i nobiluomini

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Parigi, 2054. In un futuro distopico, dopo decenni di video e foto postati a vagonate sui social a opera degli esseri umani, i gatti hanno preso il potere su tutte le altre specie viventi e, come prima cosa, hanno abolito le distopie per ovvie ragioni di naming (qualcuno ha proposto il neologismo disfelinia ma, al momento della stesura di questa sinossi, l’opzione non risulta ancora avallata). Nella magione di Duchessa, una miciona di razza Maine Coon in pensione, vive Adelaide, ragazze madre, con i suoi tre figli Bowie, Bansky e Bausch, insieme a Romeo, uno scaltro cinerino assunto con il compito di maggiordomo.

Duchessa è una gatta aristocratica (filantropica ma tutt’altro che filantopica) che si preoccupa molto del benessere dei suoi umani, non a caso considera Adelaide e i suoi tre figli come parte integrante della sua famiglia. Adelaide, una donna gentile e premurosa, si prende cura della casa e fa del suo meglio per crescere i suoi talentuosi figli: Bowie, che è un appassionato di musica; Bansky, un promettente artista; e Bausch, una giovane e raffinata ballerina di danza contemporanea.

Un giorno, Duchessa decide di aggiornare il suo testamento per garantire che Adelaide e i suoi figli ereditino la sua fortuna felina. Tuttavia, Romeo, il maggiordomo cinerino, scopre le intenzioni della padrona. Romeo, invidioso e avido, sogna di impossessarsi della ricchezza di Duchessa. Così, elabora un piano per sbarazzarsi degli umani.

Una notte, Romeo versa una boccetta intera di tranquillanti nel latte di Adelaide e dei suoi figli, li carica su un carro trainato da umani collaborazionisti e doppiogiochisti (elettori di Fratelli d’Italia) e li abbandona in una remota periferia della città, al sicuro da un possibile rientro. Quando Adelaide e i bambini si svegliano si trovano disorientati e spaventati, ma determinati a tornare a casa dalla loro amata Duchessa.

Durante il loro viaggio, incontrano un gruppo di sfollati randagi punkabbestia guidati da Sball’O Rey, un affascinante studente del DAMS con i dreadlocks d’ordinanza che si offre di aiutarli. Sball’O Rey, colpito dalla determinazione di Adelaide e dal talento dei suoi figli, guida il gruppo attraverso varie peripezie e avventure per tornare a Parigi. Incontrano anche una band di squattrinati e falliti musicisti post-punk guidati da Curtis, un giovane depresso che si unisce a loro nell’impresa con lo scopo di aiutarli.

Nel frattempo Duchessa, disperata per la scomparsa della sua famiglia umana, inizia una ricerca frenetica per rintracciarli, ignorando il coinvolgimento di Romeo nel loro rapimento.

Grazie all’astuzia di Sball’O Rey e all’aiuto dei loro nuovi amici, Adelaide e i suoi figli riescono finalmente a rientrare nella magione di Duchessa. Sball’O Rey tenta di convincere Adelaide della sua integrità e di essere una persona in grado di garantirle un futuro, nonostante il look, ma Adelaide, che cerca solo la sicurezza per i suoi figli, giustamente non si fida del suo aspetto poco ordinario. Sball’O Rey quindi si congeda tristemente ma è costretto a intervenire pochi istanti più tardi, quando Romeo cerca per l’ultima volta di annientare gli umani parassiti. Grazie al suo aiuto e a quello di Curtis e dei suoi musicisti depressi riescono ad immobilizzare Romeo, lo rinchiudono in un baule e lo spediscono in un campo profughi a Lampedusa. Duchessa, riconoscente e felice di rivedere i suoi adorati umani, accoglie Sball’O Rey come parte della loro nuova famiglia allargata.

Il testamento di Duchessa viene rettificato per escludere Romeo ed includere Sball’O Rey, che rimane a vivere in famiglia con gli altri umani, riscuote una parte del lascito e allestisce un centro sociale con annessa sala prove e scuola di bonghi in cantina. La gatta Duchessa dà vita infine a una fondazione di beneficenza che fornirà una casa a tutti i musicisti post punk depressi di Parigi. La storia si conclude proprio con un grande concerto di Curtis e del suo complesso nella villa di Duchessa, dove umani e gatti celebrano insieme senza pagare la SIAE (nella storia disfelinica l’ente per la tutela del copyright italiano è diventato nel frattempo una potente e influente multinazionale), suggellando un legame di amicizia e amore che va oltre le barriere di specie e di classe sociale.

tempi moderni

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Il meme di Pablo Escobar che aspetta calza a pennello per le partite IVA che, inviata la fattura, si mettono in paziente attesa del bonifico. Avere una partita IVA non coincide con l’essere imprenditori, nel senso che lavorano in proprio sia quelli che hanno velleità imprenditoriali e stalkerano il mondo su LinkedIn, sia quelli che è solo per caso (o in quanto vittime della cialtronaggine dell’imprenditoria italiana) che non riportano a un responsabile che assegna loro delle mansioni. Gente come me, che nasce lavoratore dipendente ma, fino a un certo punto della propria vita, è impossibilitata a farlo.

Essere una partita IVA è da sempre allo stesso tempo un level pro del gioco della vita e un entry level del gioco dello stare in società, nel senso che io dipendente pubblico non sgarro di un centesimo nel pagare le tasse, se sei una partita IVA puoi aderire al movimento del commercialismo creativo e, a fronte delle attese alla Pablo Escobar, trovarti clienti stranieri, o italiani ma con domicilio fiscale oltre il San Bernardo, che dell’IVA e dell’Italia se ne fanno un baffo. Questo ve lo dice una cintura nera di sopravvivenza nel lavoro autonomo, una specie di isola degli sfigati con quel pelo sullo stomaco che poi però dobbiamo pettinarcelo se siamo costretti ad avvalerci della sanità pubblica, delle scuole pubbliche e di tutto il resto che, da quando sono dipendente pubblico, pago anch’io per tutti voi imprenditori e non dotati di partite IVA.

Ma ai tempi d’oro della partita IVA ho provato esperienze che noi umani dipendenti pubblici non possiamo nemmeno immaginare. Il rammarico più grosso va alle aziende e alle organizzazioni con cui, nonostante i numerosi brief e preventivi, alla fine è successo qualcosa per cui non abbiamo finalizzato. Non fraintendetemi. Non sono un vittimista, ma vi giuro che ci penso e ci ripenso e in nessun caso riesco a ricondurre la causa della collaborazione sfumata al mio modo di tenere (avevo scritto temere, pensate un po’) i contatti.

Il rimorso più grande per l’occasione perduta riguarda una realtà di Roma operante nel settore cinematografico e televisivo che mi aveva contattato per sviluppare una serie di cd rom multimediali – era il 97 o giù di lì – dedicati alle loro produzioni. Se non ricordo male, si chiamava proprio Tempi Moderni e, sul sito, campeggiavano i fotogrammi più iconici della celebre pellicola dell’intramontabile Charlie Chaplin. Io lavoravo a tempo pieno ma inquadrato (anzi es-quadrato) come consulente, ça va sans dire, per una software house locale, e ricordo di interminabili call (ai tempi telefoniche, il voip non era stato ancora inventato o comunque non era alla portata delle aziende con cui collaboravo io) a scrocco negli uffici in cui ero costretto a recarmi tutti i giorni, con il nuovo potenziale cliente, per definire tutti i dettagli della collaborazione.

Poi, improvvisamente, l’impeto e la forza che ci attiravano reciprocamente, la loro di azienda giovane e dinamica alla ricerca di rapporti professionali innovativi, la mia di partita IVA morto di fame in cerca di qualunque modo per sbarcare il lunario, dicevo l’impeto e la forza che ci attiravano reciprocamente improvvisamente sono evaporati. Un soffio. Puff e il potenziale lavoro era svanito. Da allora il significato del film di Charlot per me ha un doppio e triplo e quadruplo significato. Tempi moderni, chissà se comunque meglio dei tempi contemporanei. Ma ora è una cosa che non mi riguarda più. Sono anziano e sono un dipendente pubblico.

niente di tutto questo

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Certe entità immateriali e metafisiche sono il top per chi si è stufato delle cose che si rompono o delle persone che eludono le aspettative. Bella scoperta, mi direte. Superstizioni, credenze e religioni sono lì proprio per questo e da un bel pezzo, da sempre customizzabili a costo zero, al massimo la stima di qualche simpatizzante dei competitor di ciò che abbiamo scelto per il nostro benessere. Ma, lo sapete meglio di me, si tratta di pratiche per le quali alcuni non si sentono all’altezza, o che altri ritengono totalmente inadeguate. Ci sono però efficaci vie di mezzo. Dispositivi consolatori intangibili ma dotati di quella concretezza percepibile da almeno uno dei nostri cinque sensi a partire dal fumo di una sigaretta, la cui fisicità è facilmente calcolabile sottraendo al peso della sigaretta intonsa e appena estratta dal pacchetto quello della cenere prodotta e dal mozzicone con il filtro una volta terminata, vi riporto qui la formula f = [s – (c + m)] per vostra comodità e per rintracciare meglio la storia da cui è tratta questa citazione. Ricordate solo che fumare, un vezzo che richiama pose altamente idealizzate e fin troppo spesso emulate, purtroppo fa malissimo ed è meglio piantarla subito.

Così nulla supera, in quanto a efficacia, il primato del beneficio della parola scritta e letta. Nel mondo ideale il monopolio sarebbe appannaggio della parola detta e ascoltata, ma noi esseri umani siamo troppo impulsivi, e gli svariati sottosistemi di autoprotezione attivi nella nostra coscienza mettono in quarantena – come un antivirus qualunque, uno di quelli gratuiti che rallentano i sistemi operativi e ci rovinano l’esperienza sull’Internet con call to action a cui nessuno dà seguito – la maggior parte degli stralci delle conversazioni a cui partecipiamo, nemmeno il prossimo fosse sempre lì a consigliarci qualcosa solo per un secondo o terzo fine.

Parole scritte e lette, dicevo. E poi non sottovalutate le potenzialità dei suoni. Le musiche si riproducono sempre uguali, niente è in grado di neutralizzarne il principio attivo, proprio come quella fiaba in cui si sostiene che nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma. Al massimo il nostro stato d’animo, in ogni singolo istante che è quasi sempre diverso da ogni altro, ne hackera la composizione e ne colloca gli elementi fondativi così destrutturati in ricettori e decodificatori differenti rispetto a quelli previsti dalla formula originale, ma la sostanza non cambia. Anzi, no, la sostanza cambia eccome: è proprio l’effetto di questa specie di non materia che agisce per ricostruire e rimarginare ferite fisiche e non rimaste aperte, anche quando nessuno glielo chiede. A metà tra una reazione chimica e un evento miracoloso, la sicurezza della propagazione di onde sonore nell’aria, secondo una conformazione impossibile da modificare, può arrivare a salvarti persino la vita.

farfalle nello stomaco

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Non ho mai capito il senso di ascoltare musica non deprimente. È una cosa senza senso, punto e basta, e non accetto contraddittori. La musica allegra fa schifo e se ne siete fan siete solo dei superficiali e se l’ho scritto è solo perché la musica allegra non esiste, nemmeno la fanfara del circo è una musica allegra, quindi se voi credete di ascoltare musica allegra perché vi fa stare allegri in realtà state ascoltando musica deprimente quanto me e confondete con l’allegria quella sensazione di appagamento che solo la musica deprimente può darvi. Quindi non dovete sentirvi offesi, non vi ho assolutamente dato dei superficiali perché il fatto non sussiste.

Vi dirò di più. In estate ascoltare musica deprimente è ancora più piacevolmente deprimente, e lo sapete perché? Perché con il caldo e l’afa e il soffoco la musica deprimente sublima, dà il meglio di sé, e alla sensazione di depressione sovrappone uno strato di fiera consapevolezza romantica, e cioè che per ogni ascolto chiusi in casa (anche senza aria condizionata) di qualcosa di veramente deprimente (per deludere i soliti detrattori delle persone che amano deprimersi con la musica e che ci accusano di essere fermi a “Dummy” dei Portishead o a “Ok Computer”, per non tirare in ballo sempre i Joy Division, ecco un consiglio di qualcosa di recente: le tracce più introspettive di “Tangk”, l’ultimo disco degli Idles), dicevo che per ogni ascolto chiusi in casa di qualcosa di veramente deprimente c’è qualcuno che ha dovuto interrompere la riproduzione dell’ultimo singolo di Annalisa o del tormentone reggaeton dell’estate – ce lo/la immaginiamo in costume, al tramonto sul bagnasciuga con una tazza di mojito in mano – a causa dell’energia negativa che abbiamo insufflato nel mondo grazie alla nostra determinazione a mantenere vivo il legame tra umore e sottofondo sonoro. Una sorta di rivisitazione della teoria di Edward Lorenz: il battito d’ali di una farfalla qui a Milano è in grado di provocare un uragano in Nuova Zelanda, anche se in realtà è più facile il contrario, se vogliamo dare una spiegazione a certi temporaloni che non si erano mai visti prima, da queste parti.

Non solo. Non so per quale altra legge matematica ma ho la casa infestata di farfalle della pasta. In principio uscivano i vermi bianchi dalle fottute pareti, non vi dico quanti ne ho eliminati. Quindi alle larve sono subentrate le farfalle. Il punto è che non ho ancora identificato la causa, ma ho pulito con l’aceto il pensile della cucina dove conservo pasta e farine. Per mia fortuna, tutti quei battiti d’ali hanno causato solo una sensazione di materia in decomposizione, in perfetta sintonia con certi ellepì che in questa stagione ricca di contraddizioni mi va di ascoltare. La cosa divertente sarebbe trovare il covo delle farfalle della pasta in una confezione di farfalle, nel senso della pasta (ho una scorta di pasta Armando in dispensa, è la migliore pasta che abbia mai provato).

Un corto circuito che mi manda in tilt tanto quanto sembra in tilt mia figlia, che si sveglia con lo stomaco infestato di farfalle per la storia d’amore che sta vivendo. Per sdrammatizzare, vi ricordo che in tedesco farfalla si dice schmetterling, che è una parola che non è romantica per un cazzo, considerando che, pronunciata a pochi millimetri dalle labbra della/o propria/o amata/o, il rischio di sputazzarsi addosso è concretissimo. Anche perché, se la legge di prima è vera, uno sputo qui può causare chissà quale maremoto agli antipodi dei sentimenti.

spingilo

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Il paradosso del monopolio culturale a stelle e strisce che, a partire dallo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, si è consolidato dalle nostre parti, è che alcuni registri artistici sono impossibili da localizzare per ovvie barriere linguistiche e, qualora se ne tenti l’appropriazione con l’obiettivo di sdrammatizzarne il tentativo (perfettamente riuscito) di colonizzazione, facilmente i risultati risultano correnti a sé, riconducibili all’archetipo ma tutto sommato permeate da una propria dignità. Pensate al jazz italiano (che poi non è jazz) o al rock italiano (che poi non è rock). Per non parlare del rap italiano e soprattutto della trap, la vera eccezione che conferma la regola. I trappisti locali non ci pensato due volte a troncare le parole mozzando l’ultima sillaba, con il risultato che noi boomer – qualora scendessimo dal nostro piedistallo post-punk per dedicare la giusta attenzione a questa generazione di tamarri tatuati, tossicodipendenti e depilati – non capiremmo nulla ma ci limiteremmo a percepire il feeling del groove allo stesso modo in cui ci approcciamo ai loro omologhi afro-americani, o come accadeva ai tempi in cui ascoltare l’old school faceva figo. In questo contesto, uno degli effetti più imbarazzanti (sia da un punto di vista linguistico sia sotto il profilo meramente musicale) è costituito dalle riduzioni in italiano dei rap nei film e nei telefilm.

Il punto è che, lasciato in lingua originale, lo slang dei ghetti e dei sobborghi, nessuno ci capirebbe un’acca. Mi è capitato di assistere a svariati tentativi fallimentari nel corso della storia del rap, ora mi vengono in mente solo alcune scene di “House Party”, o il tizio che propone orologi di dubbia provenienza a Auggie Wren in “Smoke”. Ma pensate alla sigla di testa di “Willy, il principe di Bel-Air”, che già l’originale, pur essendo ancora il 1990, era già una versione cosplay dell’hip hop, figuratevi la sua resa in italiano.

L’ultimo esempio dello scempio linguistico a cui purtroppo siamo condannati viene dalla campagna di spot televisivi del prodotto Sodastream che ha localizzato – a proposito di old school – “Push it” delle Salt-n-Pepa che di per sé, a parte i balletti altamente cringe, non sarebbe nemmeno un’idea campata in aria. Per farvi capire, ascoltate lo spot per il mercato tedesco:

quello francese:

ci tocca persino prendere lezioni dai polacchi:

fino all’orgoglio italiano:

Push it real good!

isee

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A questo link trovate, come ogni anno e in totale trasparenza, il bilancio sociale di questo spazio libero e indipendente di cultura e informazione. Date un occhio ai grafici e ditemi se non è inevitabile rendersi conto di quanto sia complesso barcamenarsi nel mondo del situazionismo editoriale, senza contare che né ora né mai vedrete nemmeno l’ombra di un inserzionista – a parte qualche superflua e incontrollata incursione di Google – tantomeno sappiate che scenderò a compromessi verso una delle svariate proposte di cessione dei diritti per l’uso del materiale che trovate qui, liberamente consultabile. Vent’anni di intuizioni letterarie (e soprattutto musicali) che poi sono altrettanti di vita, non solo mia ma anche dei miei immaginari collaboratori di redazione che, di settimana in settimana, hanno contribuito al successo di questo che a detta di tutti costituisce un punto di riferimento per la moltitudine di lettori – altrettanto immaginaria – che quotidianamente ci gratifica con i like o attraverso la condivisione dei nostri pezzi.

L’ennesima certificazione unica che ha mandato in tilt il CAF che ha messo le mani sul mio 730 congiunto di quest’anno, che mi ha retrocesso per la prima volta tra le persone fisiche a debito di una cifra che non avete idea. Persino il sostituto d’imposta mi ha guardato con sospetto. Ma non dovete temere. Come il resto dell’imprenditoria sana di questo paese, corrispondo al sistema fiscale italiano fino all’ultimo centesimo e lo faccio con orgoglio. In più, sono diventato cintura nera di concentrazione in luoghi pubblici. Riesco a leggere in treno nonostante il declino della nostra civiltà come la conosciamo imponga di fruire dei contenuti multimediali sugli smartphone attraverso gli speaker di cui sono dotati e non più, come accadeva un tempo, con l’uso di auricolari. A parte questo, a giudicare da quanto chiamiamo gli altri al telefono si deduce che tutti siamo in posti sbagliati rispetto a quelli in cui dovremmo stare. Trascorressimo meno tempo da soli e più con coloro i quali vorremmo trovarci si risolverebbe la maggior parte delle disgrazie di questo mondo, comprese le guerre, e non frantumeremmo i maroni a chi si porta ancora i libri cartacei in viaggio.

Colpa mia. Credo in valori di cui non frega più un cazzo a nessuno. La musica pop è una merda, per esempio, ma non sembra un problema. Mia sorella, in compenso, ha trovato lavoro in una ambitissima trattoria in cui è impossibile prenotare o, tantomeno, ordinare la specialità del luogo in modalità asporto. Provate a chiamarli e poi mi darete ragione: bisogna andare lì davanti, mettersi in coda (in estate, come potete immaginare, si crepa dal caldo, in fila sotto il sole, e ci si sente doppiamente idioti) e attendere il proprio turno mentre i propri cari aspettano la cena a casa. Ma, d’ora in poi, avrò un’infiltrata, finalmente con un reddito.

B2

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Questa mattina ho terminato due dei tre corsi che abbiamo organizzato grazie al programma di formazione del personale scolastico per la transizione digitale previsto dal DM 66/2023 e dedicati ai colleghi del comprensivo in cui insegno. Anzi diciamo pure alle colleghe, perché di colleghi maschi iscritti ce n’è solo uno. Prima di ogni lezione mi offre il caffè del distributore automatico e se vede che sono indaffarato me lo porta direttamente nel laboratorio di informatica. I due corsi in presenza che ho terminato oggi avevano il focus su alcune piattaforme che utilizziamo sia per la didattica che per l’organizzazione e la gestione del nostro lavoro, compresa la collaborazione e la comunicazione. Io cerco di arrivare almeno mezz’ora prima dell’inizio per avere tutto pronto e non rischiare imprevisti. Man mano che l’aula si colma dei partecipanti, offro il mio supporto affinché riescano a seguire le lezioni in modo efficace. Malgrado il laboratorio sia un forno, aiuto le colleghe a collegare i loro notebook alla ciabatta scomodissima avvitata al contrario sotto le postazioni, mi assicuro che utilizzino Chrome e non Edge e cerco di sbrogliare gli inevitabili aggrovigliamenti tra gli account Google personali e quello della scuola che si formano tra le schede aperte del browser. In questi circa dieci minuti mi pezzo come quando vado a correre, ed è a questo punto che arriva il collega a fornirmi ristoro con un bel surrogato di caffè bollente del distributore automatico che non rifiuto per non risultare scostante ma, piuttosto, trangugio il più velocemente possibile per abbattere il tempo di sofferenza.

I tre corsi che abbiamo organizzato sono stati pensati per livello e hanno avuto un’adesione al di là di ogni aspettativa per due ragioni. Intanto perché dieci ore di formazione erano obbligatorie per un motivo che non vi sto a spiegare, e poi perché le colleghe che mi conoscono sanno che il mio approccio è informale, per non dire che, mentre spiego le cose, racconto un sacco di minchiate. Insomma, credo di essere divertente e coinvolgente ed è un plus per un corso di formazione in presenza da seguire sventolando il ventaglio.

I due corsi in presenza, quelli che ho terminato stamattina nella sauna del laboratorio di informatica, erano entry level e ne abbiamo organizzati due solo perché, proprio per l’adesione in massa, i posti in laboratorio non erano abbastanza per tutti. Una casualità che però ha involontariamente generato due diciamo sottolivelli. L’entry level, cioè quello che avevamo pensato, e un livello sotto l’entry level con colleghe che – anche piuttosto giovani – a malapena sanno usare un computer, e quando dico a malapena intendo proprio nemmeno a muovere il cursore sul trackpad o, peggio, coordinare le dita sui tasti del mouse. E, credetemi, non lo dico con cattiveria. Anzi, e questo l’ho condiviso con loro, ho apprezzato tantissimo il fatto che si siano messe alla prova, al di fuori della loro confort zone, in un ambito che sicuramente non costituisce il diciamo core business della loro attività e, quindi, ne possono fare a meno come d’altronde hanno sempre fatto. Sono state loro a darmi la più grande soddisfazione, che poi ho scoperto esser stata reciproca proprio oggi, allo scadere dell’ultima ora dell’ultimo incontro.

Oltre ai due corsi in presenza c’è un terzo corso da remoto che abbiamo pensato invece di livello intermedio. Non tutti i partecipanti a questo modulo, però, si sono iscritti per migliorare la propria dimestichezza con le app didattiche. Il corso online è decisamente più comodo perché, anziché sudare nel girone infernale del laboratorio di informatica (30 persone, 30 dispositivi accesi, zero aria condizionata, finestre che non si possono aprire a causa delle veneziane rotte che ne ostacolano l’uso) è possibile migliorare le proprie competenze digitali a casa in mutande e con l’aria condizionata a manetta, indipendentemente dal livello entry, pro o master a cui ci si sente di appartenere. Una dinamica che va a scapito di chi, invece, si è iscritto per esercitarsi con le attività un po’ più complesse di quelle a cui è abituato ed è costretto ai continui stop di chi dovrebbe essere con il livello for dummies e chiede il mio supporto per le funzionalità più banali. C’è una collega che, addirittura, segue le lezioni con lo smartphone e che, come avrete capito, non può fare nessun tipo di pratica. Quando glielo ho fatto notare mi ha tranquillizzato sostenendo di trovarlo comunque utile. È chiaro che, per lei, è sufficiente la presenza per dimostrare di aver partecipato a un’iniziativa di formazione obbligatoria. La sua diciamo indolenza però è pienamente compensata da un gruppetto di fidate stalker digitali che hanno deciso di seguire sia il corso in presenza (quello non per dummies) sia quello online, giustificandosi col fatto di trovare le attività che propongo interessantissime. Come biasimarle.

Anch’io, a parte i corsi che tengo come esperto formatore (si chiama così nella piattaforma dedicata il docente), dovrò partecipare come studente a qualche altra iniziativa. Dovrebbero partire una serie di incontri sull’intelligenza artificiale – il nuovo tormentone e demone della scuola italiana – e, soprattutto, un corso per conseguire una certificazione di inglese. Al placement test che l’ente che si è aggiudicata l’iniziativa ci ha somministrato, sono risultato B2. Un risultato che mi ha riempito di gioia e ha gonfiato a dismisura il mio ego perché, quando insegno inglese ai miei bambini, mi sento meno che A1 e faccio una fatica boia.

B2 è un risultato più che soddisfacente, anzi, superiore a ogni aspettativa. Da quando ho ricevuto questa notizia ascolto i miei gruppi inglesi e americani preferiti con un approccio diverso. Mi sembra di comprendere di più i testi delle loro canzoni, oppure faccio finta di capire, facendo finta di non fare finta, oppure ancora capivo bene anche prima ma non sapevo che quella fosse una cosa che sapevo fare.

pj

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La prima cosa che mi ha convinto del mestiere dell’insegnante è che, a differenza dei lavori che ho svolto prima in cui ero sempre il più vecchio o quasi, nella scuola ogni anno c’è gente che va davvero in pensione. Ho la prova che esistono persone anziane che, quando la legge glielo permette, smettono di lavorare. Non è una favola.

Al termine del collegio docenti conclusivo erano in otto, a questo giro. Sette colleghe (come sapete, i maschi che insegnano sono mosche bianche) e Anna, la mia bidella preferita, anche se bidella non si dice più. Esaurito l’ultimo punto all’ODG, un nuovo ultimo collegio docenti plenario ha chiuso anche quest’anno scolastico (anche se in realtà saremmo in servizio – pronti in caso di necessità, ma che nessuno si guarda bene dal causare – fino al primo giorno di ferie) non prima di aver festeggiato il personale uscente.

Ma non è questo il punto. Siete mai entrati in una scuola a fine giugno/primi di luglio? Se non credete che l’equazione caldo e fannulloni abbia delle ragioni fondate – che è il luogo comune che il nord del mondo associa al sud del mondo, popoli del Mediterraneo compresi, cioè noi – dovreste mettere piede in un edificio scolastico italiano in estate. Le nostre strutture sono assolutamente inadeguate per un prosieguo dell’attività didattica post calendario, quindi alle cosiddette mamme di merda (non è una diffamazione, si autodefiniscono così loro stesse, provate a documentarvi su Facebook) che ci vorrebbero in cattedra, a noi docenti, e al loro banco, i loro mocciosi, dico che per me va bene.

Prima però voglio l’aria condizionata come negli uffici delle multinazionali in cui probabilmente lavorano loro, e dell’installazione pretendo che se ne occupino i loro mariti, considerando che l’iter per un’opera di riqualificazione di questa entità – richiesta dei docenti alla segreteria, richiesta della segreteria al preside, delibera in consiglio d’istituto e approvazione, richiesta del preside al dirigente dell’ufficio scolastico del comune, proposta in consiglio comunale, aggiunta della voce in bilancio e delibera dei lavori, assegnazione dell’appalto, avvio dei lavori, avanzamento dei lavori, chiusura dei lavori, collaudo e sono sicuro di aver saltato qualche pezzo – si concluderebbe il primo anno dopo il pensionamento mio e di quelli che la pensano come me, quando cioè probabilmente il mondo sarà liquefatto a causa del riscaldamento globale e dei condizionatori non sapremo più che farcene, anche perché i combustibili fossili saranno esauriti e non avremo più energia e tanti saluti all’umanità e alla pedagogia come l’abbiamo conosciuta.

Ed è in questo clima subtropicale monsonico post-negazionista che si consumano i festeggiamenti per i colleghi in uscita. Banchi doppi uniti a formare infinite tavolate a ferro di cavallo imbandite di pizzette, focaccine, tramezzini, brioches salate e mini-panini imbottiti burro e salame, tutte cose a cui io non so resistere. Solo, riflettendo sui rischi di un rientro in auto all’una del pomeriggio con quaranta gradi, il cielo coperto e quell’aria gelatinosa che avviluppa ogni cosa nell’attesa di un tornado da cambiamento climatico, ho declinato l’invito a brindare e poi vuotare alla goccia il calice in plastica non riciclata colmo di bollicine che qualcuno aveva riempito per me.

Negli edifici scolastici, d’estate, e in particolare questa che, con tutti i progetti finanziati dal PNRR che ci sono in ballo, è un’estate molto particolare, succedono strane cose. Ci sono i presidi che impazziscono, parto dalla cima della gerarchia. Ci sono i bidelli a ranghi ridotti che, d’estate, hanno più la funzione di custodi, anche se li vedete pulire cose e ambienti che hanno già ampiamento pulito le settimane prima. Loro sono il vero muro di gomma ed è giusto così, altrimenti ci troveremmo circondati da scuole finlandesi e proprio non è il caso, anche perché con queste condizioni meteo si squaglierebbero all’istante.

Ci sono un paio di amministrativi a chiudere tutte le questioni che gli ultimi mesi di scuola, che stanno all’anno scolastico come il finale caotico e accelerato di certi brani musicali sta all’andamento statico di certi brani che poi esplodono con un finale caotico e accelerato, quando una sana normalizzazione dei ritmi nel corso dell’anno sarebbe il toccasana per la scuola italiana, dicevo tutte le questioni rimaste in sospeso.

Ci sono infine due o tre sfigati, più due che tre, in alcuni casi addirittura uno solo, che tengono corsi di formazione ai colleghi, sistemano i nuovi ambienti didattici, mettono in ordine l’equipaggiamento informatico e digitale, e profanano la scuola con abbigliamento da bassa manovalanza, sudando come maiali e trascorrendo da soli la pausa ai distributori automatici con lattine di chinotto ghiacciato a sessanta centesimi, roba che al bar la pagherebbero almeno il triplo.

Ma, anche se in estate la scuola è vuota, se vi affacciate in una scuola in estate, chiudete gli occhi e vi concentrate sul vostro respiro, vi accorgerete che la scuola è sempre piena. C’è pieno di umanità, a scuola, e a scuola si fa il pieno di umanità. Anche tra i colleghi che partecipano ai corsi di formazione e che ringraziano i colleghi formatori e i colleghi formatori ringraziano i colleghi che partecipano perché è già luglio e tutti vorrebbero essere sull’autostrada del sole, possibilmente non in coda, a rotolare verso sud.

E non smetterò di meravigliarmi ogni volta in cui effettuo l’accesso al mio profilo Facebook e, in cima, riconosco i colleghi con cui l’algoritmo vorrebbe mettermi in contatto ma io me ne guardo bene. La scuola, malgrado faccia di tutto per mutare il suo codice genetico che è di carne, ossa, sangue, sudore, lacrime, bestemmie e passione (e anche un po’ certificati medici in momenti strategici dell’anno) in digitale, non svilirà mai la sua natura fisica in un simulacro virtuale. Accedo al mio profilo Facebook, nei giorni d’estate, quando ogni altra persona normale che non fa l’insegnante è in ufficio, e scorro la home fino a quando spunta una foto di PJ Harvey. C’è sempre una foto di PJ Harvey – per la quale nutro una venerazione che non vi sto a raccontare – che mi aspetta e che compare tra una notizia e l’altra, e la convinzione che Facebook mi legga nel pensiero si tramuta in certezza.

solstizio

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La qualità delle intuizioni degli utenti sui social – anche i più brillanti – lascia sempre più a desiderare. D’altronde abbiamo ampiamente dato e ora non ci resta che resistere in attesa della nuova innovazione disruptive – almeno quanto le piattaforme come Facebook e speriamo più dell’AI – che ci permetta di tornare a dare il massimo con la nostra sagacia. Ci ho pensato qualche giorno fa, attirato dal titolo di uno dei soliti articoli proposti dall’algoritmo al di fuori dalla mia bolla consolidata. In pratica si sosteneva che, oltre ad averci preso tutto, ci hanno anche sottratto la primavera come l’abbiamo sempre conosciuta. Ha fatto un tempo pessimo da marzo a giugno, ha piovuto quasi sempre e, come immagine a supporto, c’era una versione del dipinto “La primavera” di Botticelli ai tempi del cambiamento climatico, priva delle sue qualità essenziali e rivisitata secondo i toni e i soggetti tipici del meteo a cui siamo esposti Ho provato a riproporla perché l’esperimento mi ha incuriosito – è quella che vedete qui sopra – ma mi manca qualche sfumatura decisiva per un prompt efficace, per non parlare di una piattaforma professionale – io non vado oltre quelle più comuni e gratuite, mica ho tutti sti soldi da buttare via – di creazione immagini con l’intelligenza artificiale. Ma, qualunque sia l’immagine a supporto, il punto è che oramai sono anni che le cose vanno così. Nonostante ciò, l’idea che abbiamo della stagione della rinascita, nei mesi invernali, è ancora quella che ci siamo costruiti da piccoli con tutti i luoghi comuni oggi ampiamente sfatati. Viviamo sempre nella speranza che, prima o poi, tutto tornerà come prima. Io non ci ho pensato due volte ad acquistare i biglietti per il concerto dei The National a giugno, lo scorso dicembre, e non mi sono minimamente posto il problema che, come poi si è verificato, ci sarebbero state concrete possibilità di maltempo (il forte temporale che si abbattuto sul Carroponte è terminato qualche minuto prima dell’inizio previsto del concerto). E, considerato come sono andate le cose anche in altri festival, il punto è proprio che dovremmo rivedere tutto il nostro immaginario collettivo, oltre al palinsesto delle iniziative outdoor. L’autunno e la prima parte dell’inverno sono le nuove belle stagioni. L’estate è una inutile sauna in cui molti dei principi fondativi della nostra civiltà – lavorare, svagarsi, viaggiare e persino fare sesso – sono preclusi da temperature ingiustamente elevate, a Natale c’è il sole e, per il resto, monsoni e temporali ad orari regolarissimi.  Io però ho voluto dare ragione all’autore dell’articolo che tirava in ballo Botticelli e che avrei apprezzato di più se ci avesse messo di mezzo anche Vivaldi, magari con una versione in minore – anch’essa opera dell’AI – della sua, di Primavera. Mi sono sentito target per il taglio dichiaratamente grillista e complottista dell’articolo. Anch’io sono anziano e vivo nel mito delle giornate che si allungano. Vivo tutto l’anno pianificando modi per trascorrere le lunghe serate di maggio e giugno all’aperto, bearmi del tramonto, del passaggio dal giorno alla notte, della brezza che impone il golfino in cotone sulle spalle, del gelato da passeggio tra i ragazzini in piena esplosione ormonale e i cani che impazziscono tra i profumi della natura. Ma, anche quest’anno, è finita sul divano, a scartabellare il catalogo delle piattaforme di streaming alla ricerca di film e serie interessanti o, al massimo, al computer a scrivere cose come questa, mentre fuori si scatenava l’ennesimo acquazzone programmato da un timer la cui severità, nessuno di noi, sono certo si meriti. Poi, diceva l’articolo, qualcosa o qualcuno gira la manopola, il forno si accende, prepariamo le valigie e chi si è visto si è visto.

buon viaggio

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Mai mi sarei immaginato che la canzone più adatta alla situazione la potesse proporre Denis. Intanto perché fino ad allora, quando era stato il suo turno di fare il dj, mi aveva steso con la peggio trap, talvolta in rumeno e talaltra in un italiano stentato cantato da rumeni. Per non parlare di un certo reggaeton da Eurovision Song Contest con quell’inconfondibile flavour da ex repubbliche sovietiche lasciate in balia del capitalismo più sfrenato o, il punto più infimo, un certo Artie 5ive (scritto così) e il suo concentrato di doppi sensi, anzi, di sensi unici fin troppo espliciti della hit “La gattina”.

Invece Denis, a pochi minuti dall’ultima campanella, quella definitiva, quella a mai più rivederci, buona fortuna nel buco nero della scuola secondaria di primo grado e nei docenti che la popolano, ha lasciato di stucco tutti, almeno me, con un vero colpo da maestro.

Intanto il cantante, Cesare Cremonini, che di tutta la monnezza poppettosa e italomerda è uno dei più raffinati. La canzone, poi, non è certo l’ultima arrivata. Risale al 2015 quindi, di sicuro, c’è lo zampino dei genitori, una coppia che adoro e che è perfettamente riconducibile a tutti gli stereotipi che circolano da noi sui maschi rumeni e sulle loro consorti.

Infine il testo e il suo senso, il che significa che Denis l’italiano lo capisce alla perfezione – magari anche grazie a noi maestri – e che è perfettamente in grado di mettere in collegamento gli input che lo investono in una lingua che, a casa, non si pratica con assiduità.

E vi assicuro che non avevo mai fatto caso alla canzone fino all’ultimo giorno di scuola, fino a quando Denis l’ha chiesta espressamente come sigla di chiusura di tutto il nostro percorso – altro che “Just Like Heaven” come pensavo io – se non per il video realizzato con la telecamera 360 e quell’effetto assurdo che, ai tempi dell’AI e dei deepfake, sembra davvero una clip realizzata a Croda dai Gemelli Ruggeri, se siete anziani come il sottoscritto avrete capito cosa intendo. Non avevo mai colto appieno il significato del testo, il valore di parole come

Coraggio, lasciare tutto indietro e andare
Partire per ricominciare
Che non c’è niente di più vero di un miraggio
E per quanta strada ancora c’è da fare
Amerai il finale

che, se le avessi lette prima, mi avrebbero fatto inorridire per la loro insulsa melensaggine.

Eppure, vedete, anche una cagata pazzesca come una canzone di Cesare Cremonini, al momento opportuno, ha il superpotere di lasciarci così, di svitare tutti i dadi e i bulloni che ci tengono prigionieri della nostra collezione di dischi post-punk tanto quanto della raccolta di emozioni complesse compresse represse, accumulate in anni e anni di pose, e ci liberano verso stati d’animo elementari come quelli che ci trasmettono le persone come Denis, alte poco più di un metro, che augurano buon viaggio a tutti magari senza sapere nemmeno che cosa vuol dire. Un viaggio non si sa bene verso dove, faccio finta di non saperlo e mi rifiuto di chiederlo.