Converrete con me che il canale Real Time sia un vero concentrato di trash, a parte “Casa a prima vista” che, nonostante l’ultima stagione decisamente deludente – sarà per gli aspiranti acquirenti sempre meno interessanti, sarà per l’eccessiva ripetitività del format – si conferma uno dei più riusciti tentativi di confort entertainment televisivo. Il resto della programmazione dev’essere inqualificabile, a partire dalla fiction turca “Hercai” della quale viene trasmesso il trailer spot durante le interruzioni pubblicitarie di “Casa a prima vista”.
“Hercai”, che dev’essere una boiata senza precedenti, sembra però spassosissima per i gap tra il doppiaggio e il sinc con il labiale dei protagonisti. Non è colpa di nessuno, ci mancherebbe, se non dell’abisso glottologico che separa la lingua italiana da quella turca. Il gioco dell’osservazione attenta delle bocche degli attori metterebbe in seria difficoltà anche i migliori campioni in quelle prove di abilità in cui si sfoggia l’indipendenza di due parti del corpo che svolgono simultaneamente due cose differenti: strisciare una mano sul petto mentre l’altra lo percuote, pronunciare no mentre con la testa si annuisce, ascoltare la musica in auto mentre si abbassa il finestrino al casello autostradale per premere il pulsante e ritirare il biglietto. In “Hercai” colpiscono i dialoghi pronunciati mentre le labbra eseguono movimenti completamente agli antipodi e ci si chiede dove risieda il reale bisogno di importare trasmissioni turche, o al limite di doppiarne le voci, consapevoli di questa antitesi incolmabile.
Per mettere subito le cose in chiaro e fugare qualunque illazione di razzismo o snobismo culturale, per me turchi e italiani appartengono alla stessa faccia e alla stessa razza. In più ho la discografia completa di una band di Istanbul che mi piace di brutto (i Lalalar), per non parlare dei più noti Altin Gun, con i quali appago il mio debole per il rock anatolico, e adoro la mia alunna di origini turche – non riporto il suo nome per ovvi motivi di privacy – di cui ho già parlato a proposito del papà proprietario di alcuni ristoranti etnici e che mi ha già rinnovato più volte l’invito a essere suo ospite. In questi mesi mi sono messo a stecchetto per una fastidiosa steatosi epatica, ma appena mi sarò ripreso non lo deluderò. Sua figlia, la mia alunna, oltre a essere simpaticissima se la cava alla grande in italiano, nonostante la sua dizione risenta di certe insormontabili divergenze fonetiche. In più manifesta una vistosa alterazione della risonanza nasale, in parole povere è come se soffrisse di un raffreddore epico che va a impattare sulla pronuncia di diverse consonanti. Un insieme di complessità che, di certo, non favorisce la comunicazione e, per farla breve, non abbiamo ancora capito se sia meglio l’apporto di un onesto mediatore culturale o un buon logopedista.
A parte questo e una non brillante attitudine logica – comunque superiore alla mia – se la cava bene in tutto. In arte, poi, è un portento. Colora e disegna con una precisione non comune e, quando tocca a lei condurre il gioco del disegno misterioso, è un piacere vederla all’opera. Giochiamo al gioco del disegno misterioso quando mancano una manciata di minuti alla campanella e un argomento nuovo sarebbe sprecato. Il gioco del disegno misterioso si fa così. Qualcuno va alla lavagna e, disegnando con il gesso, svela un soggetto particolare per particolare. Chi indovina per primo vince e va alla lavagna a condurre la manche successiva. Nella maggior parte dei casi indovinare è pressoché impossibile, quasi tutti i bambini sono dei cani a disegnare e quelli che restano a posto sono dei cani a interpretare i loro sgorbi.
Ne deriva che il mix tra gli scarabocchi al di là delle comuni possibilità di comprensione della mente e la capacità interpretativa di esseri umani dalle facoltà intellettive ancora acerbe rende il disegno misterioso meritevole di un format tv dedicato. Se vivessimo in Giappone ne farebbero uno di quei programmi come quello in cui mandavano i bambini di due o tre anni da soli a fare la spesa al supermercato. Per fortuna ci sono due o tre miei alunni, tra cui la bambina turca, che dimostrano una abilità grafica di una spanna sopra al resto della classe e così, quando il tempo è agli sgoccioli, in un modo o nell’altro si riesce a chiudere almeno una sessione di gioco.
Quello del disegno misterioso è il secondo passatempo preferito strutturato dei miei alunni. Al primo posto si conferma imbattuto – con un inspiegabile primato che rimane insuperato dalla notte dei tempi, almeno da quando esistono i bambini – il gioco del gessetto.
L’aspetto paradossale è che nella scuola primaria ai tempi delle aule immersive, delle STEM e della didattica digitale integrata è un attimo a passare dall’intelligenza artificiale al gioco del gessetto. Giusto il tempo per riportare in laboratorio di informatica, al termine della lezione, il tech-bus con i Chromebook – cinque minuti per salire con il montacarichi al secondo piano e rimettere al suo posto l’armadietto a rotelle – che la collega di sostegno, lasciata da sola nell’aula, per accattivarsi il silenzio degli alunni non ci pensa due volte a piallare l’ardore avveniristico e l’entusiasmo tecnologico di una classe della generazione alpha a coronamento di un’ora di sperimentazione avanzata sui Fogli Google con il gioco del gessetto, un gioco che, già dal nome, ci catapulta in un’epoca e in un’atmosfera da libro cuore.
Che poi il gioco del gessetto, di romantico, ha solo il nome. Il gioco del gessetto è feroce. Spietatissimo. Chi sta in piedi davanti alla lavagna di ardesia con il gessetto ben stretto nel pugno a scegliere il proprio successore nella conduzione del gioco detiene un potere assoluto sui compagni. Chi sta in piedi davanti alla lavagna di ardesia con il gessetto ben stretto nel pugno determina, con la sua scelta, la scala di chi è popolare e chi è impopolare, chi gli sta simpatico e chi no. Chi deve stare simpatico a chi gli è simpatico e chi non deve stare simpatico a chi gli è simpatico. Chi avrà successo nella vita e chi resterà fino alla fine seduto al proprio posto. Il gioco del gessetto è disumano e a scuola dovrebbe esserne vietato l’uso, proprio come gli smartphone.