il nome della rosa

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Non ho ancora ben capito cosa voglia dire invecchiare ma se avete qualche dritta da darmi ogni suggerimento è il benvenuto. Talvolta mi capita di riflettere sull’argomento grazie a qualche spunto fornito dai libri che leggo, dai film e dalle serie tv, oppure semplicemente osservando e ascoltando persone in carne e ossa. Rifletto sulle esperienze altrui, presunte o autentiche o anche solo ispirate da fatti avvenuti realmente, provo a sovrapporle al mio vissuto – passato, presente e futuro – e cerco di trarre degli insegnamenti più che delle conclusioni, anche se poi, al lato pratico, torna tutto come prima. Trascorro il tempo libero ad ascoltare band di venti o trentenni americani e inglesi che si rifanno ai Killing Joke e ai Joy Division, ragazze e ragazzi che potrebbero essere miei nipoti, ma poi lo noto il contrasto con il riflesso che vedo di sfuggita sulle superfici lucide quando cammino, nonostante cerchi di evitare come la peste gli specchi fatti e finiti. Manca la corrispondenza che certe convenzioni sociali impongono tra come ci si deve sentire e come veniamo percepiti all’esterno e, nonostante colga di continuo le molteplici conferme di questo disallineamento e le conseguenti inadeguatezze, faccio fatica a trovare una soluzione. Anzi, a dirla tutta, non riesco proprio a capire come sia possibile arrendersi, se di resa si tratta.

Vi faccio un esempio. Ho avuto l’occasione di seguire qualche frammento – notate che mi vergogno non poco ad ammettere di essere arrivato fino in fondo a episodi interi – della trasmissione “The Golden Bachelor”, in onda sul canale Real Time. Dovete credermi però rispetto al motivo per cui l’ho scoperta. Il programma va in onda in coda a “Casa a prima vista”, format per il quale nutro una smodata quanto irrazionale passione. La spiegazione di tanto entusiasmo per i sei agenti immobiliari che si alternano tra Milano e Roma deriva da un latente trasporto per il design degli interni unito a un sentimento che non saprei definire per l’architettura (e gli architetti), mentre poi – ed è paradossale – non stimo particolarmente i venditori di appartamenti a partire da quello che, non mi spiego ancora come ci sia riuscito, si è procurato il mio numero di telefono perché qualcuno, per farmi uno scherzo, gli ha detto che casa mia era in vendita. Figuriamoci. Non mi separerei mai dagli ambienti da cui vi sto scrivendo. Mi ha chiamato e gli ho smentito la diceria, lui non contento si è presentato due volte qui sotto fino a quando ha preso coraggio e mi ha intercettato per chiedermelo di persona. Ho un sospetto su chi gli abbia potuto fornire i miei contatti e certe informazioni false. Ho un vicino che vota sicuramente Salvini ed è in pensione da quando ha compiuto 54 anni. Lo incrocio sempre, quando esco, nei pressi del nostro condominio con il suo cane di merda mentre fa finta di telefonare per non salutare o fermarsi a chiacchierare con i vicini, nonostante a nessuno verrebbe mai in mente di scambiare due parole con un potenziale serial killer così. Quindi, per tornare a noi, vai a sapere come nascono certi interessi.

Comunque è successo che, al termine di una puntata di “Casa a prima vista”, mi sono involontariamente esposto alla visione di “The Golden Bachelor” un mercoledì sera e, in una delle classiche sessioni di spegnimento del cervello e dell’elusione delle barriere inibitorie del giudizio dopo una stressante giornata lavorativa, mi sono lasciato sommergere da questa specie di incrocio tra “XFactor”, “Uomini e donne” e uno di quei dozzinali programmi in cui le persone si incontrano per conoscersi e finire a letto dopo essersi destreggiati in una qualsiasi forma di competizione tra di loro: seminudi in un’isola selvaggia, circondati da veline e tronisti tentatori quanto burini, abbinati a cazzo per un improbabile primo appuntamento a puro scopo di audience.

Conoscerete sicuramente anche questo, di format: uno scapolo ha a disposizione una sorta di harem composto da una decine di donne tra le quali deve scegliere l’esemplare con cui intraprendere una storia romantica che, sulla carta, dovrebbe essere quella decisiva. A ogni puntata ne prova una o due, nel senso che le sottopone a qualche pratica d’antan presa da un fotoromanzo rosa fino poi comunque a limonarsele – come biasimarlo – e ne scarta un paio fino a quando, immagino perché il programma è ancora nel pieno della gara, resteranno le finaliste e infine la vincitrice. Che poi, diciamocelo, di che premio si tratta? Comunque, sia il protagonista sia le concorrenti sono tutte persone piuttosto attempate. Divorziate e vedove, reduci dai più disparati vissuti personali e intimi, che per un motivo o per l’altro hanno deciso di mettere i propri sentimenti alla berlina e regalarsi questa sorta di favola d’antan in piazza. Non entro nel merito delle trame che a ogni episodio si dipanano. Il punto è che, quando scrivo concorrenti attempati, intendo donne e uomini a grandi linee miei coetanei. Lo scapolo ha tre anni in più di me, le sue pretendenti sono in un raggio di età coerente e potrebbero tranquillamente esser state mie compagne di classe o di università.

Nel corso dell’ultimo episodio, tutto incentrato sul potere seduttivo della danza, Massimiliano Pace – questo il nome del bachelor d’oro – se non ho capito male ha sostenuto di aver ridotto, da giovane, a un uso strumentale la canzone “Kiss” di Prince con l’obiettivo di sbaciucchiare ragazze in pista da ballo sfruttando il punto in cui si sente la riproduzione a tempo dell’inconfondibile schiocco delle labbra. Lui è un uomo attraente e sicuro di sé e immagino che in discoteca abbia fatto scintille. Il fatto è che “Kiss” è un brano dell’86 e io avevo diciannove anni, e anche se nei locali che bazzicavo io i dj se ne guardavano bene dal mettere una qualunque canzone di Prince, mi sono reso conto proprio in quel passaggio di avere in comune con il protagonista della trasmissione un trascorso da coscritto. In poche parole, in quella trasmissione potrei esserci io, da un punto di vista anagrafico. Il punto è che lo scapolo conteso, a vederlo così, a interpretare la percezione che ne ho io, mi sembra mio nonno, nonostante ci separino una ventina di mesi. Io non mi vesto come lui, non vado a cavallo, non parlo così, ho dei trascorsi da adulto decisamente più ordinari e soprattutto non ballerei mai il tango con una donna per cogliere l’intesa ma, al limite, “Charlotte Sometimes” o “Love Like Blood” o “Shake The Disease”.

Con lo stesso metro di giudizio, le concorrenti mi sembrano mia nonna nonostante siano donne decisamente attraenti e in forma, malgrado l’età. Si vestono giustamente con vestiti eleganti da sciure e nessuna, per dire, calza anfibi o Camper. Un altro aspetto che mi ha colpito è che sono a grandi linee coetanee anche di molte delle mie colleghe maestre e, riflettendoci, anche loro le vedo così, molto più grandi di me di almeno un paio di generazioni, quando magari invece sono più giovani ma, nel comportamento, mi superano ampiamente in maturità.

Non solo. Le concorrenti di “The Golden Bachelor”, lì a più o meno sessant’anni in versione single a valle di esperienze di coppia per motivi diversi fallimentari, indurite nel temperamento dalle traversie sostenute e non sempre risolte, manifestano un forte – e legittimo – desiderio di abbandono all’uomo ampiamente superato. Un anelito di resa che non nascondono al loro partner in potenza, in cui ricercano il ruolo protettivo da film americano anni cinquanta, come se decenni di emancipazione femminile e di conseguente rieducazione maschile non fossero mai esistiti. Al termine di ogni episodio, consumate tutte le prestazioni necessarie a creare un’intesa con le concorrenti, lo scapolo consegna rose alle donne che, superata la prova, passano al turno successivo. Ogni volta due restano sul campo, fanno armi e bijoux e tornano piccate e deluse alla loro dimensione privata e, da come l’hanno presentata, incompleta. Donne che cercano protezione e rose salvifiche in omaggio è un connubio di luoghi comuni che mi lascia attonito. Spero che anche voi cogliate la portata diseducativa e deviante di pratiche come questa e di un programma davvero ai confini della realtà. La rosa, poi, è un presente dal significato oltremodo svilente. Non è più romantico un libro o un disco?

cimeli

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Una volta viaggiavo abbastanza spesso per lavoro e, quando mi era possibile, rientravo a casa portando qualcosa acquistato in trasferta. Tortellini a Bologna, cannoli a Catania,  piadine industriali in Romagna, una boccia magnum di amarone dal Veneto e persino una confezione famigliare di carta igienica ricevuta in omaggio, dono di una fabbrica ubicata nel principale distretto produttivo del settore in Toscana. Spostare specialità del luogo da un posto all’altro è una pratica che probabilmente è composta della stessa sostanza del commercio export, non mi intendo di economia quindi potete confrontarvi tra di voi mentre metto un disco. A conferma di quello che dico ci sono persino leggende metropolitane come quella della focaccia comprata a Genova che, scollinato il Turchino, perde croccantezza e aumenta volume diventando mandrogna (giustamente si attraversa l’alessandrino) e, giunta a Milano, la puoi usare per lavare i piatti – la pasta – e per lubrificare i pistoni del motore – l’olio – grazie alla precisione con cui le condizioni ambientali contribuiscono a separare le componenti. Nonostante questo, i colleghi padani che ne beneficiavano non andavano tanto per il sottile. Qualunque materiale riconducibile alla principale specialità ligure a colazione – rigorosamente pucciato in qualsiasi bevanda prodotta dalle cialde come impone la tradizione rivierasca – risultava oltremodo gradito andando a ruba in tempo per il primo staff meeting della mattinata.

Operare nella scuola invece non comporta questo genere di trasferte di lavoro giornaliere o di brevissimo termine, a parte Didacta e altre perdite di tempo del genere. Ci sono le tratte migratorie con la T maiuscola dal sud al nord, questo sì, ma durano il tempo di una supplenza annuale, anche se i rientri dopo le vacanze e i ponti lunghi dei colleghi più zelanti nello stringere legami sono un’inestimabile occasione per gustare dolcetti e altre prelibatezze meridionali. Chi invece fa armi e bagagli e si trasferisce di sana pianta – pensate a chi entra in ruolo al nord e quindi volente o nolente impiega anni a ottenere uno straccio di trasferimento – tiene strette le sue radici. L’accento non si stempera mai e le occasioni in cui sfoggiare teglie di melanzane alla parmigiana (fritte e rifritte prima dell’inforno) o spacciare nduja tra i corridoi sono costantemente dietro l’angolo. Per questo mi sorprendo sempre ogni volta in cui qualcuno mi fa notare che la mia cocina ligure non si percepisca affatto. Chissà quando e dove l’ho smarrita. Nessuno mi chiede nemmeno più se mi manca il mare, elemento di cui facevo a meno persino quando abitavo a qualche centinaio di metri dal bagnasciuga. Una cosa a cui non so resistere però sono i canestrelli di Sassello confezionati che si trovano nel distributore in aula docenti. Sapete come funziona, vero? Più un prodotto va a ruba, più viene confermato da chi si occupa del refill. Ed è per questo che non perdo occasione di fare merenda – anche per il break di metà mattinata – con una confezione di canestrelli di Sassello accompagnata da quella brodaglia al sapore di caffè macchiato della macchinetta a fianco. I canestrelli tipici delle mie parti, a onor del vero, si trovano anche al supermercato e se mi rifornissi su più ampia scala alla grande distribuzione sono certo che risparmierei.

Tutto questo per rimandare il più possibile una cosa che apparentemente non c’entra nulla. La mia gatta è conciata malissimo, è vecchia e il veterinario sostiene che c’è poco da fare, anche se attende l’esito delle analisi del sangue per dare un parere più preciso. Ho aspettato troppo per il controllo perché avevo paura che mi proponesse di sopprimerla, allo stesso modo in cui oggi non riuscivo a scriverlo qui. Sono anche profondamente deluso da me stesso per non essere tutt’ora in grado di assumermi responsabilità come queste, far visitare la gatta e scrivere cosa c’è che non va qui. Vabbè. Sarà per il prossimo blog.

Vent’anni di Socialismo Tascabile: intervista a Max Collini

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Questo pezzo è uscito su Loudd.it

Ho una foto di mia figlia da piccola che, con addosso un paio di cuffie Sennheiser indiscutibilmente oversize rispetto alla sua testa, manovra la modulation wheel del mio Microkorg con la mano sinistra, mentre con l’altra schiaccia qualche tasto a caso, né più né meno di quello che da giovane facevo io quando mi atteggiavo a Boosta dei Subsonica, ma prima di Boosta dei Subsonica e penalizzato dall’assenza di un supporto a molle per la mia strumentazione. L’ho scattata qualche mese dopo l’uscita di Socialismo Tascabile degli Offlaga Disco Pax. Mi aveva colpito l’immagine della copertina del disco, e quel giorno in cui mia figlia mi aveva sorpreso mostrandosi interessata a seguire le orme del papà (cosa da cui ha desistito immediatamente per coltivare passioni che fortunatamente hanno richiesto investimenti meno impegnativi in termini di equipaggiamento) non mi ero lasciato scappare l’occasione di accendere il synth, metterglielo davanti e immortalare l’irripetibilità del momento.

Credo che in quel sabato mattina sia andata poi di lusso quasi a tutti. Mia figlia ora ha ventun anni e si sta godendo la libertà di studiare all’estero, almeno per il periodo dell’Erasmus. Io scrivo recensioni di dischi e musica (per la gloria, ça va sans dire) per una webzine tutto sommato genuina e con una sua dignità, grazie alla quale ho intervistato persino Max Collini, che da tempo condivide con Paola Egonu il mio personalissimo pantheon di figure per le quali nutro una smodata stima.

Gli Offlaga Disco Pax, dieci anni dopo la dolorosa scomparsa di Enrico Fontanelli (fotografo e zio della bambina in copertina nelle prime tre edizioni del disco nonché padre della protagonista dell’ultima) si sono temporaneamente ricostituiti per un tour celebrativo dei vent’anni dall’uscita dell’album d’esordio che, ad oggi, ha doppiato le date con cui era stato inizialmente organizzato e vanta diversi sold out in location da mille posti, quelle che organizzano concerti che viene gente anche da fuori a vederli.

Devo ammettere che abbiamo sottovalutato l’affetto che ci circonda”, esordisce Max Collini, raggiunto al telefono. “L’idea è stata mia e quando ho proposto a Daniele Carretti questa iniziativa per i vent’anni ha accettato con entusiasmo. Ci siamo così rivolti alla nostra agenzia storica – Lorenzo Bedini di Antenna Music Factory, la stessa che ha gestito tutta l’attività live degli ODP dai primissimi concerti sino allo scioglimento – il quale ci ha sorpreso proponendo locali con una capienza ben distante dai numeri che avevamo raggiunto nell’ultimo tour”.

La scommessa sul successo dell’iniziativa è stata così vinta dagli organizzatori. “Lorenzo si è mostrato certo sul fatto che i biglietti sarebbero stati presi d’assalto nel giro di pochissimo”, aggiunge Max. “Lato mio c’era il desiderio di suonare dal vivo di nuovo quelle canzoni, anche solo come celebrazione di quello che era stato, senza particolari ambizioni. Pensavamo di ritrovare un po’ degli amici che ci seguivano all’epoca ma probabilmente non ho tenuto conto di quello che è accaduto intorno a noi negli ultimi dieci anni”.

Nel frattempo è cambiato tutto. Del socialismo in espansione come l’universo, già in piena contrazione nel 2005, non si percepisce nemmeno più l’eco del big bang da cui è scaturito. Il match contro i vetero-sensibilisti che perdevamo due a zero è stato annullato per manifesta incapacità dell’avversario (cioè noi) e della Golf, oggi, è presente sul mercato persino un modello ibrido. Ma non è difficile immaginare chi sarà presente in prima fila.

Non sappiamo chi si sia precipitato ad assicurarsi i biglietti”, sottolinea Max. “Forse la vecchia guardia, o forse le generazioni che non ci hanno incrociato perché ai tempi troppo giovani”. L’ultimo concerto degli Offlaga risale a settembre 2013, da allora sono trascorsi dodici anni. “Nel frattempo ci siamo trasferiti sulle principali piattaforme di musica liquida e le nostre canzoni possono essere rintracciate in ogni modo. Per questo credo che troveremo un pubblico eterogeneo. Ci sono ragazzini che vanno a vedere i Diaframma per il tour dei quarant’anni di Siberia, un disco che è uscito quando non erano nati nemmeno i loro genitori. Non so veramente cosa aspettarmi, te lo saprò dire quando inizieremo i concerti”.

Tra quelli che sono riusciti ad accaparrarsi due biglietti della prima data ai Magazzini Generali di Milano ci sono anch’io, alle soglie dei sessant’anni, ma sono sicuro che non sarò il più vecchio del locale. Anch’io, come Max, ho fatto l’esame di seconda elementare nel 1975. Ho avuto così la fortuna di vederli più volte dal vivo, lungo i tour promozionali dei loro tre dischi. Gli aspetti che da subito mi hanno colpito dei loro live sono la sicurezza e la precisione con cui Collini riesce a seguire la struttura dei pezzi nonostante la formula spoken word dei testi. Finché canti, andare a tempo e riuscire a rispettare, con una melodia, strofe e ritornello è tutto sommato semplice. Per i testi declamati cambia tutto. Nel caso degli Offlaga la differenza la facevano lo stile e la strumentazione di Enrico Fontanelli e Daniele Carretti, composta da sintetizzatori, drum machine ed effetti manovrati dal vivo, oltre a basso e chitarra. L’assenza di basi (e la conseguente maggiore libertà sul palco) in brani che altre band farcirebbero di sample e tracce daw pre-registrate è l’altro fattore che li ha resi unici.

Abbiamo ripreso a suonare con un terzo musicista, Mattia Ferrarini, e a provare i pezzi a metà novembre”, chiarisce Max. “Quella di Mattia è stata una scelta abbastanza naturale. È uno di noi, appartiene al mondo musicale di Reggio Emilia, e ha suonato in alcuni gruppi che conosciamo. Non ha un passato né un profilo da session-man. Con lui condividiamo diverse passioni e somiglia molto a come eravamo noi quando abbiamo iniziato e quando abbiamo registrato Socialismo Tascabile. Nessuno degli Offlaga era un virtuoso, pensavamo di avere delle cose da dire e cercavamo di farlo nel miglior modo possibile, secondo le nostre capacità”.

E quando chioso sul fatto che per suonare certi pezzi occorre anche essere fedeli alla linea, Max non ha dubbi. “Mattia è una persona con la stessa nostra sensibilità. Non è stato sottoposto a uno screen per identificare la sua posizione politica, cosa vota e cosa pensa. Ma per come suona, per le cose che gli piacciono e per gli ascolti che ha, pensare che non sia un uomo profondamente progressista, libertario, di sinistra, democratico e antifascista è impossibile. Non si può suonare e ascoltare il nostro repertorio, o vivere come Mattia vive la sua vita di musicista, e votare Fratelli d’Italia. È inconcepibile. Non riesco a immaginarlo. La sintonia è umana, prima di tutto. Noi cercavamo una persona che potesse farci sentire a casa. Saremmo potuti ricorrere a un professionista qualificato, magari con tempi tecnici più veloci, e magari avremmo lavorato meno. Probabilmente nel giro di due settimane avremmo riarrangiato e sistemato tutto con una certezza superiore del risultato, ma non era quello che cercavamo”.

E anche se provare con un altro musicista che non fosse Enrico, nel ruolo di chi si deve occupare di cose così complicate che, a detta di Collini, nemmeno Enrico stesso, a volte, sapeva spiegare come facesse, non è stata un’operazione immediata, i risultati non sono tardati. “L’unico obiettivo che avevo era di conferire la giusta dignità ai pezzi e prepararli in modo adeguato”, sottolinea Max, “evitando di proporli in una veste o una produzione non convincente o non consona rispetto alla nostra storia, in linea con quello che siamo sempre stati: un gruppo rigoroso, in grado di portare sul palco sempre il miglior concerto possibile. La prima cosa che abbiamo detto nel momento in cui abbiamo rimesso insieme la band è stata di metterci in condizione di non arrivare alle prime date impreparati o non convinti di quello che stavamo facendo”.

Nel frattempo, altre cose sono cambiate, e non solo per i fan degli Offlaga. “Com’è suonare al tempo di Giorgia Meloni? Non ne ho idea”, ammette Max. “Noi siamo una cosa talmente differente da ciò che rappresentano la politica e la società oggi da risultare una bolla, al di fuori del paese reale, nella sua complessità. Quello che spero è che gli Offlaga e chi li segue siano una sorta di virus in grado di mettere in qualche modo in discussione lo stato di cose esistente”.

Se, come me, di quella bolla avete un abbonamento a vita, anche solo honoris causa, avrete assistito al culto di cui le canzoni degli ODP sono state oggetto sui social da quando i social si sono diffusi. Pochi artisti, in Italia, possono vantare versi così efficaci da entrare nell’uso comune e alimentare citazioni o meme. A me vengono in mente Elio (per ragioni diametralmente opposte), i CCCP, Calcutta e Max Collini. Parole ricche di situazionismo poetico, in grado di cristallizzare eventi e attitudini. Questo significa cogliere nel segno e penetrare nella cultura.

Negli otto anni e mezzo in cui siamo stati sulla scena abbiamo dato voce a una nicchia”, continua Max. “Negli anni zero, quando facevi cinquecento persone a Bologna eri già un fenomeno di tutto rispetto. Questo prima di Calcutta, che ha decuplicato il pubblico dell’indie italiano. Il lessico di Socialismo Tascabile nel 2005 risultava desueto, maneggiato con molta autoironia, e paradossalmente ha incuriosito generazioni successive a quella cui invece pensavamo di rivolgerci. Da allora gli Offlaga si sono evoluti, anche nel modo di scrivere i testi. Bachelite Gioco Di Società, sotto questo punto di vista, non sono sovrapponibili al primo album. Un cambiamento che però non è avvenuto per una scelta estetica a monte. Eravamo cambiati noi, era mutata la consapevolezza di quello che facevamo, io stesso non volevo raccontare le stesse cose nello stesso modo. Per questo, dal punto di vista lessicale e semantico, nei testi di Gioco Di Società, che è arrivato sette anni dopo, c’è qualche affinità con i precedenti ma sono evidenti anche molte divergenze. La voce e il tono sono gli stessi, ma sono cambiate un po’ di cose. Forse sarà per questo che Socialismo Tascabile si è consacrato il disco più amato degli Offlaga”.

C’è un momento dell’anno in cui, puntualmente, gli Offlaga tornano alla ribalta. Ogni 2 agosto, anniversario della strage di Bologna, la canzone “Sensibile”, forse il brano con il significato più forte di tutto il loro repertorio, viene ampiamente condivisa sui social. Ma il video che circola e va per la maggiore non è ufficiale e, a differenza dei (pochissimi) video della band,  sembra banalizzare il tema trattato. Non sarebbe il caso di pubblicarne uno ufficiale, in modo da risolvere la questione alle radici?

No”, su questo Max non ha dubbi. “Siamo sempre stati attenti a non risultare didascalici, e realizzare un video su un argomento così controverso, in un momento in cui i videoclip sono prodotti superati, non avrebbe più lo stesso impatto di allora. Il video non ufficiale che circola è pieno di ingenuità. C’è da dire che non siamo mai stati inappuntabili nemmeno noi nella scelta dei singoli, “Robespierre” a parte. Non siamo mai riusciti a individuare il brano più forte negli altri album, che in Bachelite è sicuramente “Sensibile”, molto più di “Ventrale” e “Onomastica”, e in Gioco Di Società è “Piccola storia ultras”, più di “Parlo da solo” o “Respinti all’uscio””.

Canzone che, su tutte, è accompagnata dal mio video preferito.

Il video di “Respinti all’uscio” è stato interamente pensato e realizzato da Enrico, grazie all’archivio messogli a disposizione dalla nostra televisione locale, TeleReggio. Lì Enrico ha trovato pochissimo materiale utilizzabile del concerto dei Police, così ha pensato di integrarlo con riprese di riempimento tratte dai telegiornali dell’epoca. Senza saperlo, ha scelto immagini che mi riguardano, a partire da un corteo di studenti dell’8 marzo in cui ho riconosciuto i miei compagni di militanza della FIGC e una mia fidanzatina dell’epoca. Il tutto, ripeto, in modo involontario. La prima volta che l’ho visto, e tieni conto che allora Enrico stava bene e non c’era nessuna avvisaglia o pericolo per il futuro della band, ho pianto dalla commozione e dalla contentezza. L’ho trovato centratissimo, bellissimo, con un gusto perfetto per quel tipo di montaggio e nel modo di raccontare la città. Ed è allo stesso tempo la perfetta nemesi del video di “Parlo da solo”, realizzato da Luca Lumaca, un bravissimo videomaker nostro amico, in cui, visto da qui, emerge invece una città che ricorda Reggio durante il lockdown. Un panorama urbano abbandonato in cui un’automobile si muove lungo vie deserte, e sullo sfondo solo edifici senza traccia di esseri umani. La città contemporanea, desolata e spopolata, in contrapposizione alla Reggio degli anni 80, piena di gente, di vita, di fermento e di gioiosa confusione”.

Un altro momento in cui mi si ripropongono ciclicamente gli Offlaga Disco Pax è il mese di febbraio, per motivi indubbiamente meno nobili. Ogni anno mi approccio a Sanremo con una fantasia perversa, quella di trovare, nella serata dei duetti e delle cover, gli Offlaga Disco Pax accompagnare uno dei concorrenti del festival nell’esecuzione di uno dei loro brani. Nell’anno di Lucio Corsi, un outsider un po’ come loro, ho chiesto a Max con quale artista italiano vorrebbe condividere il palco dell’Ariston e con quale titolo.

Sarebbe senz’altro un concorrente suicida, o almeno un amante del pericolo. Ci vorrebbe un artista che allo stesso tempo fosse da Sanremo ma che avesse con noi almeno un’affinità umana, se non personale. L’unico che mi viene in mente in questo momento, per attitudine e anche perché con lui ho già diviso il palco qualche anno fa, in un concerto per Enrico Fontanelli organizzato alla Flog di Firenze per i 30 anni del Rock Contest, è Dario Brunori. Abbiamo eseguito insieme una versione abbastanza curiosa e con accento calabrese di “Dove ho messo la Golf”. Il problema è che Brunori non è matto e non chiamerà mai gli Offlaga a duettare con lui”.

Non vi nascondo che io speravo invece in una versione di “Lungimiranza” con Ligabue e Vinicio Capossela.

Ah certo, quei due vengono di sicuro. Ipotesi molto suggestiva però, a prescindere dalla nostra disponibilità, Ligabue non farà mai Sanremo, Capossela ha già partecipato con Giovanni Truppi, ma comunque nessuno dei due ci chiamerebbe mai. Sono un grande fan di Lucio Corsi, ma il suo immaginario di riferimento non è sovrapponibile a quello degli Offlaga. Ma chi è che ha un immaginario di riferimento sovrapponibile al nostro? Più probabile che invece uno come Manuel Agnelli possa assegnare la cover di “Robespierre” a un concorrente di X Factor, questo non lo escludo. Resta il fatto che Sanremo è fuori dalla nostra portata. L’unico brano degli Offlaga che potrebbe avere un senso al Festival è “De Fonseca”. Una canzone che parla d’amore e non di politica, nonostante il brand citato che è una cosa che non piace agli organizzatori, anche se dall’avvento della trap e del rap le cose sono un po’ cambiate e grazie a “Minchia signor tenente” di Faletti si sono aperte le porte al parlato sulle canzoni. Ma Sanremo non è il nostro mondo. Mi piace seguirlo perché è uno spaccato della società italiana e per parlarne male, ma anche bene. Quello che ho apprezzato di quest’anno è vedere tre cantautori, tutti e tre sul podio, alla faccia degli autori che firmano qualunque canzone possibile e immaginabile. I primi tre posti occupati da artisti che si sono scritti da sé i loro brani. Un bel segnale verso le catene di montaggio delle case discografiche”.

Volevo raccontare un’ultima cosa a Max Collini, ma dovevamo chiudere l’intervista, così la scrivo qui. Anni fa ho acquistato una maglietta sbagliata, che è una linea di t-shirt illustrate con vistosi abbinamenti grafici e concettuali consapevolmente paradossali, principalmente in ambito musicale, frutto di un’idea geniale del mio amico ed ex collega Dietnam. Il modello che avevo scelto era quello con l’iconica onda del pulsar di Unknown Pleasure con sotto, al posto della scritta Joy Division, il nome dei Nirvana. Qualche settimana dopo ho notato una foto proprio di Max Collini davanti al microfono con la stessa maglietta. Aveva condiviso l’immagine sul suo profilo Facebook, e ricordo benissimo che c’era gente che non aveva capito e commentava stupita il grossolano qui pro quo. Ma come, uno come il cantante degli Offlaga Disco Pax, che sa chi è Mark Lanegan, non conosce i dischi di due band così importanti e si lascia trollare in questo modo?

Poche settimane dopo ci sarebbe stata una serata del progetto Spartiti, quello di Collini con Jukka Reverberi, al Carroponte di Sesto San Giovanni. Avevo già visto due volte gli Offlaga proprio nella stessa location. La prima, ricordo, avevo portato con me mia figlia, quella della foto con il Microkorg. Prima del concerto, in prossimità del palco, c’erano dei saltimbanchi che vendevano delle palle da giocolerie. Mia figlia, quell’estate appassionatissima di bandiere, aveva chiesto di comprare il set con i colori dell’Ucraina. La questione del Donbass, per non parlare di Zelens’kyj e della guerra con Putin, era ancora lontana da arrivare, e quegli artisti di strada si erano semplicemente sorpresi della competenza in geografia di una bambina delle elementari. L’abbinamento dei colori con cui realizzavano gli oggetti per i loro numeri era del tutto casuale, per non parlare della totale involontarietà di un richiamo nei confronti di qualche nazionalismo ancora latente. Alla data di Spartiti, anni dopo, mi ero invece presentato da solo, con un anticipo prudentissimo. Avevo persino incrociato Max Collini a spasso per il parchetto che circonda il Carroponte. Max aveva notato la maglietta sbagliata come la sua che avevo indossato per l’occasione, commentando la cosa con una battuta.

C’è un’altra parte piuttosto curiosa di questa storia, che più o meno coincide con il finale. Ho messo e lavato quella maglietta in cui Ian Curtis e Kurt Cobain condividono lo stesso logo innumerevoli volte, fino a scolorirla e a renderla inutilizzabile. L’anno del lockdown, era il 2020 e in estate sembrava che il virus ci avesse concesso una tregua, ho chiesto a mia suocera novantenne, tutt’ora in gambissima, di ricavare una mascherina anti-covid ritagliando la parte della maglietta con il disegno del pulsar. Ne avevo vista una identica su Instagram e mi era sembrata una buona idea. Le mascherine in cotone non erano il massimo dal punto di vista della prevenzione ma potevano comunque essere indossate nelle situazioni meno a rischio.

Le ho mostrato il disegno sul davanti della t-shirt e mi ha confortato sapere che ci fosse sufficiente tessuto per ricavarla. Quella occasione ha dimostrato che mia suocera non è una fan dei Joy Division, malgrado ai tempi del loro blasonatissimo disco d’esordio fosse più giovane di me nel momento in cui le ho fatto questa richiesta da adolescente. Non essendo riconducibile propriamente al movimento post punk/new wave, mia suocera ha infatti utilizzato lo scampolo della maglietta ma con il disegno ruotato di 90 gradi in senso anti-orario, con le celebri pulsazioni elettromagnetiche messe in verticale anziché in orizzontale, forse pensando che l’orientamento non avesse importanza. Avevo dato per scontato che avrebbe realizzato la mascherina come la maglietta, ma in realtà il modo in cui posizionare le onde era un’istruzione necessaria. Il disegno messo per così risultava dissacrante e iconoclasta in eccesso, e la mascherina ovviamente non l’ho mai utilizzata. Malgrado ciò, non ho fatto notare l’errore a mia suocera, che anzi avrebbe potuto lanciare una linea di mascherine sbagliate. La morale è che le persone anziane non sono in grado di cogliere l’amore per il rock dei giovani come me e la serietà con cui prendiamo cose come queste.

tracodays 2025

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Con l’evento di questo pomeriggio, la cerimonia conclusiva e il conferimento del premio “Miglior sito in WordPress realizzato seguendo le linee guida che vi ho insegnato durante il corso che ho tenuto io”, si chiude l’edizione 2025 della “Settimana della Vanagloria”, quel periodo dell’anno in cui si concentrano svariate opportunità di visibilità che prendiamo come tali solo perché siamo in sentore di primavera e abbiamo i feromoni dell’hybris a palla, ma che non sono né più né meno che le stesse inutili interferenze all’ordinarietà a cui siamo esposti nel resto dell’anno ma mal interpretate. Un’edizione che quest’anno ha incluso 1. la partecipazione a svariati progetti scolastici previsti dal PNRR che ci hanno ancora di più fatto sentire indispensabili nel nostro ruolo di collaboratori nell’organizzazione in cui operiamo, riempiendo a tappo le giornate lavorative nonostante non si sia visto ancora il becco d’un quattrino, 2. quindi il corso di cui sopra, fonte almeno della più cospicua carica di autostima grazie a colleghi partecipanti grondanti di passione e umanità, 3. addirittura un’intervista a uno dei principali esponenti della scena musicale indipendente nazionale che non si è inculata nessuno 4. e, vera chicca di quest’anno, il fugace coinvolgimento nella revisione di un importante documento ministeriale in ambito didattico di cui non resterà traccia alcuna se non nella vulgata familiare, ma a pensarci bene, nemmeno quella. Spenti gli ultimi impeti di boria dall’anticiclone di realtà, e terminate le operazioni di rimozione dei residui di superbia, a partire da domani rientreremo nella solita annosa quaresima dell’umiltà radicale, con alunni che ci tossiscono in faccia senza mettersi la mano davanti alla bocca o vanno in bagno a pisciarsi sulle stringhe slacciate per poi chiedere aiuto per legarsi le scarpe, mentre fuori la consueta “bella” tra virgolette stagione ai tempi del cambiamento climatico infliggerà le sue piogge fino a giugno inoltrato, depredandoci ancora una volta di tutte le giornate più lunghe e più incantevoli. Nessuna anticipazione, al momento, per il prossimo appuntamento dedicato agli appassionati del vittimismo passivo-aggressivo, a parte lagnarsi su un blog, che comunque si stempera un po’ di rosicamento e si affrontano meglio le bollette che verranno o altre occasioni sfumate per aver dimenticato il telefono in modalità silenzioso.

l’ultimo chiuda il finale

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Quella di lasciare il finale aperto nei film è una tecnica molto diffusa. Le prime volte gridiamo al miracolo creativo ma poi, dopo tre o quattro pellicole in cui cominciamo a innervosirci perché sembra che non si riesca mai a concludere un cazzo, la riconduciamo a quei registi che non vogliono prendersi la responsabilità di mettere la parola the end prima dei titoli di coda. Il non detto all’inizio, nel corpo e in coda alle trame è un espediente narrativo formidabile. Avete capito cosa intendo. Finisce un capitolo in cui c’è un parente stretto del protagonista che scopre di avere un male incurabile e quello dopo comincia con un dialogo in cui qualcuno ricorda con qualcun altro un aneddoto tratto dalla vita del defunto. Lo scrittore ha così eluso l’onere di dover descrivere il decorso, la morte, la sofferenza del paziente e quella dei familiari, lasciando così al lettore – o allo spettatore nel caso di trasposizione cinematografica – il peso dell’immaginazione dei passaggi più complessi, riservando per sé le parti meno impegnative. Esiste anche una tecnica di improvvisazione jazz che rimanda in parte a questo modo di fare in cui sono gli omissis del tema a fare da padrone. Insomma, mi sembra un modo per aderire alle realtà inventate di tutto rispetto. Ci ho pensato qualche giorno fa, quando per la prima volta ho letto con attenzione una specie di manifesto del lettore apposto all’ingresso della biblioteca della scuola in cui insegno. Una lista di articoli, forse un decalogo, non li ricordo proprio tutti. Però al secondo posto si sanciva il diritto per chi legge di saltare una pagina. Poteva andare peggio: poteva esserci scritto di strapparla, come chiedeva uno degli insegnanti più rivoluzionari della cinematografia di tutti i tempi. Il comandamento numero due di quella tavola bibliologa, più che biblica, mi ha fatto riflettere molto sull’uso non pertinente, per non dire sull’hacking, di un oggetto come un libro, in cui l’elemento cardine è la parola e la concatenazione delle stesse e non invece il supporto cartaceo. Se compro un tavolino all’Ikea e monto tre gambe anziché quattro perde la funzione per la quale è stato pensato. Piuttosto allora meglio quelli che cancellano parole stampate dalle pagine in modo che ciò che resta leggibile formi una poesia, c’è qualcuno in rete che si atteggia a paladino di questa forma artistica. Vi sarà chiaro che nella vita vera tutto questo non si può mica fare, altrimenti quante volte avrei evitato appuntamenti importanti per trovarmi subito dopo forte dell’esperienza che da qualche parte – forse in un copione universale – risulta comunque effettivamente vissuta. Oppure quanti giorni di scuola avrei saltato semplicemente non vivendoli, risparmiandomi al contempo i gravosi quanto improbabili tentativi di falsificazione della firma di mia mamma sul libretto delle assenze. E precludersi la fine è l’esperienza peggiore di tutte. E sapete perché?

mirko

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Quel tizio là fuori ha i capelli rosa e, quando gli passo a fianco, noto un piccolo tatuaggio ripetuto su entrambe le tempie. Non mi soffermo a lungo a osservarlo, non vorrei cacciarmi nei guai – cazzo c’hai da guardare? – ma mi sembrano dei disegni a forma di saetta dalla punta convergente verso gli zigomi proprio come quelli che compaiono nel menu a tendina di Google Presentazioni cliccando su inserisci -> forma. Non ci sarebbe nulla di male se non mi trovassi all’uscita della scuola primaria in cui insegno, in mezzo a decine di genitori e bambini urlanti, e l’uomo dalla chioma che sembra un livello di Candy Crush non avesse quarant’anni e fosse il papà di una mia alunna, la seconda di quattro figli di cui l’ultimo di poco più di un anno, lo vedo in braccio alla madre quando c’è lei a prenderla. Alla consegna delle pagelle, che ora si chiama informazioni quadrimestrali alle famiglie dato che, nell’era del registro elettronico, le pagelle non si consegnano più e da un bel pezzo, è stata lei a dirci che con il marito, poco prima di natale, hanno risolto la faccenda. Erano in crisi e pensavo che alla fine il buon senso avesse prevalso. E infatti è successo proprio così, ma non nel (buon) senso che intendevo io. Il marito non vive più con loro e la notizia mi ha lasciato un po’ così, nel senso che non sono certo un bacchettone e la cosa importante è la serenità dell’ambiente famigliare in cui crescono i figli, non occorre certo fare i moralisti. Di sicuro è che forse era meglio accorgersene prima di cagarne fuori quattro. Così, appena rientrato a casa, ho acceso il pc e ho guglato il nome del padre della mia alunna. Ho scoperto – aspetto che almeno giustifica il suo look, non certo il suo comportamento – che il motivo per cui sfoggia i capelli colorati con quella tinta pugno in un occhio è che è un componente della band dei Bee Hive. Non so sinceramente al posto di chi sia subentrato, non li seguo più da tempo, di certo non si tratta di Satomi o di Mirko, i membri principali, nel caso si sarebbe venuto a sapere. A vederlo da vicino sembra più un batterista. Se avete seguito le loro vicende, come tutte quelle delle rock e pop star, anche nei Bee Hive c’è stato qualche problema riconducibile alla maledizione di Montezuma, come la chiamava la mia amica Ale, quel fenomeno in cui la compagna/il compagno o fidanzata/fidanzato di una/un musicista si innamora di un altro/a membro del complesso, generando conseguenze a domino e mettendo l’intero progetto a rischio di sopravvivenza. Questo per dire che forse è stata invece la madre della mia alunna a mollare Matt – si chiama così il batterista dei Bee Hive – per mettersi magari proprio con Mirko, quello con i capelli giallorossi, perché nel frattempo si è lasciato con Licia che è tornata con Satomi, quello con i capelli viola. Di certo nessuno dei loro figli ha i capelli blu, tantomeno la mia alunna, questa è l’unica cosa che so di sicuro.

cosa dici

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Avete mai visto la faccia che fanno le cose che non ti servono quanto apri lo sportello di un pensile della cucina o un cassetto e quello che cerchi è da tutt’altra parte? Loro lo sanno che ti occorre, faccio un esempio, il lavainsalata. Cose come la passata di pomodoro o il cibo per gatti sono in grado di leggere nel pensiero degli esseri umani e si scambiano certi sguardi tra di loro al cospetto dell’espressione da vecchio rimbambito di chi ha spalancato la porta della dispensa, come a dirsi questo ormai è bello fuori, ce lo siamo giocati. Il lavainsalata è nella madia poco prima dello sgabuzzino e non è certo il tipo che ti avverte avvisandoti a voce alta che la direzione era quella giusta ma ti dovevi fermare un po’ prima. Le cose più possono esimersi dai lavori per i quali sono state costruite meglio è, in più fanno i dispetti ma adesso che abbiamo una certa età non c’è nemmeno il bisogno di scambiarsi di posto tra di loro, per non parlare della storica alleanza che stringono con le mogli per stravolgere a piacimento la destinazione d’uso di armadi e contenitori. Ora, grazie a una sinergia tra Intelligenza Artificiale e Internet Of Things, una parte di questo disagio per gli esseri umani di sesso maschile in età avanzata è stato finalmente vinto. Un po’ come succede con Alexa, grazie all’assistente virtuale Mrs. Bric installata su tutte le cose sono le cose stesse ad avvisarci quando sono loro che ti servono quando apri cassetti o armadi e non ti ricordi perché l’hai fatto. Mrs. Bric ormai è uno strumento di cui non posso più fare senza. Ha la voce di Angela Landsbury – proprio come il personaggio originale del film Disney – ed evita noiose perdite tempo. Stamattina ho spalancato lo sportello del pensile dedicato alla colazione. Mi occorreva il caffè solubile decaffeinato ma, come al solito, si era nascosto chissà dove. Uno scherzo inutile. Nel metro di tragitto tra il tavolo e il mobile della cucina avevo già dimenticato cosa dovessi fare. Sapevo che c’entrava con il latte nella tazza, così stavo per agguantare il il barattolo per la moka ma Mrs. Bric è entrata subito in funzione, facendo parlare appunto la confezione di macinato per avvisarmi dell’equivoco. Oramai nelle case delle persone anziane risuonano voci da ogni dove di oggetti che cercano di fornire aiuto, non tutti le sentono e non dovete preoccuparvi per chi dice, invece, di gradire l’opportunità di conversare con cose e ambienti. Non c’è nulla di folle in tutto questo, è tutto sotto controllo.

Phonetics On and On – Horsegirl

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Meno è decisamente di più. La sottrazione, in musica, si conferma un atto creativo prima che un necessario istinto di sopravvivenza. Un impeto che non si alimenta necessariamente dell’auto-consapevolezza dell’inadeguatezza tecnica, almeno non sempre. Nell’ampia forbice degli esiti di questo effetto, sopperire a quel poco che si sa suonare con il gusto può dare vita a prodigi di assenza, celebrazioni della privazione del non necessario, culto del riempimento del superfluo con adeguate porzioni di vuoto. Un approccio e un’attitudine, prima che una corrente stilistica, che non coincide affatto con il minimalismo, che – per dirla in modo grossolano – è materia sottile ma così pervasiva da insinuarsi dappertutto. Qui invece rimane lo spazio da cui contemplare l’estro, con tutti i riverberi che il vuoto comporta.

La musica delle Horsegirl è una riduzione ai minimi termini dell’indie rock anni 90. Un concentrato, attenzione, mica un surrogato. Perché alle canzoni di Phonetics On and On proprio non manca nulla. C’è la batteria, un set essenziale suonato con una precisione metronomica ma senza un colpo superfluo. Ci sono giri di basso sobri ma efficaci e a loro modo trascinanti. Ci sono chitarre asciutte e riff concisi che lasciano comunque il segno. E le melodie sono cantilene, scioglilingua, lallazione. I testi, poi, non ne parliamo. La prova provata che la musica è principalmente mentalità, è cosa intendi per musica. Non importa come sai suonare ma l’atteggiamento a cui muove l’essere umano l’avere uno strumento a tracolla.

Tra le righe di Phonetics On and On emergono i più diffusi cliché di quel  genere lì. Il contegno svogliato, il distacco dissimulato, la staticità dei corpi volutamente in contrasto con l’impeto che suscita la danza quando la musica ti prende, in questo caso fuori discussione perché il cliché impone proprio che la musica non ti prenda mai, la catatonia espressiva e certe posture stesse esaltate al ribasso da un abbigliamento talmente di scarto (tutt’altro che indecoroso) da fare il giro.

Anche senza guardare i loro video, indovinare tutto questo partendo dalla musica e lasciandosi condizionare dai facili biechi pregiudizi che riguardano questo genere di progetti musicali, è scontato. Tutto ciò che chi apprezza la musica rock suonata secondo metodi universalmente riconosciuti come standard detesta. L’outfit fai da te, lo sguardo indolente, come a dire che lì, nei video e nel successo, mica ci vorrebbero stare.

Ma poco importa. La storia di Nora Cheng, Penelope Lowenstein e Gigi Reece la conosciamo. Tre migliori amiche tra di loro che hanno costituito una band. Nel primo disco erano liceali a Chicago. Ora frequentano l’università a NYC. Basta questo, un contratto con la Matador e una produzione di Cate Le Bon a farle sentire musiciste davvero cool. In studio e sul palco dimostrano di saper giocare con la sperimentazione e si esprimono con uno stile in grado di rendere al meglio la naturalezza con cui scrivono le loro canzoni.

È per questo che le tracce di Phonetics On and On non potrebbero esser state composte che dalle Horsegirl. Intrecci e arrangiamenti deliziosamente elementari che fanno da background a una sorprendente laconicità delle liriche, talvolta frasi ripetute uguali lungo il brano o semplici coretti che scandiscono i ritmi e i passaggi scelti per restituire alla meglio il vissuto di tre ragazze musiciste, nel pieno della loro giovinezza. Il meglio della loro vita, la vita nel momento migliore, e ovviamente l’amore. Il tutto reso con la tenerezza, l’ingenuità e l’immediatezza di chi si affaccia con personalità nel mondo dell’arte. Phonetics On and On, rispetto al disco d’esordio, risulta un passo in avanti verso la maturità, una scelta tutt’altro che improvvisata di farsi rappresentare da uno stile che, fortunatamente, non passa mai di moda.

d’istinto

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Tutto da rifare. Da questo quadrimestre tornano i giudizi sintetici alla primaria, nella scala che va dall’ottimo giù fino al baratro dell’insufficienza. Basta quindi con i livelli. Ogni materia avrà una valutazione unica, chiara ed efficace. La precedente modalità è durata sin troppo. Era stata introdotta durante il Covid, mentre facevamo lezioni su Google Meet e i miei bambini della prima di allora si erano trovati costretti a imparare, nel giro di qualche giorno, come si avvia un pc, come si inseriscono le credenziali, come si accede alla app, come si seguono le lezioni a distanza, come si attiva e si disattiva il microfono, quali sono i tempi della DAD e, in genere, come ci si comporta se sei a casa da solo ma dentro allo schermo c’è una classe intera divisa in quadratini che ti ascolta. Tutto questo, ribadisco, in prima.

Erano giusto cinque anni fa, proprio di questi tempi, anzi in queste ore. Una triste ricorrenza, e l’aver spazzato vita uno dei pochi strascichi rimasti – dopo le mascherine, le vaccinazioni e il distanziamento sociale – probabilmente sarà d’aiuto a rimuovere tutto il male che il lockdown ci ha provocato. L’esperienza della valutazione descrittiva dei livelli di apprendimento di ogni singola materia, al contrario, non è stata poi così negativa. Poter raccontare a studenti grandi e piccini e ai loro genitori le considerazioni di noi insegnanti sul loro percorso didattico, lavoro dopo lavoro, per me è stata un’opportunità efficace per non assumermi l’odiata responsabilità di cristallizzare in un valore una prestazione. Una cosa che non sono assolutamente in grado di fare. Ogni errore va contestualizzato, allo stesso modo in cui ogni risposta corretta è a sé. Certo, argomentare tutto questo comporta impegno, dedizione, attenzione e tempo indipendentemente dalla classe in cui il docente opera. In prima primaria ci sono mille osservazioni da fare, tanto quanto in una quinta liceo occorre essere convincenti al cospetto di un pubblico già adulto. Aspetti diversi, chiaro, ma la questione non cambia. A scrivere ottimo, distinto, buono e discreto ci vorrà invece un attimo. Un soffio. Noi insegnanti italiani torneremo così finalmente ad avere tutto il tempo libero che ci compete, secondo la narrazione mainstream. L’importante è che siate contenti voi.

Cowards – Squid

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Se avete presente cosa succede a un certo punto di “Narrator”, terza traccia di Bright Green Field, mi riferisco proprio alle urla furibonde di Martha Skye Murphy, ospite nel brano, che (come d’altronde recita il testo in quell’angosciante decorso della canzone) fa davvero la sua parte, potete immaginare lo stato d’animo con cui, da allora, approccio ogni nuovo album degli Squid e le canzoni che lo compongono.

Metto il disco ma vivo il disagio nella convinzione che qualcuno, lì dentro, possa uscire di senno. Ascolto le canzoni con l’ansia che si arrivi a un punto in cui la situazione di nuovo sfugga di mano alla band e si avveri il mio incubo peggiore: il giradischi posseduto da chissà quale entità e quelle grida di disperazione dirette a me, l’invocazione di un incantesimo in grado di farmi sprofondare in un’altra dimensione, o anche solo un severo monito sul fatto che (per usare una metafora) basta un fottuto granello di polvere in un solco per causare un patatrac.

Insomma, metto un disco degli Squid e non mi sento per nulla tranquillo e non è la prima volta, perché la cosa è degenerata. Dirò di più. Sono talmente ossessionato che dopo decine o centinaia di innocui ascolti dei primi due album vivo tuttora nella paura che qualcosa possa cambiare rispetto all’ascolto precedente. E cioè che, rispetto a quanto registrato, qualcuno di botto cominci a suonare e cantare diversamente e, accorgendosi della mia vulnerabilità, sferri il suo colpo letale. Altro che film di Cronenberg. Altro che ascolti al contrario. Passare ad altro? Mai. E poi Cowards, l’ultimo lavoro degli Squid, nasce dedicato espressamente al male. Cosa potrebbe andare storto?

È fuori di dubbio che la prima vittima di questo male progettato da Ollie Judge (voce, batteria), Louis Borlase (chitarra), Anton Pearson (chitarra), Laurie Nankivell (basso) e Arthur Leadbetter (tastiere) sia l’idea di musica che pervade il presente e che, per convenzione sociale, riconduciamo alla musica in sé. Con Cowards gli Squid lasciano un’impronta perfettamente corrispondente alla versione consolidata del genere che professano, uno stile che non ha nome ma è così oltre che lascia ampi margini di fraintendimento. La consueta alternanza di parti e tempi diversi (pari e dispari) eseguiti con una tecnica inappuntabile che richiama a quel misto di progressive-punk, kraut-wave, heavy-folk, art-rock, easy-drone e math-fusion tutto loro, grazie al quale non temono confronti. Il tutto ad accompagnare racconti in cui i protagonisti sono costretti a raccapezzarsi tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, in situazioni a dir poco non proprio edificanti.

E nelle nove tracce di Cowards gli Squid spingono se possibile ancora più all’estremo la tensione, veri maestri nell’arte di tendere trame per mollare il colpo un istante prima che si strappino, senza mai risolvere in nulla. Sono insuperabili in quel gioco in cui ci si sporge a occhi chiusi sino al limite del parossismo per poi fare un passo indietro in prossimità del baratro e ritrovarsi sani e salvi, anche se, davvero, parlare di certezze è totalmente fuori luogo. In Cowards è la canzone “Blood on the boulders” ad aggiudicarsi il primato di chi rischia di più, vicino all’abisso.

In tutto il resto del disco, gli Squid si confermano i più convincenti esploratori dell’avanguardia musicale, quella credibile, quella che condivide opere con un capo e una coda e in mezzo nulla di tutto quello che conosciamo. Nel disco c’è persino il clavicembalo che accompagna il flauto all’inizio di “Fieldworks I”, apoteosi dello stile supponente di Ollie Judge che fa subito pentire di averci pensato, a chiunque alzi la mano per citare certe sonorità in quota Charisma, per non parlare dell’orchestrazione da brivido, altrettanto progressive, nel brano gemello, “Fieldworks II”.

La title track si distingue invece per l’incessante rumore di archi di fondo nella parte introduttiva, preludio a un improbabile sviluppo pop con un rassicurante tema di tromba doppiato da un coro. Onde sonore che sfociano in un lago armonico, in cui le contrastanti personalità della canzone inevitabilmente si mescolano. C’è poi “Showtime!”, brano che alterna una pseudo-strofa in 6/8 a un pseudo-ritornello regolare, porzioni propedeutiche alla seguente orgia di rumori naturali ed elettronici, strumenti ad arco e chissà cos’altro, una situazione che sembra precipitare per poi essere recuperata in extremis da un crescendo ritmico che culmina in un trascinante breakbeat dai toni paradossalmente contenuti, compressi, altra disciplina in cui gli Squid sono maestri indiscussi. Inutile sottolineare come il brano finisca come tutti gli altri, come se nulla fosse, come se non fosse successo niente, come se qualcuno avesse desistito da una lotta per manifesta superiorità nei confronti dell’avversario.

Anche la lunga “Well met” parte con un bel rumore, questa volta con le sembianze di un bordone a una cantilena accompagnata dalla sezione fiati e da una sequenza di clavicembalo rivestito da sintetizzatore, preludio a uno sviluppo in 9/8 popolato da voci femminili che doppiano, con un sussurro, la melodia. Troviamo anche temi e stacchi fusion che crescono in modo epico e sontuoso, e non ho dubbi a sostenere che non ci sarebbe stato modo più emozionante per concludere un disco di questo tipo. Come del resto non ho difficoltà ad ammettere che Cowards sia uno degli album più artificiosamente complicati che mi sia mai trovato ad apprezzare.

Dai primi istanti del disco, l’involontaria citazione di sequencer di “Baba O’Riley” in “Crispy Skin”, fino alle percussioni metalliche giocattolo della coda dell’ultimo brano, non c’è momento in cui non abbia pensato di trovarmi al cospetto di un’opera pazzesca, una pietra miliare in potenza della musica universale, pronta a manifestarsi in tutta la sua magnificenza. Una serie di composizioni da seguire senza fiato fino ai titoli di coda, quando non è difficile leggere tra le righe che nessun ascoltatore è stato maltrattato nel corso della riproduzione della tracklist.

Nel mio caso, pure l’impianto hifi è sopravvissuto. Ancora una volta, siamo giunti alla fine di un disco degli Squid incolumi. Ma, ragazzi, che botta.