debite proporzioni

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Il mio medico di base ha lo studio che trabocca di albi di fumetti anni ottanta e quando qualcuno giustamente gli chiede, usando l’ineffabile formula della domanda retorica, se è un collezionista, lui glissa elegantemente sulla risposta e si concentra su qualche attività propria del suo lavoro, come stampare una prescrizione, chiedere di sdraiarsi sul lettino, auscultare il battito cardiaco o misurare la pressione. Fino al momento in cui sto scrivendo so per certo che, proteggendosi così, è riuscito ad arginare il rischio della domanda più ovvia che qualunque paziente mediamente ficcanaso potrebbe rivolgergli. Ma perché non se li tiene a casa sua? O il dottore vive in un appartamento sottodimensionato, ma, con tutto quello che guadagnano i medici, a chi vuole darla a bere. Oppure sua moglie, o la sua compagna, mi è oscura la qualifica del suo stato civile, non ne vuole sapere di accumulatori seriali per la casa ed è per questo che ha scelto un mestiere da esercitare altrove e in grado di fornirgli l’alibi di fruire di una sorta di pied-à-terre dove coniugare lavoro e hobbistica senza dare adito a battibecchi o cause di divorzio. Ogni anno, verso Natale, pubblica la classifica dei suoi assistiti preferiti incrociando dati derivanti da patologie, livello di ipocondria, frequenza di richiesta appuntamenti (tra parentesi, ora ci è stata fornita un’app efficientissima per le prenotazioni che ci fa davvero sentire ipertesi del terzo millennio) e credo anche riservatezza nelle domande sulla sua vita privata e su quel cognome esotico che porta e che richiama inevitabilmente la questione palestinese. Un modo di fare statistica inutile la sua, considerato che da sempre la classifica è dominata dal signor Gerardo, ottantenne in pensione da quando ne aveva quarantanove, che gira il mondo e scrive racconti sui posti che visita. Iraq, Colombia, Nuova Zelanda, Namibia, Armenia e via dicendo. Invidio moltissimo il signor Gerardo non tanto per il premio che gli spetta – un esame di laboratorio comprensivo dell’Antigene Prostatico Specifico (PSA), che costa un botto – quanto perché, a differenza sua, io mi muovo pochissimo. Casa, tangenziale, scuola, Esselunga, teatro, cinema e poco più. Non frequento più nemmeno lo studio del nostro dottore, da quando c’è la app, e scrivo solo di queste cose qui.

boxe

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Leonardo non ci ha pensato due volte e ha accettato la sfida. È stata la preside a farsi avanti: “prova a lanciarlo”, gli ha detto. E lui, il banco, glielo ha tirato addosso. Per fortuna Leonardo fa la terza, il banco era quello che pesava più dei due, e con il lancio non è andato molto lontano.

Leonardo è fatto così. Ha un interruttore, da qualche parte. Quando lo schiaccia si accende qualcosa e lui deve scappare. Da quando abbiamo scoperto questa funzionalità il cancello esterno della scuola dev’essere sempre chiuso – non che prima non lo fosse ma meglio controllare – perché con il portone con le maniglie antipanico c’è poco da fare. Leonardo preme l’interruttore, si accende e comincia a correre. Poi abbiamo scoperto anche un selettore, come quelli che hanno i giradischi per passare da 33 a 45 giri. La rabbia a trentatré giri, quella che si usa di più, lo fa scappare fuori dalla scuola. Quella a 45, che si usa meno frequentemente ai tempi della musica in streaming, gli fa dare i pugni alla cieca o scagliare la prima cosa che gli passa per le mani contro gli adulti che ha intorno. Succede più di rado ma non risparmia nemmeno l’autorità, come avete visto.

Non è un mio alunno – meno male – ma qualche giorno fa mi sono imbattuto per puro caso in una delle sue fughe. I miei bambini erano in mensa e sono salito in classe perché Jasmin aveva dimenticato le pastiglie effervescenti da prendere dopo mangiato. Mi è praticamente volato addosso scendendo lungo una rampa tra il primo e il secondo piano. Dopo l’impatto ha tentato un maldestro dietrofront ma quando ha visto arrivare di corsa la collega che lo stava inseguendo ha tentato di scavalcare il corrimano per buttarsi di sotto. Non c’è spazio tra le rampe quindi avrebbe fatto un salto di poco più di un metro. Ma il gesto mi ha fatto molta impressione, in un moccioso di otto anni. Lo abbiamo placcato ma è riuscito ad allentare la presa della collega che lo teneva per le spalle e ha ripresa la sua fuga, questa volta verso il piano di sopra.

Ci siamo precipitati dietro a Leonardo fino in biblioteca dove, oramai braccato e senza via di fuga proprio come un animale selvaggio, ha spalancato una finestra e ha compiuto persino il gesto di arrampicarsi per farci capire che, con i gesti estremi, non sarebbe sceso a compromessi, anche se prima avrebbe dovuto scardinare la tapparella a lamelle orientabili. Messo in sicurezza l’ambiente, Leonardo ha scelto di mettere tutto a soqquadro, facendo volare in aria libri e sedie e qualunque cosa si trovasse sui tavoli. Mi ha addirittura gettato addosso uno dei pouf colorati. Con un riflesso in cui non mi riconosco assolutamente, ho afferrato il pouf al volo. Mi sono avvicinato e, tenendolo tra me e lui, l’ho invitato a prenderlo a pugni. Dopo una raffica di colpi di boxe Leonardo ha esaurito la carica e, mosso da un inconsapevole impeto di autoconservazione, ha premuto il suo pulsante in posizione off. Gli occhiali gli si sono appannati ed è scoppiato in lacrime.

La mia collega si è fatta avanti con una proposta geniale. “Perché non scriviamo una mail alla preside per chiederle se ci compra un punching ball?”. Leonardo ha acconsentito, ma non perché non avesse nessun’altra risorsa da spendere per trovare una soluzione alternativa. Ha capito.

Ci siamo così seduti uno a fianco all’altro, la mia collega, Leonardo ed io, in una delle postazioni del laboratorio di informatica, adiacente alla biblioteca. Ho fatto log in con il mio account Google Workspace, ho cliccato su nuova mail, ho inserito l’indirizzo della dirigente, ed è andata così:

buon giorno preside,
sono leonardo di terza b
ogni tanto sono arrabiato
e vorei un pungiball
grazi presid arivederci

Ho indicato a Leonardo il tasto per l’invio ma sapeva già fare tutto. Abbiamo spento il pc e, senza che gli dicessimo nulla, si è allontanato lentamente dalla postazione, ha raggiunto la biblioteca, lì a fianco, e, partendo proprio dal pouf, ha cominciato a rimettere tutto in ordine.

Colapesce Dimartino – Lux Eterna Beach

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La copertina non lascia dubbi. Colapesce e Dimartino che si allontanano dall’installazione della meridiana del Parco Astronomico GAL Hassin di Isnello, nell’entroterra di una di quelle località rivierasche della Sicilia (Cefalù) dove gli inglesi in vacanza pisciano nel mare senza tante remore. Nella foto si vedono i due prendere strade diverse (considera che tutto può finire, così ci hanno ammonito sornioni per tutta l’estate), ma per andare dove, viene da chiedersi. A Singapore? Ce l’hanno insegnato loro che paese che vai, stronzi che trovi. Non si può fare il conto, sono davvero a milioni.

Ecco. Potremmo liquidare il sofisti-pop d’autore di Colapesce e Dimartino (a tratti rock con evidenti ammiccamenti alla più moderna psichedelia) con qualche supposizione complottista, qualche citazione sottile o qualche distratto elogio sulla sua sorprendente orecchiabilità. Un tratto con cui indubbiamente occorre fare i conti se consideriamo l’incommensurabilità degli ascolti dei loro successi sanremesi sulle piattaforme di streaming, i dischi di oro e platino, i premi della critica, per non parlare dell’onnipresenza radiofonica del loro recente tormentone estivo.

Potremmo farlo, ma ci perderemmo un’occasione straordinaria per comprendere a fondo e celebrare, di conseguenza, uno dei progetti più sagaci e dissacranti del nuovo scenario cantautorale italiano. L’unico (gli tiene botta solo Calcutta) in grado di sobbarcarsi con autorevolezza l’onere di far fruttare la rendita (con tanto di interessi) dell’eredità culturale degli ingombranti padri fondatori del genere.

Uno stile rielaborato, al contempo, secondo il cinismo senza speranza e la schiavitù della riduzione di qualunque cosa a meme, vero must dei giovani adulti di questo incontrovertibile decorso storico tutto social. Un modello compositivo riconoscibilissimo grazie a certi timbri ormai marchi di fabbrica dell’indie radicale e colto. Un’estetica musicale che va per la maggiore, di cui si odono gli echi provenire dalle camerette delle generazioni protagoniste del più grande ritiro sociale della storia dell’umanità, dagli appartamenti full-Ikea dagli affitti alle stelle, domicili mantenuti dal lavoro dei genitori di universitari fuori sede e di stagisti freschi di migrazione dal sud sfruttati con il pretesto di ricoprire i ruoli dai nomi più altisonanti negli open space delle filiali locali delle multinazionali dell’industria del virtuale.

Un ascolto attento dell’opera frutto del sodalizio tra i due cantautori siciliani (uno di Siracusa, l’altro di Palermo, due mondi a sé) ci esporrebbe alla profondità della loro poetica, al detto e al non detto dei loro versi, alla familiarità che scopriremmo di avere con le tematiche e le storie raccontate nelle loro canzoni. Per questo è un vero peccato che, a quanto sembra, la partnership tra Colapesce e Dimartino sembra essere giunta ai titoli di coda, la chiusura di una parentesi fruttuosa nelle rispettive carriere ai margini dell’underground nostrano, in quel non-luogo dove si raccolgono consensi da una nicchia squattrinata, schiava degli apericena e mutevole alla sovraesposizione di proposte, un mercato in cui l’offerta supera di gran lunga la domanda.

D’altronde Colapesce e Dimartino sono l’esempio più riuscito di come si favoriscono le economie di scala. Una joint venture, più che un’acquisizione. Tra i due è difficile individuare quale fosse il meno popolare prima del febbraio 2021. In un festival a porte chiuse, uno dei più eclatanti ossimori dell’industria dello spettacolo televisivo, forti di un carisma tutto meridionale, facendo leva sulla formula della coppia di personalità singole a dividersi la scena senza sottrarsela reciprocamente, Colapesce e Dimartino sono riusciti a elevare a potenza due talenti e a sprigionare in onda (e in Eurovisione) un messaggio che ha pienamente colto nel segno. Un progetto curato meticolosamente fino al dettaglio, dal distorsore compattissimo (e trendissimo) dei soli di chitarra, poche note ma sempre quelle giuste, alle parole perfettamente cesellate nei solchi delle canzoni, fino alla dimensione dei colletti delle casacche anni Settanta.

Ora, dopo aver sbancato due volte Sanremo e aver prodotto e interpretato un film (uno spasso, fidatevi), hanno dato alle stampe una vera e propria raccolta di hit. Perché mentre “I mortali” conservava quella componente di repertorio secondario, inevitabile in un disco come quello, data la presenza di pezzi da novanta del calibro di “Musica leggerissima”, “Luna araba”, “Cicale” e “Majorana”, in Lux Eterna Beach siamo al cospetto di un upgrade. Dalla prima all’ultima traccia i due non scendono di una tacca in perfezione, un primato in cui si può leggere tra le righe il senso di mollare il colpo proprio adesso, sulla scia dei fasti di un disco così difficile da eguagliare, figuriamoci da superare.

Un tripudio di intelligenza, a tratti estremizzata in adorabile spocchia, in grado di soddisfare tanto i fan di Propaganda Live quanto il popolo di ignavi rapiti dalle rime catchy delle assegnazioni di XFactor. Differenti piani di lettura riconducibili al merito dell’abilità compositiva e all’intuito commerciale di un connubio artistico mai visto, da queste parti.

In quello che, statene certi, verrà incensato ai primi posti delle classifiche dei dischi italiani più belli dell’anno, ci sono intanto un’intro e un’outro da manuale. La prima cantata e dal titolo che, come la luce che sfiora di taglio la spiaggia, mette tutti d’accordo. La seconda, la title-track, uno struggente strumentale post-rock impreziosito da un tema di piano scarno e minimal, la perfetta colonna sonora per lenire il dolore dell’addio a questa esperienza artistica.

Ci sono ovviamente i singoli da primato che hanno preceduto il disco, “Splash”, “Cose da pazzi” e “Considera”, e quelli che probabilmente verranno, pienamente all’altezza del successo dei precedenti, e mi riferisco a “Neanche con Dio” e “30.000 euro”. C’è anche il colpo di genio, “Ragazzo di destra”, la bestia nera (anzi, rossa) degli opinion leader più permalosi tra le squadrette dei fratellisti d’Italia e dei fasciomeloniani, feriti nell’orgoglio dall’invito a mangiarsi il gelato con qualcuno, in un giorno di festa.

Non potrebbero mancare quindi le immancabili citazioni anni ottanta, a partire dal Battiato de “La voce del padrone” protagonista in “Sesso e architettura” o il soft-pop dei Tears For Fears di “Everybody Wants to Rule the World” che riecheggia, almeno nel ritmo, in “Forse domani”, brano che annovera la riuscita partecipazione di Joan Thiele. C’è persino il featuring impossibile di Ivan Graziani (Francesca Michielin ne sa qualcosa) nella traccia “I marinai”, presente con uno stralcio di inedito recuperato dai nastri del rocker abruzzese che, con la sua stessa voce, ci riporta a quel modo di fare i lenti nel torbido periodo del pop di quegli anni, con una melodia che invita all’armonizzazione del tema di “Soleado” dei Daniel Sentacruz Ensemble.

Anche se apparentemente riconducibile alle canzonette del momento, la musica di Colapesce e Dimartino si conferma un riuscito esperimento di trasposizione in chiave metafisica dell’ordinarietà, il frutto di una naturale intelligenza artificiale in grado di raccontare, con poesia e ironia, la contemporaneità. Ed è in questo aspetto, più di ogni altro, che sublima la sicilianità più psichedelica delle tracce che compongono Lux Eterna Beach, l’opera conclusiva di un’esperienza che difficilmente dimenticheremo. Meno male, stanno già cantando, coperti dalla musica in crescendo, Colapesce e Dimartino, con quel vezzo di indietreggiare dal microfono per restare protetti dagli strappi di chitarra, questa volta allontanandosi per sempre e senza bis. Meno male, stanno già cantando, non si vede la fine.

ma da sempre tu sei quella che paga di più

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La cultura della prevaricazione violenta è propria del maschio, questo possiamo sostenerlo senza dati alla mano ma in natura, a parte qualche eccezione, mi pare che da sempre funzioni così. Serve per la caccia, per allontanare gli altri prevaricatori violenti che si vogliono impossessare delle prede cacciate e cose di questo tipo. Il maschio umano, mettendo l’intelligenza al servizio della prevaricazione violenta, ha cominciato poi a lavorare sulle tecniche di prevaricazione violenta, allenando la propria forza fisica, mettendo l’astuzia al servizio della prevaricazione violenta e inventando strategie e armi di ogni tipo per ottenere i risultati prefissati in modo più efficace.

La cultura della prevaricazione maschile umana violenta regola il mondo dai tempi delle ossa lanciate in aria di 2001 Odissea nelle spazio. Poi sono successe una serie di cose importanti, alcune delle quali hanno messo a serio rischio la permanenza della specie umana su questo pianeta, fino ad oggi, un momento in cui in sette miliardi e mezzo ci contendiamo risorse e altre cose per tirare avanti. Sarebbe meglio se, anziché fare le gare per vincerle, come le scimmie evolute di Kubrik, scendessimo a compromessi e ce le dividessimo, ma la cosa più difficile è sempre la stessa, ovvero intercettare l’istinto con la ragione. Prima di dare una testata a qualcuno per una pozza d’acqua, o anche perché un prevaricatore maschio umano violento vuole fare altrettanto con la pozza d’acqua in cui ti abbeveri tu e la tua famiglia, quindi diciamo per difesa legittima, tutti i prodigi evolutivi che ci hanno fatto arrivare a fatica sino a qui, con Internet, i razzi che vanno sulla luna, la neurochirurgia, i pannelli solari, Beethoven e Shakespeare, tutte queste migliorie in teoria avrebbero dovuto potenziare quella prontezza illuminata che ci ferma prima di prendere a testate un nostro simile, o prima di commettere qualcosa che ci renderebbe meritevoli di ricevere una testata da un nostro simile.

E trovo che il fatto che malgrado i prodigi evolutivi di cui sopra continuiamo a impegnarci sulle tecniche di prevaricazione violenta, continuando imperterriti a migliorare la nostra forza fisica e a inventare le strategie e le armi più sofisticate per ottenere i risultati prefissati in modo più efficace, favorisca il rischio che il conflitto continui a essere preferito al dialogo perché più sbrigativo. Due ceffoni, poche parole e la cosa finisce lì. Il confronto è impegnativo e richiede un’intelligenza che facciamo finta di non avere, malgrado ancora i prodigi evolutivi di cui sopra.

E se ancora i maschi umani ricorrono alla cultura della prevaricazione violenta per occupare territori e per difendere e rivendicare i territori occupati, il tutto con quel popò di informazione e conoscenza della storia e le esperienze che coprono un periodo che va dalle ossa lanciate in aria di 2001 Odissea nello spazio ad oggi, figuriamoci con cose individuali che riguardano la sfera dei presunti possessi personali. Il presunto proprio paese, la presunta propria città, il presunto proprio quartiere, la presunta propria casa, la presunta propria donna.

puntini puntini

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Ho sostituito le lenti che uso per leggere e per stare al computer la scorsa primavera e, per il rotto della cuffia, ho evitato l’upgrade alle progressive. Da lontano vedo ancora bene ma, da vicino, è sempre più un disastro. Il fatto è che gli occhiali sul naso mi danno fastidio e cerco di rimandare il più possibile il momento in cui dovrò portarli costantemente, anziché indossarli solo per la presbiopia. Ma negli ultimi mesi la situazione è peggiorata e temo di non avere scampo. La mattina, appena sveglio, faccio una fatica enorme a mettere a fuoco le cose in prossimità e sono esposto a rischi grossolani. Per esempio, stamane ho ricevuto sullo smartphone il messaggio dall’app della banca dell’accredito dell’assegno famigliare di 13.00 euro ma, non vedendo il puntino tra unità e decimali, ho letto 1.300 e, messi gli occhiali, ci sono rimasto molto male. E pensare che la questione della separazione tra le classi – la società contemporanea non c’entra, mi riferisco al valore posizionale delle cifre nei numeri, quindi miliardi, milioni, migliaia e unità semplici – è all’ordine del giorno. La mia collega veterana e opinion leader in matematica sostiene di aver vissuto in prima persona il dibattito, tempo fa, sulla necessità di individuare un’alternativa ai puntini, considerando che le calcolatrici ne utilizzano il simbolo al posto della virgola. Lei è una sostenitrice radicale e accanita dello spazio tra le classi. A me non piace in prima battuta perché non sono classista ma, soprattutto, perché poi crea confusione ai bambini quando si tratta di risolvere le operazioni in colonna. Il testo che ho adottato, poi, sostiene che, oltre allo spazietto, si può usare il puntino sotto ma anche quello sopra. Non solo: le calcolatrici moderne, per non parlare delle app, la virgola la sanno scrivere eccome. Mi scoccia, però, avviare discussioni inutili con la mia collega decana, che poi ha solo un paio di anni più di me ma insegna da quando ne aveva diciotto mentre io, a diciotto, mi conciavo come Robert Smith. Faccio finta di nulla, annuisco nelle discussioni quando insiste sul fatto che il mondo della pedagogia si era espresso senza lasciare alcun dubbio sul problema dello spazio rispetto al puntino, ma poi, alla LIM, quando lavoriamo in classe sulle operazioni con i numeri grandissimi, dico ai bambini che possono fare quello che vogliono. Puntino sopra, puntino sotto, spazietto, lascio scegliere cosa preferiscono, basta che facciano attenzione. Anche perché, a fare attenzione, il primo devo essere io. La scrittura alla LIM è l’unica attività ravvicinata in cui è meglio che mi tolga gli occhiali. Sarà la penna, sarà la luce, sarà la vecchiaia, fatto sta che anche per le operazioni più semplici  – contare otto quadretti, fare i puntini tra le classi dei numeri – devo allontanarmi e controllare due volte. Chissà se con le lenti progressive cambierebbe qualcosa. E comunque, quando leggo “lenti progressive”, la prima cosa che mi viene in mente è “After The Ordeal”.

xl

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La tipa denutrita della pubblicità Borghetti che gioca a calcio balilla dice una battuta, anzi una sola parola, che poi è il brand, e la pronuncia malissimo. E se hanno scelto quel take, chissà quanti ne hanno scartati tra quelli registrati prima e, soprattutto, com’erano. Ci ho pensato all’uscita dal cinema dopo aver assistito a “Anatomia di una caduta”, uno dei migliori film di tutti i tempi per numerosi aspetti, a partire dalla bravura degli interpreti. Persino il cane recita in modo straordinario – non voglio spoilerare nulla ma la scena finale è straordinaria – ed è molto più convincente di qualunque attore italiano, anche i migliori, quelli del cinema, quelli della tv, per non parlare di quelli delle pubblicità. Per recitare così male nei consigli sugli acquisti, anche se gli unici che non cambiano canale quando trasmettono gli spot siamo solo noi studiosi di comunicazione, ci vuole davvero del talento. E quello che colpisce di lei non è solo la dizione, ma il fatto che ha il girovita largo quanto il mio polpaccio. La grassofobia, in Italia, è una delle peggiori attitudini che poi, con tutto quello che mangiamo e beviamo, fa sorridere. Anzi, il corto circuito è frustrante. Non riusciamo a resistere al cospetto di una porzione romanesca di cacio e pepe e poi trascorriamo giorni dilaniati dal senso di colpa, fino alla carbonara del fine settimana successivo. La dieta mediterranea è una disdetta. Ho un’alunna di origini senegalesi, ampiamente oltre il suo peso forma, che non ha mai usufruito della mensa scolastica prima di quest’anno. Riconducevamo la scelta dei genitori a motivi religiosi – la carne di maiale eccetera eccetera – ma ad assistere alla voracità con cui chiede i bis di tutto abbiamo compreso che, tenerla a casa a pranzo, era una forma di controllo e tutela della sua salute. Se sostenete che a scuola non si mangi bene siete in malafede. Al limite, posso darvi ragione solo per il distributore automatico dedicato a insegnanti e ATA. Costa tutto molto poco, ma la qualità è vergognosa. Dicono che in certi licei privati del centro ci siano addirittura i cesti di frutta e le macchinette per prepararsi centrifughe e spremute come nelle filiali delle multinazionali che frequentavo prima di immolarmi alla scuola. Da noi è sotto soglia anche il caffè, una brodaglia seconda solo alla bevanda al sapore di the (o di te, come biasciava Young Signorino) ma dopo il pasto della mensa è un appuntamento a cui non so resistere. Il distributore si trova al secondo piano, uno sopra la mia classe, e prima di scendere in giardino è un tappa obbligata. Alcuni dei miei alunni si mettono davanti ai dolciumi come quelle storie di una volta in cui i bambini poveri, durante i giorni di festa, trascorrevano il tempo sospirando di fronte alle vetrine delle pasticcerie. Sanno che, oltre al caffè, talvolta mi concedo anche il dessert. Quando succede, insistono perché sperano che il Kinder Bueno o gli Oreo o il Kit Kat al caramello salato, dopo la selezione, restino incastrati negli ingranaggi. Quando succede, infatti, scuoto con forza il distributore per far cadere lo snack e, siccome il costo del prodotto non viene accreditato nella chiavetta in caso di mancata erogazione, ne prendo un secondo. Avrete capito che, a botte di junk food, la larghezza dei miei fianchi è di almeno tre volte la tipa del Borghetti, ma chi se ne importa, ho quasi sessant’anni. Metto i bambini in fila, soffio sul caffè, scarto la prima delle due merendine con cui concluderò il pranzo, e come se vivessi in una pubblicità televisiva, quelle con i maestri fighi e magri, mi avvio in giardino con il codazzo di discepoli, orgoglioso del pessimo esempio mostrato.

Vagabon – Sorry I Haven’t Called

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In “Sorry I Haven’t Called” ci si prende e ci si lascia e poi si balla tutta la notte per dimenticare, lungo storie di attrazione e di addii raccontate in forme diverse ma suonate con uno stile unico. Nel disco della maturità, Vagabon fa brillare finalmente tutta la sua personalità artistica.

Spero che qualcuno escogiti al più presto un nome per lo stile che sovrappone il moderno r&b all’indie pop di matrice cantautorale. Dovrà essere un concept talmente evocativo da ricondurre ai principi costitutivi (fortemente antitetici) di questa entità ibrida. Una sfida non semplice, se consideriamo il calore dell’elettronica di base e delle radici black da un lato contro il rigore delle strutture guitar-based dall’altro. Io me ne guardo bene dal provarci, mi è venuto mal di testa solo a sforzarmi di descriverlo, ma ci tenevo a introdurvi alla musica di Laetitia Tamko, in arte Vagabon che, per darvi delle coordinate, si colloca a metà tra Arlo Parks e Sudan Archives.

Almeno così l’avevamo lasciata quattro anni fa all’uscita del suo ellepi omonimo, un secondo album complesso e introspettivo, a tratti cupo, che aveva a sua volta marcato radicalmente le distanze dall’acerbo indie-rock del precedente poco-più-di-un-EP di esordio. Tra Infinite Worlds e il s/t ci sono almeno due tacche di distorsore di differenza.

Sorry I Haven’t Called testimonia un’ulteriore crescita (proporzionale alla stessa che ha interessato i capelli di Vagabon) in cui l’estro compositivo dell’artista non fa compromessi in complessità ma, forte di una produzione al passo con i tempi (c’è di mezzo Rostam Batmangli, già dietro ai suoni di Vampire Weekend, Haim e Clairo), trasmette un approccio più sereno alla musica e una maggiore e riuscita leggerezza artistica.

Laetitia Tamko, in dodici tracce, spazia con disinvoltura lungo tutta quella che è la sua poliedrica personalità dimostrando di aver conseguito una maturità stilistica e di essere in grado di suonare e cantare qualunque cosa. Un album che nasce con l’urgenza di dare forma a un evento drammatico e che riesce, brano dopo brano, a neutralizzare il dolore e a sublimare in energia in grado di superare, o per lo meno arginare, le difficoltà.

Nella produzione di Vagabon non ci sono mai state fondamenta così elettroniche come in Sorry I Haven’t Called, in tutte le sue varietà. Dai richiami trap di “Can I Talk To My Shit” alla sofisticata techno di “Carpenter” e “You Know How”, sino alla drum’n’bass di “Do Your Worst”, cose che succedono se si trascura la chitarra per comporre principalmente al pc, strumento sicuramente più versatile. Un’eternità dal precedente lavoro, un periodo durante il quale la cantante newyorchese ha vissuto confinata in un paesino della Germania settentrionale, un ritiro volontario imposto dalla necessità di elaborare un lutto. Le frequentazioni di club mitteleuropei, votati principalmente all’oblio da cassa in quattro, hanno avuto una solida influenza su alcune soluzioni dance che è poi il ritmo della redenzione per eccellenza e che suona come la conferma che Vagabon ha fatto pace con il mondo.

Non a caso, il prodotto di questa ricerca di sé trasmette il desiderio di parlare in modo più diretto e di presentarsi con maggiore disincanto, un tratto che si percepisce perfettamente dalle liriche della traccia introduttiva e dal timbro della voce, qui meno sofferto, graffiante e posizionato sulle note acute rispetto agli altri lavori. “Lexicon”, addirittura, è un invito al ballo – a partire dal suo ritmo funk – pensato come deterrente ai cattivi pensieri che ci sorprendono vulnerabili dopo le tempeste sentimentali.

Ci sono infine i due estremi della dicotomia di questo genere che non sappiamo ancora definire ma, a proposito del quale, un giorno ricondurremo Vagabon nel novero delle madri fondatrici. Brani come “Made Out With Your Best Friend”, “Nothing To Lose” e “Passing Me By”, smaccatamente neo-soul, contro “Anti-Fuck”, la traccia conclusiva. Qui Vagabon ritrova le tensioni indie rock degli albori: voce su chitarra (una pennata inconfondibile) a dare forza alla ricerca delle ragioni di una relazione di coppia e, allo stesso tempo, dichiarando la volontà di liberarsi con coraggio dagli stereotipi dell’immaginario r&b, a tutto a vantaggio delle contaminazioni che scaturiscono da un’indole artistica multiforme.

Sorry I Haven’t Called è il disco perfetto se ve la sentite di fare un passo indietro rispetto agli eccessi di certa musica black che c’è in giro, se amate la sobrietà e le vie di mezzo, se non siete a vostro agio con l’estetica e le tematiche del pop contemporaneo, se ne avete le orecchie piene dei cosplayer della trasgressione, dei toni forti, della sessualizzazione spinta, dei vestiti striminziti e dei versi più che espliciti. Dal primo all’ultimo brano, in una tracklist popolata per metà da potenziali singoli, il nuovo album di Vagabon è un efficace percorso di riabilitazione verso il buon gusto.

magritte

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Non c’è cosa più surreale della guerra. Allo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina ne abbiamo parlato molto, in classe. Dell’attacco di Hamas e del conseguente assedio di Gaza da parte di Israele molto meno, probabilmente perché la questione palestinese è più complessa, ce l’abbiamo anche in casa e, anche tra adulti, si percepisce come qualcosa di trito e ritrito o comunque un conflitto che coinvolge, almeno da una parte, un popolo di straccioni e poco influenti in certi equilibri globali a meno di non mettersi alla guida di aerei di linea. Secondo me è stato più l’istinto che hanno i docenti a non ripetersi per non annoiare gli alunni. Le attività di sensibilizzazione ce le siamo bruciate tutte per Putin e Zelens’kyj e nessuno ha voglia di sbattersi a cercare materiale didattico sulla pace nel mondo diverso da quello già impiegato in precedenza. Ho una bambina egiziana, in classe, che da quello che ho visto sul profilo Facebook del papà proviene da una famiglia decisamente entusiasta della loro religione e delle tradizioni del paese di origine. Sfoggia il suo nome in arabo a fianco di quello in italiano sulle etichette dei quadernoni ricoperti dalle copertine colorate. So che ha partecipato alla manifestazione pro Palestina di qualche settimana fa, me lo ha detto lei il lunedì successivo al rientro a scuola. Giovedì scorso ho avviato una bella attività di arte dedicata a Magritte, un’artista che trovo banale e ampiamente sopravvalutato ma che fa impazzire i bambini. Dopo una presentazione generale della sua opera li ho messi alla prova. Dovevano disegnare su un foglio bianco A5 un oggetto a loro scelta, colorarlo, ritagliarlo e incollarlo su un cartoncino colorato corredato dalla celebre dichiarazione di intenti sulla differenza tra la realtà e la sua rappresentazione artistica: questa non è un pipa (e, a dirla tutta, nemmeno questo è un blog). Ho pregato la classe di non ritrarre palloni da calcio, maglie del Milan e di altre squadre, smartphone e altri gadget digitali, ma di limitarsi a oggetti come la pipa e di dare fiato alla creatività. Un orologio, una tazza, una mela, una sedia, cose così. Avete indovinato: la ragazzina egiziana ha disegnato la bandiera palestinese, e la didascalia sotto “Questa non è una bandiera” ha dato vita a un corto circuito di significati non da poco.

banksy

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Ho un giovane collega molto preparato – ha una laurea in scienze della formazione alla Cattolica a cui ha fatto seguire un master in sostegno, conseguito presso lo stesso ateneo – a cui mi rivolgo quando non so a quale teoria psico-pedagogica ricondurre le esigenze pratiche che mi trovo ad affrontare in classe. Mi fa sentire meno speciale sapere che c’è una collocazione universalmente consolidata a cui associare un problema a cui la mia incompetenza non riesce a dare una risposta. A scuola è impossibile standardizzare procedure didattiche perché ogni bambino e ogni adulto con cui si sviluppa la relazione sono differenti – e la gamma stessa delle dinamiche delle relazioni è pressoché infinita – ma poi, alla fine, un po’ per poter tracciare i dati come si fa nelle aziende quando occorre certificare qualche processo, si riesce a emettere un codice (attenzione, è una metafora) da stampare su un’etichetta (attenzione, è una metafora) e lasciare il fascicolo (attenzione, è una metafora) in uno scaffale ben preciso (attenzione, è una metafora) a disposizione di casi analoghi.

Il mio giovane collega mi consiglia di fare così e cosà e la cosa in effetti funziona, al netto del rischio che la relazione, nel frattempo, non abbia già preso una forma diversa da quella che credevo. I tempi di intervento delle persone e delle strutture che dovrebbero fornire sostegno a scuola e famiglie per i casi difficili sono così inadeguati da risultare ridicoli e paradossali. Con le organizzazioni pubbliche addirittura segnali il rischio di un disturbo dell’apprendimento o anche un problema più eclatante in seconda e, a essere ottimisti, ottieni una certificazione in quinta. Potete immaginarne l’efficacia in una fase della crescita e dello sviluppo così imprevedibile, come nei bambini. Ma, ripeto, io sono un copy con la passione per i Cure, per questo mi rivolgo costantemente a chi ne sa più di me, cioè chiunque.

Continuano però a sorprendermi certi metodi a dir poco d’urto che si adottano in caso di situazioni in cui la sicurezza dell’alunno problematico e, di conseguenza, di chi gli sta intorno, è a rischio, sostanzialmente perché la risolutezza di intervento è un meccanismo che non è proprio nelle mie corde. Non sono mai pronto a fare la cosa giusta quando ho poco tempo a disposizione, questo in generale, perché ho bisogno di riflettere a lungo per valutare, e purtroppo in natura è un approccio non ammesso. Senza contare che sbaglio sempre, indipendentemente da quanto ci metto ad agire. Se fossi una preda sarei già stato il pranzo di qualcuno una tacca sopra di me nella catena alimentare da un pezzo.

Ho una collega che è un vero e proprio marcantonio e, per annientare le smanie autodistruttive di un suo alunno, uno scricciolo di terza, gli monta letteralmente sopra bloccandogli le braccia con le ginocchia e sedendosi sulle sue gambe. La sua classe è proprio a fianco alla mia e mi è già capitato di venire chiamato in soccorso per intercettare le sue fughe e impedirgli di fare dei danni. Quando succede, poi sto male tutto il giorno perché è facile far leva sulla forza, con un bambino, ma mi rendo conto immediatamente che si tratta di un’arma sovradimensionata.

Anche il collega esperto in pedagogia che vi ho introdotto prima non è da meno, quando lo vedo rispondere senza tanti complimenti agli assalti ciechi del suo asperger a bassissimo funzionamento. Lui ha anche un altro alunno arrivato da poco – un bambino che sarebbe come tutti gli altri se non gli fossero capitati in sorte due genitori a dir poco distratti – e che ora è in affido presso un’altra famiglia, per il quale adotta spesso soluzioni drastiche. Gli impartisce castighi esemplari d’altri tempi. Se si comporta male a pranzo lo sposta in un banco da solo all’altro capo della mensa e lo fa sedere voltato di schiena rispetto ai suoi compagni se l’ha combinata grossa. A quel punto gli vengono certi lacrimoni che, se fosse un mio alunno, mi metterei in ginocchio al suo fianco implorando le sue scuse e cercando di consolarlo nel modo più efficace. Come vedete, come educatore non valgo una cicca. Il mio collega dice di lui che ha una stima di sé bassissima perché ha la tendenza ad auto-infliggersi punizioni. Quando succede, gli dice che non deve farlo perché l’insegnante è lui (il mio collega) e che, per ristabilire l’ordine delle cose, una persona è sufficiente.

Ora sentite questa. Ieri l’altro andavo a zonzo per i vicoli della mia città preferita, probabilmente il centro storico più grande in Europa, un luogo d’altri tempi che, malgrado Airbnb e la gentrificazione, pullula ancora di spacciatori, microcriminalità, tossici e prostituzione. Non sto a dirvi quanto mi abbia sorpreso leggere scritto con lo spray sul muro di uno degli edifici fatiscenti di quei bassifondi la scritta “ilmiocognome merda”. ilmiocognome è il mio cognome, che non scrivo per ovvi motivi di privacy, e vi assicuro che non è così tanto diffuso. Ho abitato a qualche centinaio di metri da lì, più di venti anni fa, e un graffito così fresco non saprei come giustificarlo. In passato so di non essermi comportato bene con qualche persona, ma si tratta più che altro ex fidanzate con le quali non ho saputo chiudere senza perdere la dignità, mentre ora davvero cerco in tutti i modi di assumermi le mie responsabilità o, se proprio ho paura, mi sottraggo ai conflitti e ammetto di avere torto proprio per non alimentare inimicizie.

Sono stati i carissimi amici con cui mi trovavo in quel momento, veri esperti del quartiere, a tranquillizzarmi. Escluso che si potesse trattare di me, abbiamo formulato qualche ipotesi sulle cause dell’omonima nel graffito: un regolamento di conti tra pusher e clienti, una delazione, o più probabilmente un membro delle forze dell’ordine che non è andato tanto giù per il sottile con qualcuno della zona. Di certo, con questa merda, siamo parenti, in qualche modo. Io, ve lo giuro, non ho fatto niente, e poi da più di vent’anni vivo a duecento km da lì. Ho scattato però una foto alla scritta “ilmiocognome merda” perché non capita tutti i giorni di beneficiare di visibilità di questo tipo e l’ho messa come immagine della testata di Facebook. Non so se c’entri con la stima di sé, in questo caso di me, e con il discorso dell’infliggersi auto-punizioni, ma mi sembra tutto sommato il punto più basso di qualcosa che non so definire.

capire l’acca

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Ero mosso da una voglia irrefrenabile di chiedere all’impiegato vestito da infermiere che ha registrato i miei dati propedeutici alla somministrazione del vaccino che sport praticasse. Il camice era così teso all’altezza dei suoi bicipiti che non riuscivo a staccare gli occhi di dosso da quelle braccia inutilmente possenti per l’attività di data entry. Mi piacerebbe trascorrere almeno un giorno della mia vita con un fisico così, per vedere cosa si prova. Probabilmente mi divertirei a dare ceffoni a destra e a manca, anzi a destra e basta. Anche se, e immagino di avervi già informato, se fossimo provvisti di questa funzionalità mi reincarnerei per 24 ore in Stefano Bollani e non sprecherei nemmeno un minuto senza suonare al piano tutto quello che mi passa per la testa. Comunque, con l’infermiere, mi sono trattenuto per più di un motivo. 1. Non era il momento. 2. Non volevo che la mia curiosità passasse per broccolaggio, era del sesso sbagliato. 3. Era straniero e già stentava nella traduzione delle mie risposte in un linguaggio adatto alla digitazione finalizzata al completamento del certificato sul programma che stava utilizzando. E, last but non least, sono strasicuro che avesse i capelli tinti di nero. Il colore si diradava in un modo anomalo sulla pelle marrone scuro del suo cranio, fattore che ho interpretato vincolato a un’età non più verde. Io di quelli che hanno il fisico così e hanno più o meno i miei anni non mi fido granché. Quando vedo Lollobrigida tutto compresso nei suoi completi da fratellista d’Italia o l’ex compagno della presidentessa del consiglio gonfio come un bignè, penso a quanto tempo perdono in palestra anziché favorire le arti liberali, che poi la mia è tutta invidia. Quando mi sposto per la scuola con il mio portamento claudicante, curvo, asimmetrico e con gli abiti – sempre quelli – che mi cascano addosso, mi chiedo cosa pensino i miei colleghi. Anzi, lo so e lo leggo negli occhi di Rosina, la bidella, che mi fa notare che quando mi vede ho sempre qualcosa di tecnologico in mano, anche quando porto una ciabatta, nel senso della multipresa, a chi ne ha bisogno. Gli edifici scolastici vecchi come quello in cui lavoro io hanno impianti elettrici molto datati e gli accrocchi tra prese grandi, piccole e schuko sono la risposta concreta ai corsi sulla sicurezza che ci propinano con cadenze ossessivo-compulsive. Non è raro scorgere gruppi scultorei composti da spine di diversa natura che farebbero venire i capelli dritti a qualunque elettricista dotato di buon senso anche se, per ora, chi rischia le conseguenze delle dita nella corrente sono solo i docenti e i bambini educati a casa liberi di fare qualsiasi cosa. Rosina mi è molto simpatica perché è la prima collega che ho conosciuto – si è rifiutata di farmi entrare, il primo giorno, perché non mi aveva mai visto prima – e, al rientro dalle vacanze estive, ci abbracciamo sempre. Se non deve pulire o sbrigare qualche altra faccenda, se ne sta seduta a completare parole crociate o a leggere. La scorsa primavera la vedevo tutta immersa ne “Il minore”, il libro del principe Harry. Ora è circa a metà di una biografia di Frida Kahlo che curiosamente chiama Frida Osho, forse pe la presenza fuori posto, almeno secondo i canoni grammaticali che si imparano in una primaria come la nostra, dell’acca nel cognome. Lunedì scorso ho provveduto a una supplenza in una prima ed è grazie a lei che me la sono cavata con la parte più ardua della didattica, e cioè aiutare i bambini a indossare piumini e annodare sciarpe. Avevo dimenticato questo aspetto collaterale del mio mestiere. I miei alunni – ho una quinta – ormai sono grandi e già non mi stanno più ad ascoltare. Sono già all’ultimo anno del mio primo ciclo, chissà come sarà ripartire da capo.