Furono i Lost a meritarsi il premio di vincitori morali della serata, grazie alla loro esibizione di una manciata di cover dei Ramones. Nulla di strano, se non fosse che quello non era un concorso musicale e, soprattutto, si trattava di un concerto commemorativo per Freddie Mercury, morto qualche giorno prima. Suonare dei pezzi di punk caciarone al tributo in onore della più significativa icona del rock mainstream fu un gesto geniale e irriverente, al limiti del situazionismo, ma a notare la provocazione furono in pochi, tra il pubblico che partecipava distratto sotto il palco. La solita claque di intimi rockettari che seguiva i Lost nei concerti in città e i membri dell’altro gruppo che non c’entrava nulla con il tema della serata, una band che sfoggiava un nome smaccatamente new wave, con l’aggravante di essere degli outsider di provincia.
Suonavamo e ci atteggiavamo un po’ come gli Smiths ma fuori tempo massimo, considerando che il gruppo di Morrissey era già morto e sepolto da quattro anni a seguito di una separazione destinata a non risolversi mai più. Ci trovavamo nelle grazie del presidente dell’ARCI di zona e fu proprio lui a coinvolgerci in quel concerto, non so se per merito, perché ci trovava originali, perché segretamente invaghito del nostro cantante o, ancora, perché non c’erano state abbastanza adesioni e quelli di fuori, come noi, avevano più fame di entrare nel giro degli eventi di città. Una serata di metà dicembre organizzata in fretta e furia in uno dei tanti locali che oggi ospitano un supermercato, una banca o un’altra ragione sociale più redditizia dell’entertainment. Un posto il cui nome curiosamente ricordava il termine che si usa nelle redazioni dei quotidiani per indicare i trafiletti commemorativi che si pubblicano quando muore qualcuno di importante, e che i giornalisti tengono pronti nel cassetto mentre le persone a cui sono dedicati sono ancora in vita, molto vecchi oppure con un piede nella fossa, per essere pronti a divulgare la notizia prima degli altri e bruciare la concorrenza. E anche il tributo dell’ARCI a Freddie Mercury era stato pensato per dare un segnale immediato ai giovani del posto sul fatto che l’organizzazione fosse viva e vegeta, sul pezzo, disponibile a osservare il lutto insieme a chi si sentiva vuoto senza il suo beniamino, o anche solo orfano di una rockstar così ingombrante.
Avevo scelto con cura che cosa indossare per quella serata. Venivo da anni di ossessione per gli indumenti neri e mi trovavo in piena fase di disimpegno per il rigore imposto dai canoni del genere musicale che praticavo con abnegazione sin dall’adolescenza. Ora, al contrario, prestavo attenzione a trasmettere agli altri nel modo più convincente possibile la casualità della scelta dei capi e del loro abbinamento, una non-strategia che anche in quella occasione fece la differenza. Avrei scoperto solo anni dopo che quel concerto avrebbe costituito la serata inaugurale di una fase della mia vita di cui, ancora oggi, non posso che riconoscere l’unicità. Un periodo purtroppo breve ma molto intenso, cominciato con una camicia grigia, pantaloni di velluto chiari e un paio di anfibi, e terminato venti mesi dopo, con il giro di strette di mano al termine della discussione della tesi di laurea. Poco meno di due anni in cui mai più mi sarebbe capitato di muovermi con altrettanta disinvoltura e che, visti da qui, avrei potuto spremere con più decisione e maggior vigore, con l’obiettivo di cogliere ancora più opportunità di quelle che ho portato a casa.
Il concerto commemorativo per il cantante dei Queen a cui ho partecipato con la mia band, anzi, con una delle band con cui suonavo allora, ma che era quella principale, quella il cui nome riportavo con convinzione a chi mi chiedeva di quale formazione facessi parte, coincide con la prima volta in cui baciai Barbara. Mi piaceva Barbara perché era molto bella, e io le piacevo perché Barbara era una persona completamente fuori di testa, attirata dal fatto che anche io sembrassi una persona altrettanto fuori di testa, e fino a prova contraria non esiste nessun’altra spiegazione per cui una ragazza così attraente avesse deciso di dedicarmi così tante attenzioni.
La prima volta in cui ci eravamo notati reciprocamente avevamo trascorso l’incontro inaugurale del primo anno accademico del corso di laurea a cui eravamo iscritti seduti sugli scranni opposti dell’Aula Magna di facoltà a guardarci e mandarci segnali da distante, probabilmente attirati dalle rispettive caratteristiche che ci rendevano unici. Lei oggettivamente fuori dal comune, io seduto tra maschi rumorosi, brutto e strambo ma conciato come il cantante dei Cure, fuori luogo ovunque e soprattutto in quel contesto anche se, era l’86, di fronte a certe manifestazioni di appartenenza a tendenze o movimenti – sempre più musicali e sempre meno politici – le istituzioni e la gente, più per impreparazione che per accondiscenza, chiudevano un occhio. La stravaganza folcloristica, a metà di quel decennio che, ancora oggi, sono in molti a giudicare irripetibile, era nel peggiore dei casi tollerata, quando non considerata un pittoresco valore aggiunto, espressione di indole creativa, di ambizione artistica, di pensiero fuori dagli schemi. Per me, un escamotage per rimorchiare o poco più.
Dopo il gioco di sguardi in Aula Magna, Barbara però era sparita nel nulla. Solo un anno dopo, quando ci incontrammo di nuovo, venni a sapere da altri che era caduta vittima di un forte esaurimento nervoso a seguito di un problema di salute serio. La ritrovai così una mattina, alla ripresa dei corsi nell’anno accademico successivo, ricomparsa dal nulla come nel nulla era svanita esattamente dodici mesi prima, dopo quel muto flirt. Un paio di amici la frequentavano tra una lezione e l’altra in università con la comprensibilissima finalità di concludere qualcosa, così non persi l’occasione di iscrivermi a quella gara a chi ci riuscisse prima ma che, vi posso assicurare, in quel girone preliminare non vide nessun vincitore.
Barbara giocava con la sua apparente disponibilità per poi lasciare chiunque, almeno noi di quel gruppo di studenti frequentanti, a bocca asciutta. In quel periodo, comunque, risultavo fidanzatissimo e potevo puntare sulla scusa della fedeltà e della conseguente indisponibilità quando mi precipitavo a muovere un passo indietro ogni volta, poco prima del momento apparentemente decisivo in cui non era ben chiaro se si sarebbe venuti al sodo o, come invece credevo io, mi sarei preso un più che ammissibile rifiuto, considerato l’oggettivo divario estetico. Barbara ricordava moltissimo una delle più iconiche bellezze dei tempi, la cantante Patsy Kensit, e nessuno capiva che cosa ci facesse nel gruppo di studenti sfigati che frequentava, che comprendeva anche me. Era consapevole del fatto che i maschi di quella compagnia avrebbero fatto qualunque cosa per lei, io in primis, ma sarebbe stato lo stesso altrove. Il punto è che il suo gioco di seduzione, da lì fino al giorno in cui ci baciammo, soltanto quattro anni più tardi, si protraeva sempre pericolosamente un po’ più in avanti, di volta in volta, ma senza risultati. Una specie di sfida a chi ci arrivava più vicino che però vincevo sempre io, rinunciando e tirandomi indietro per il terrore che lei spostasse il volto, sottraendosi al bacio. Una ritrosia che Barbara, non immaginando il mio baratro di timidezza, equivocava per stoica resistenza al suo fascino, più che per manipolatorio sadismo pensato per caricare al massimo la tensione erotica che, settimana dopo settimana, mese dopo mese, sembrava però non esplodere mai.
Le cose cambiarono radicalmente nella primavera del 91, tre anni e mezzo più tardi. Ero stato piantato in asso dalla ragazza con cui stavo da anni, proprio durante il servizio militare – al ritorno da ogni licenza ci si aggiornava, in caserma, sul numero delle vittime lasciate sul campo – e non avevo perso tempo ad avviare un rapporto epistolare con Barbara. Ci spedivamo lettere con tanto di francobolli, avete capito bene, con una certa continuità. Una cosa che suona romantica ai tempi dei social, ma che nella sostanza consolidava le stesse dinamiche tra noi due, con la differenza che ora non sarei stato più soggetto ai sensi di colpa di un eventuale tradimento della persona con cui mi ero da poco lasciato, in caso di capitolazione nel gioco perverso di Barbara. In una busta un giorno trovai persino una sua fotografia decisamente esplicita – sedeva su un motorino al mare con uno striminzito costume da bagno e un’espressione piuttosto provocante, almeno io la interpretai tale – che appesi, come un vero soldato, nel retro dello sportello del mio armadietto in camerata, tra i mini-poster di Robert Smith e di Siouxsie che ritagliavo dalle riviste musicali e che lasciavano sbigottiti i miei commilitoni.
Rientrato a fine agosto alla vita civile e finalmente single, intrapresi un paio di relazioni piuttosto superficiali e, contemporaneamente, Barbara ed io intensificammo, come era prevedibile, il nostro rapporto, ma ancora nella consueta modalità che portavamo avanti da anni – quasi esclusivamente per colpa mia. Trascorrevamo insieme le ore buche in facoltà e frequentavamo con altre persone – tra cui la sua inseparabile amica Michela – locali notturni e club di musica dal vivo. Entrambe presenziavano spesso ai concerti dei gruppi in cui suonavo, non ero per niente possessivo o preoccupato del fatto che qualcuno, tra i miei colleghi musicisti decisamente più prestanti e svegli di me, avrebbe potuto farsi avanti, d’altronde Barbara ed io eravamo solo amici.
Così estesi a lei e Michela, con il consueto approccio fintamente disinteressato, l’invito a partecipare alla serata commemorativa organizzata a seguito della scomparsa del cantante dei Queen, in cui ci saremmo esibiti anche se eravamo determinati a prendere le distanze dal rock di Freddie Mercury. A me e a nessuno dei componenti della mia band piacevano i Queen – li trovo irritanti ancora oggi, a distanza di più di trent’anni – e, al netto del rispetto per il lutto per una rockstar, nessuno di noi si era posto il problema di preparare una scaletta a tema o comunque più pertinente, rispetto al consueto repertorio di brani di nostra composizione che proponevamo. Eravamo un residuato storico degli anni ottanta che non aveva ancora reagito all’urgenza di adattarsi al nuovo decennio agli albori. Intorno a noi la musica si stava radicalizzando e intorbidendo, sia quella inglese che quella proveniente dagli USA. Noi, con i nostri testi in italiano e il nostro sound raffinato ma fragile, troppo plasticoso e poco sincero per quel sottobosco di autoproduzioni e di artisti indipendenti da cui sarebbe nata di lì a poco una scena nazionale straordinaria e irripetibile ma agli antipodi di stili e generi rispetto a ciò che ci rappresentava – e nella quale di lì a poco mi sarei perfettamente integrato – non avevamo ancora fatto mente locale sul modo in cui posizionarci. Grunge, neopsichedelia, britpop, indie-rock, reggae e tutti i derivati dell’elettronica erano stili troppo contigui, cronologicamente, al nostro. Noi appartenevamo a un passato prossimo da cui il pubblico aveva appena preso le distanze, ed era troppo presto per contare sul potere della nostalgia, quella che oggi ci rende così indulgenti su quello che abbiamo vissuto. Il mondo aveva voltato pagina, e toccava a noi adattarci ai nuovi gusti.
La nostra esibizione fu programmata nella primissima parte del concerto, com’è giusto che fosse. La presenza simultanea di più gruppi che devono avvicendarsi sullo stesso palco da sempre comporta una gerarchia da seguire soggetta a una legge non scritta ma che nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione. Prima gli artisti meno conosciuti e via via quelli più noti, secondo un crescendo che impone le proposte più soft a inizio concerto per chiudere poi con il botto conclusivo.
Terminata la nostra scaletta di brani in una prevedibile indifferenza, mi affrettai subito a smontare i miei sintetizzatori e a posizionarli al sicuro dietro le quinte del locale. Mi dedicai quindi alla meritata fase di post-concerto impiegando le consumazioni gratuite che spettavano ai musicisti, bevendo birra e concedendomi alternativamente ai miei compagni di band, ad altri amici presenti e a Barbara, per assistere alle performance degli altri gruppi. I Lost suonarono i pezzi dei Ramones verso la fine della serata, un repertorio che comprese una versione trascinante di “Sheena Is A Punk Rocker” che pogai con il resto del mio gruppo e altri che mi sembrava avessero afferrato il vero significato della scelta, con la dovuta ironia rivolta allo spirito dell’iniziativa a cui stavamo partecipando. Lo spettacolo si concluse poco dopo la mezzanotte con l’esibizione della band più calata nel contesto, un improbabile complesso di temutissimi rockettari hair metal e glam, guidata da un frontman che cantava in modo sguaiato, fasciato in una divisa da cosplayer dell’hard rock comprensiva di pantaloni attillatissimi, soprattutto sul davanti.
Il loro contributo si esaurì come da previsioni, raramente ai gruppi di base qualcuno chiedeva di tornare sul palco per i bis. La serata quindi proseguì con le selezioni del dj residente, che avviò la consueta proposta di brani rock e pop dozzinali (ma sempre meglio della techno e dell’house music), data l’occasione orientata sui pezzi più ballabili dei Queen, come “Radio Ga Ga” e “Another One Bites The Dust”. Mi accommiatai così da Barbara e, con il resto della band, ci avviammo alle automobili con gli strumenti in mano per rientrare a casa. Io ero da solo con la mia Fiat Ritmo – trasportavo un equipaggiamento ingombrante e mi trovavo spesso costretto a muovermi in autonomia – ma, riposte le tastiere nel bagagliaio, anziché mettermi al volante e seguire i miei amici provai l’impulso di dare una svolta alle cose e di rientrare nel locale. Era un momento come tanti altri, non c’era nulla di diverso da prima se non l’assenza di Freddie Mercury e un’esibizione in più nella mia carriera da musicista, che si sarebbe esaurita qualche anno dopo.
Ordinai un’altra media chiara e rintracciai Barbara, che non nascose l’entusiasmo sul fatto che avessi cambiato idea. Continuammo a bere, forse ballammo anche, riprendemmo a stuzzicarci nel solito modo in cui avevamo costruito il nostro stare insieme fino a quando ci sedemmo da qualche parte, lei esausta e vulnerabile in braccio a me. Lì mi decisi di baciarla, e dal suo trasporto mi accorsi che avrei potuto farlo molto tempo prima. Aprivo gli occhi e osservavo i suoi chiusi, spiavo da vicino quei lineamenti che tanto avevo temuto e desiderato allo stesso tempo. Andammo avanti a baciarci senza proferire parola per il resto della sera, che ormai era notte, fino a quando la musica terminò e gli inservienti si diedero da fare per sbattere fuori gli ultimi avventori rimasti, noi compresi. Ci eravamo baciati nella penombra di un locale notturno, e l’accensione delle luci in sala ci indusse a ricomporci e a ristabilire in parte i ruoli che da sempre interpretavamo e che ormai erano sin troppo consolidati, lei di sfida e io di totale disponibilità, ma ormai il giocattolo si era rotto. Ci eravamo baciati per ore, il livello era salito e non sarebbe stato più possibile tornare indietro. Nonostante questa consapevolezza, Barbara ed io ci congedammo tra l’imbarazzo e la sorpresa di quello che era successo. Per fortuna, ci fu possibile dissimulare il nostro stato d’animo con un atteggiamento da sbronza di fine serata.
Barbara e Michela si avviarono fuori dal locale. Per non seguirle ed evitare ulteriori impacci, accennai l’urgenza di dover usare il bagno, prima di partire, ma si trattava di una scusa. Di fronte al lavabo mi guardai allo specchio e mi sciacquai le mani. Tornai nella sala, raccolsi il chiodo su un divanetto e mi apprestai a uscire. Salutai il DJ che aveva messo un cd per non lasciar piombare in un silenzio irrispettoso quel tempio del rock in cui si era appena consumato un vero e proprio rito di suffragio, mentre i baristi e il resto del personale si affrettavano a riordinare e rassettare ciò che era di pertinenza a seconda del proprio incarico. Si diffuse ancora una volta la musica nella sala, un greatest hits dei Queen, non avrebbe potuto essere altrimenti. La storia stava giungendo al termine, al nero che precede i titoli di coda. Mi fermai così a riflettere, come ultima scena, sulle parole della traccia che mi stava accompagnando mentre guadagnavo la porta di uscita, potrei scommettere con una sigaretta accesa tra le labbra. Un brano famosissimo e smaccatamente kitsch, un pezzo che parla di gente che combatte fino alla fine per meritarsi il titolo di campione del mondo.