra un tiro e l’altro, ascolto i racconti quotidiani sull’andamento delle classi. Raramente intervengo perché un po’ mi gira sempre la testa, quando fumo, e ho paura di biascicare con la voce. Dopo un po’ di sigarette offerte però acquisto un pacchetto e lo offro in dono alla collega. La prima volta un po’ si è offesa ma poi ha compreso il senso del mio gesto – mi fa sentire meno un peso per il prossimo – e accetta le sigarette con un sorriso.

The Cure – Songs Of A Lost World

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Ho visto This Must Be The Place, il film di Paolo Sorrentino, solo una volta, più di dieci anni fa. Non è certo il lavoro più riuscito del regista de Le conseguenze dell’amore, e probabilmente nemmeno una pellicola così memorabile, ma i The Cure sono la mia band preferita. Ecco perché non dimenticherò mai la scena finale. Sean Penn nei panni di Cheyenne, la trasposizione cinematografica di un Robert Smith alle soglie della terza età, che raggiunge a piedi la casa della madre dell’amica Mary e scambia con lei alla finestra uno sguardo d’intesa. La star degli anni ’80, senza trucco, ora ha i capelli corti e grigi, indossa abiti più che ordinari, e completa con quel gesto il suo percorso di redenzione.

Ci troviamo al cospetto di un’opera di fantasia che però assolve a un compito ben preciso, quello di colmare il profondo gap che va da Wish a Songs Of A Lost World. Un salto quantico di trentadue anni durante i quali è successo di tutto. Intanto ci sono stati quattro dischi tutto sommato irrilevanti (se nei live di presentazione del nuovo album alla BBC e al Troxy non c’è traccia, un motivo ci sarà) nonostante i quali la popolarità di Robert Smith e soci si è ampliata a dismisura fino a raggiungere livelli di cui la Rock & Roll Hall of Fame forse è il riconoscimento più trascurabile.

Nel 2024 è fuori discussione che i The Cure occupino il piano più alto nell’olimpo delle star del rock alternativo. Sono la band più influente della storia e la meticolosa e intelligente operazione di marketing che ha preceduto il ritorno sulle scene con Songs Of A Lost World c’entra, ma solo in parte. Robert Smith con le sue faccette e le sue moine, nei video delle sue canzoni più iconiche, è tra le cause principali di fenomeni come la diffusione del nuovo post-punk e dell’inarrestabile e acritica retromania nostalgica per gli anni ottanta soprattutto da parte di chi non li ha vissuti, per non parlare della pervasiva diffusione del mito della band grazie alle sottoculture della rete e dei social.

Gli ultimi sedici anni, poi, quelli che invece separano Songs Of A Lost World da 4:13 Dream, hanno visto i The Cure assidui headliner di palchi e festival in tutto il mondo, per non parlare della loro agiografia su Youtube (in lungo e in largo, sia nella dimensione dello spazio, sia in quella del tempo) con esibizioni e apparizioni in cui il loro passato glorioso, quello più amato dai fan e che si conclude dalle parti di “Friday, I’m In Love”, non ha mai smesso di essere beatificato e rimpianto.

Ecco perché non c’è nulla come la scena finale di This Must Be The Place di Paolo Sorrentino che soddisfi una delle mie fantasie più audaci. Sean Penn/Cheyenne/Robert Smith pettinato e vestito da persona normale mi fa illudere sul fatto che sia prevista davvero una terza età per le star, una stagione della vita in cui i musicisti si tramutano in normali persone anziane come qualunque altro impiegato del catasto e non in anziani musicisti, non so se mi seguite.

Una stagione in cui i cantanti vanno in pensione, anziché suicidarsi prima o morire di overdose a ventisette anni. Un momento in cui sono riconosciuti da un sistema previdenziale che tiene i conti alla loro attività e che presenta, anche per chi suona per mestiere, le stime per sancire quando sia il momento di fermarsi (che poi farebbe bene in primis ai musicisti stessi, a quel certo punto della loro vita, il fermarsi).

Un nuovo corso, in cui cose come andare a far la spesa o riabbracciare i nipotini all’uscita da scuola impongono il superamento del look da cosplayer del rock o del dark o di quello che volete e, con addosso una felpa in pile come tutti i vecchi le cui mogli non hanno giustamente più voglia di stirare camicie, frequentano il circolo del burraco, praticano il pilates e cercano il riparo al fresco dei centri commerciali, seguendo il palinsesto della sopravvivenza alle estati sempre più roventi, imposto dai tg.

Il punto è che Robert Smith ha paura di invecchiare (come biasimarlo) almeno da “Sinking”, epocale brano di chiusura di The Head On The Door, e si sentiva anziano persino il giorno prima di comporre “In Between Days”, ma sono pronto a scommettere che segnali analoghi sono rintracciabili anche in dischi precedenti. Per non parlare di Disintegration e, dopo, di Bloodflowers, album in cui la morte è il tema ricorrente. E probabilmente va ricondotta a questa ossessione condivisa la necessità di conciarsi sempre uguale a se stesso, anzi, al suo travestimento da Robert Smith, con i pochi capelli rimasti cotonati e l’eyeliner, ancora oggi, a 65 anni suonati.

E se considerate che di dischi di addio alle scene dei The Cure ce ne sono già stati almeno tre, per non parlare della quantità di “Endsong”, quelle ultime tracce e finti addii che poi sono commoventi arrivederci, ci dev’essere un demone in Robert Smith che lo spinge, con una sorprendente ricorrenza, a ribadire a se stesso questo concetto. Siamo mortali, anzi, mortalissimi. Siamo destinati a disintegrarci, un giorno di questi, e quel giorno lo affronteremo comunque da soli. Indossare una maschera ci aiuta ad allontanare chi e che cosa diventeremo e a rinnovare lo stesso rito sul palco, per noi stessi e per quello che rappresentiamo per i nostri seguaci. Non so dirvi se ciò sia la soluzione al problema, ma da un certo punto della vita in poi, a quanto sembra, funziona.

Chi ha partecipato ai pre-ascolti di warm-up propedeutici all’uscita del disco (come se ce ne fosse davvero il bisogno, per una band così importante) ha scritto che Songs of A Lost World è il miglior album dei The Cure dopo Disintegration. Io mi dissocio. È il miglior album dei The Cure dopo Wish, che non ha nulla da invidiare al suo predecessore. La formula di Songs of A Lost World è però la stessa dei quattro dischi pubblicati da allora ma, a differenza degli altri, è un disco che ce l’ha fatta.

Otto eterne non-canzoni dilatate secondo flussi più o meno ricorsivi di componenti indistinguibili. Lunghe e suggestive intro strumentali, arrangiamenti ridotti al minimo con tappetoni di tastiere, strofe e ritornelli intercambiabili, melodie che non aggiungono granché alla straordinarietà delle struggenti ballate gotiche che compongono il disco, code trascinate come quei saluti finali che nessuno vorrebbe mai estinguere davvero, in un incedere suonato da musicisti legittimamente e meravigliosamente affaticati dalla propria età artistica e anagrafica.

E, al contrario dei capolavori nati nell’età dell’oro in cui si è consolidato il mito di Robert Smith, è un lavoro completamente privo dei ritornelli catchy e di quella disorientante scanzonaggine pop dei singoli dei The Cure che hanno fatto la storia e che, in questo eterno presente, compongono quotidianamente le prime pagine dei nostri social sotto forma di meme. Stesso discorso per certi ritmi sostenuti, in Songs Of A Lost World del tutto assenti, che hanno spalancato le porte dei club alla loro musica, quei brani danzerecci punti fermi di qualunque playlist che si rispetti per chi paga per ballare un po’ di musica alternativa. Ma forse la maturità musicale è proprio questa: un taglio con il passato per un compromesso con il futuro. Anche se, dal vivo, i The Cure attingono ampiamente dai fasti di un tempo (a partire dai 45 anni di Seventeen Seconds) e tengono il palco con una forma e una compattezza che non ha confronti.

È bene che siate consapevoli di tutto questo prima di approcciare Songs of A Lost World, un bel disco di un gruppo di artisti anziani che suona e canta canzoni di un mondo perduto, musica da vecchi e destinata a vecchi, ma (credetemi) nell’accezione migliore di tutto questo. C’è la sensazione di essere soli e vicino alla fine di “Alone”, un modo di comporre intro per i suoi dischi con i quali Robert Smith ci vizia da sempre, subito smentita dalla promessa di stare vicino al prossimo sino alla morte di “And Nothing Is Forever”. Ci sono i rimpianti di “A Fragile Thing” e i conflitti che svuotano le relazioni di “Warsong”. La paura delle complessità del presente di “Drone:Nodrone” e la perdita dei propri cari di “I Never Can Say Goodbye”. L’insicurezza di sé di “All I Ever Am” e il commiato di “Endsong”, simmetrico per le sue tematiche alla traccia di apertura, la paura di invecchiare in un mondo alla deriva.

Tematiche dark da manuale, al limite dello stereotipo, sotto tutti i punti di vista, che, nel 2024 e nello status quo delle cose, meritano molta più dignità che allora, e che solo la sensibilità di un artista più che maturo riesce a rendere in pieno: “Left alone with nothing at the end of every song. Left alone with nothing, nothing, nothing”, ripetuto all’infinito quasi come l’ad libitum di “again and again and again” di “A Forest”, quando si correva verso il nulla e una ragazza mai esistita. Ed è per questo che la maschera di Robert Smith, il trucco di quell’adolescente che contemplava la luna sul volto dell’anziano che si trova a fare ancora altrettanto, che a differenza del Cheyenne di This Must Be The Place non si concede e non ci concede nessuno sguardo di intesa finale (tantomeno una redenzione) vista da qui, oggi, non ha più senso di esistere.

retrocessione

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Stamattina riflettevo sul fatto che pochi settori di per sé strategici come la scuola sono scollegati dal resto dell’economia. Non si tratta certo di una conclusione a cui sono giunto così all’improvviso, perché lo penso da sempre e so che lo sapete bene anche voi. Ho vissuto però, nel giro di un paio di giorni, due episodi apparentemente differenti tra di loro che confermano tutto ciò, fermo restando che alla base c’è una questione di stato d’animo o umore, chiamatelo come volete. Voglio dire che ci accorgiamo di certe cose solo quando abbiamo una predisposizione emotiva adatta a percepirne la portata. Sul primo episodio c’è poco da dire. Ho un bimbo quest’anno nella mia prima a cui avrebbe fatto bene ancora un anno alla scuola dell’infanzia. Lunedì pomeriggio, mancava una ventina di minuti al termine delle lezioni, per farla breve se l’è fatta addosso – la cacca – ma in un modo a dir poco rocambolesco e con un impatto devastante per il bagno e su di sé, non vi sto a raccontare i dettagli ma non avete idea di come si è conciato. Il secondo è accaduto invece poco fa: ogni tanto faccio un giro su LinkedIn e, probabilmente a causa dei (o grazie ai) miei trascorsi professionali, ma di colleghi non c’è manco l’ombra. Poi mettici l’età anagrafica, intendo la mia, e il fatto che a scuola non funziona mai nulla: la dimensione organizzativa, il flusso della comunicazione, i proiettori delle LIM, il recruiting del personale, le linee guida del Ministero e dell’Ufficio Scolastico, la formattazione del testo nelle email dei colleghi. Ecco, se c’è un campionato mondiale dei settori industriali e professionali, chi lavora come me nella scuola milita in prima divisione, o in promozione per parlare in linguaggio calcistico, o comunque la serie più dilettantistica che c’è.

disclaimer – una trama imperfetta

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Si gioca così: si accende il pc, si va su Facebook e si commenta il primo post che capita in home con l’ultima cosa che si è detta prima di aprire il computer. A me è toccato un articolo di pseudoscienza dedicato a quel posto del Minnesota in cui si sta testando il sistema di accumulo di tutto il caldo estivo in eccesso che poi viene rilasciato durante i mesi invernali e, viceversa, la possibilità di immagazzinare le temperature rigide dei mesi freddi da rilasciare per mitigare le giornate più torride della bella stagione. Una tecnologia ricordiamo a impatto meno di zero perché non consuma nessun tipo di energia rinnovabile o fossile che però corre il rischio di normalizzare in eccesso il clima, generando lunghe primavere di dodici mesi con giorni tutti uguali che, alla lunga, potrebbero rompere i maroni. Manco a farlo apposta, avevo appena discusso con mia moglie della miniserie tv che ci siamo bruciati in una sera, i cinque episodi di “Disclaimer – La vita perfetta”, scritta e diretta da Alfonso Cuarón, un argomento che, appunto, si trova agli antipodi dell’ingegneria della termoregolazione e che mi ha consentito di guadagnare 10 punti netti al Fantasocial, balzando in testa tra i miei compagni di torneo.

Comunque, con mia moglie, io andavo sostenendo che la trama di “Disclaimer” non sta in piedi ma, nel commento che ho postato e che riporto qui sotto, c’è un’elevata concentrazione di spoiler quindi il mio, di disclaimer, è che questa riga è l’ultima possibilità che vi resta per cambiare lettura prima di rovinarvi l’esperienza di visione.

Il romanzo della scrittrice Renée Knight, da cui è tratta la serie, è stato pubblicato nel 2015. Possiamo supporre la sua gestazione e la conseguente ambientazione almeno intorno al 2010. Nicholas, durante lo svolgimento dei fatti, ha 25 anni. Ai tempi del viaggio in Italia in cui Jonathan ci lascia le penne ne aveva 4, quindi Jonathan e Catherine vivono la loro infuocata notte di sesso venti anni prima, ipotizziamo nell’estate del 1990 circa. Ne conseguono alcune grossolane approssimazioni di ricostruzione storica. L’ostentazione di “Ti amo” di Umberto Tozzi come commento musicale in grado di evocare una sintesi dei luoghi comuni sui flirt consumati nella cornice delle località balneari delle estati italiane è fuori contesto. Nel 90 o giù di lì gli anni 70 erano finiti da un pezzo e nessuno si sarebbe sognato di ascoltare quel vecchiume, il revival di “Anima Mia” e compagnia cantante era ancora lontano da venire.

La storia poi inizia con Jonathan e Sasha che trombano nello scompartimento di un vagone letto di un Eurocity. Si vede il controllore entrare senza preavviso, cogliendo i due sul fatto, un’intrusione che non sta né in cielo né in terra. Ma non è tutto. Jonathan, più di una volta, si fa i selfie a Venezia con una macchina fotografica tradizionale con tanto di mega-obiettivo, cosa che a nessuno sarebbe mai venuta in mente. In primis, in quanto gesto sconveniente secondo qualunque principio dell’ergonomia: le fotocamere di una volta erano tutt’altro che maneggevoli e pratiche per puntarsele contro. Senza contare che, prive del display nella parte anteriore, la possibilità di inquadrarsi e regolare la messa a fuoco manuale dell’obiettivo – per non parlare di non riuscire nella foto con una faccia da idiota – è pressocché impossibile. Piuttosto, Jonathan e Sasha avrebbero potuto fermare qualcuno, come si faceva ai tempi in cui eravamo ancora animali sociali dal vivo, e chiedergli di scattare una foto. A Venezia quindi c’è un altro svarione anacronistico di sceneggiatura: il conto della navigazione sulla gondola gli viene calcolato in euro anziché in lire. Vabbè, questo dettaglio è da ossessivo-compulsivi e facciamo finta di niente, e comunque potrei sbagliarmi io.

Non posso invece soprassedere sulla prestazione di Jonathan nella trombata di cui sopra. Il ragazzo conclude in anticipo il suo apporto, rispetto alla partner, un passo falso dovuto all’irruenza tipica dei diciannove anni e che si ripropone qualche sera dopo a letto con Catherine, e fin qui non c’é nulla di sorprendente. In entrambi i casi, però lo si vede riprendere con successo la performance senza soluzione di continuità, in un caso a quanto sembra senza nemmeno sottrarsi almeno per una veloce pulizia delle parti coinvolte, una scena di fanta-erotismo che contribuisce a diminuire la portata di credibilità della storia. Una tecnica che per qualcuno può riflettere fedelmente la normalità, ma non per lo spettatore maschile medio, che già a fatica porta a compimento la prima sessione in modo soddisfacente, figuriamoci la seconda e senza nemmeno un adeguato tempo di recupero.

Poi non è per nulla convincente tutta la questione del libro. Catherine riceve una copia di “The Perfect Stranger” nel primo episodio e ne rimane sconvolta. Il modo in cui il marito Robert sottovaluta lo stato di choc di Catherine non è per nulla credibile, se consideriamo la devozione e l’attenzione che pone nei suoi confronti. Un compagno di vita di quel tipo, come minimo, osservando la reazione della moglie, si sarebbe subito precipitato a leggere il romanzo. Ma, se fosse andata così, un personaggio intelligente come Stephen avrebbe collegato immediatamente le vicende della protagonista con la vita di Catherine, e la serie sarebbe finita lì, alla prima puntata.

Senza contare la coincidenza del ritrovamento della seconda copia del libro nel negozio in cui lavora Nicholas. Nel giro di qualche giorno una madre e un figlio ricevono misteriosamente lo stesso romanzo – un libro peraltro di self-publishing – e nessuno si insospettisce? Ho trovato poco chiara anche la stesura stessa di “The Perfect Stranger”. Nancy – la madre – non ha nessun contatto con Catherine nei giorni successivi alla morte di Jonathan. Mi chiedo quindi come abbia fatto a descrivere minuziosamente i dettagli erotici tra Catherine e Jonathan senza che nessuno glieli avesse mai raccontati. E la stesura doveva essere decisamente fedele ai fatti, se osserviamo la reazione di Catherine dopo la lettura. Come è possibile che abbia scritto la storia per filo e per segno fantasticando solamente sulle stampe delle foto scattate dal figlio? Infine, quando Stephen – il padre di Jonathan – allestisce la libreria di riferimento di Catherine con svariate copie del romanzo, il comportamento della proprietaria nell’organizzazione della presentazione del libro risulta inverosimile.

Anche il modo in cui Stephen, nel primo episodio, trova la chiave del cassetto della scrivania di Jonathan in cui la moglie ha conservato le bozze dattiloscritte del libro fa acqua da tutte le parti. La chiave è in una borsetta che cade dal fondo dell’armadio di Nancy dopo che Stephen lo svuota dai vestiti della consorte. Stephen sostiene che Nancy abbia voluto fare in modo che lui trovasse la chiave, e quindi il romanzo. Ma, se davvero fosse stato davvero così, non l’avrebbe certo nascosta in punto che solo un evento totalmente casuale gliela avrebbe fatta scoprire. Piuttosto, semmai, il contrario: Nancy, stremata dal dolore per la perdita del figlio e successivamente dal cancro, si pente in punto di morte di aver scritto il libro e cerca di nasconderlo al marito proprio per evitargli inutili ulteriori sofferenze e rischiose conseguenze.

Un altro aspetto che ha deluso le mie aspettative è stata la conferma che Jonathan è davvero morto annegato per salvare Nicholas, mentre tutto mi faceva pensare (o almeno fino alla fine ho sperato) che, in realtà, Catherine avesse avuto un ruolo attivo nell’uccisione del suo amante e potenziale stalker in grado di distruggere la sua famiglia perfetta. Certo, esimendosi dal dare l’allarme ai bagnini sul pericolo in corso in mare ha contribuito alla morte del ragazzo. Ma la cicatrice sul braccio di Nicholas, notata dai genitori al momento del riconoscimento del cadavere, per un po’ ha lasciato spazio all’immaginazione di un colpo di scena.

Mi è sembrato molto forzata, infine, la dinamica del contatto su Instagram conclusivo tra Nicholas e il profilo fake di Jonathan gestito da Stephen e il loro scambio di messaggi, nell’ultimo episodio che sancisce l’atto finale della tragedia che condannerà Nicholas, al culmine della disperazione, al sacrificio di sé e alla redenzione. L’uso manipolatorio dei social non è affatto realistico e la scena non è approfondita a sufficienza, per non dire troppo frettolosa.

E poi, obiettivamente, una messa come Leila George D’Onofrio in quale film ti invita a salire in camera in quel modo?