Adwaith – Solas

Standard

Un giro del mondo in ventitré tracce, in lingua cymraeg. Solas, il nuovo album delle Adwaith, oltre a essere un’opera monumentale, straordinaria e che nessuno dovrebbe lasciarsi scappare, risulta difficile da liquidare con parole differenti. Se invece è ammissibile l’impiego dell’aggettivo glocal in ambito musicale, la capacità cioè di fare leva sulle opportunità offerte dal resto del mondo per aggiungere valore al proprio metro quadro (in questo caso il Galles, nazione che nell’insieme fa più o meno tanti abitanti quanto una media capitale europea) le probabilità di trasmettere la bellezza di un disco di questa caratura sono più alla nostra portata.

Che poi, a dirla tutta e con una malcelata punta d’invidia, che in uno stato costitutivo e storico della Gran Bretagna si rinunci a cantare in inglese per prediligere un idioma celtico locale comprensibile a (a essere ottimisti) qualche centinaia di migliaia di persone, a noi italiani (a eccezione forse degli amanti di tutta quella paccottiglia fantasy o dei cultori del dio Po e altre minchiate leghiste) ci viene da schiumare di rabbia per lo spreco consumato.

Eppure la formula delle tre meravigliose donne di Carmarthen – Hollie Singer (voce e chitarra), Gwenllian Anthony (basso, synth e mandolino) e Heledd Owen (formidabile batterista) – non fa una piega. Un originalissimo e evocativo indie-rock di prima scelta, a cavallo tra il post-punk e il pop ma, in questa occasione, condito con elettronica e persino abbellito da leziosi ammiccamenti a certe soluzioni armoniche mediorientali (tanto da lambire, in più di un’occasione, il rischio di tracimazione nel kitsch, nell’accezione positiva – sempre che esista – del termine), interamente cantato nel dialetto del posto, cioè quello del Galles.

E se è di un problema di comunicazioni interrotte e di secessionismo culturale nei confronti del resto del pubblico d’oltremanica che si tratta, per noi neolatini è tutto grasso che cola, finalmente liberi dall’annoso problema della comprensione dei testi (che già, con le band inglesi, il ricorso ai sistemi di traduzione online ci leva più di una castagna dal fuoco). In poche parole, il lavoro di ricerca nelle proprie radici linguistiche nella culla del rock non può non avere un significato sottinteso di contrapposizione al mainstream imposto dal mercato della nazione capofila, per di più ai tempi della Brexit.

Sappiamo solo (googlando, ça va sans dire) che Solas significa illuminazione. Un titolo che non può non coincidere con il destino di un disco della maturità, un’opera in grado di lasciarsi indietro l’ingenuità di una band agli esordi – quella di Melyn, il primo album – o le incertezze sulle direzioni da prendere – quelle di Bato Mato, il secondo. Non caso Adwaith significa reazione. Sarà per questo che Solas si profila come un concept ambizioso e senza compromessi di una band dalle idee chiare, anche se pur sempre dalle parole a noi incomprensibili. Non ci resta che accontentarci, afferrare il mood e le vibrazioni e tutti gli spunti offerti da quello che si profila come uno dei dischi più interessanti di questo 2025.

Intanto, la scelta di una pubblicazione così fitta di materiale suona piuttosto in controtendenza ai tempi delle sfilze inconcludenti di singoli e della smania di presidio costante dei propri profili sulle piattaforme di musica liquida, in uno scenario in cui il rischio di oblio è all’ordine del giorno. Al momento di andare in studio, per la band gallese l’imbarazzo della scelta è stato superato con la decisione di pubblicare quello che, in altri tempi, si sarebbe definito un album doppio. Una tracklist che fa anche a pugni con la riproduzione digitale, se consideriamo il frequente ricorso al passaggio tra brani in sequenza senza soluzione di continuità, espediente che penalizza per forza di cose lo streaming. In Solas emerge comunque la crescita delle Adwaith, sempre più unite nello sguardo comune sulle cose, sempre più pratiche nella padronanza dei loro strumenti, voce compresa, sempre più interessanti negli arrangiamenti (qui estremamente variegati) e nella resa dei brani.

I richiami e le atmosfere di una tracklist così corposa sono innumerevoli ed eterogenei. Nonostante la difficoltà di trascrivere i titoli, possiamo però distribuirli tra le principali classificazioni che ci sembrano più congeniali, giusto per fare un po’ d’ordine. In Solas si susseguono brani tipicamente indie rock, in alcuni casi decisamente alternative (“Tristwch”, “Wyt Ti Ar Y Lein”, “Heddiw / Yfory”, “Purdan”, “Sanas” e soprattutto la splendida “Sain” con il suo coretto uh-uh), canzoni che confermano la matrice post punk, a volte dichiaratamente elettrico, altre con un taglio elettronico (“Pelydr-X”, “Coeden Anniben”, “Solas”, “Planed”, “Y Ddawns”), una corposa sezione di graziose e talvolta irriverenti composizioni indie-pop se non pop tout-court (“Teimlo”, “Ti”, “Gofyn”, “Paid Aros”, “Miliwn”, “Addo”) che alleggeriscono l’ascolto dei momenti più cupi, e infine richiami alla tradizione dream folk/pop e ethereal wave (“Y Diwedd”, “MWY”, “Gorllewin Pell”, “Deffro”), reminiscenza sicuramente favorita dal timbro vocale che ci rimanda ai fasti della 4AD degli anni 80.

Sin da un primo ascolto, Solas si caratterizza come l’apice (almeno ad oggi) di un terzetto di musiciste sicure di loro stesse, del loro stile e delle loro potenzialità. Una sfida lanciata ad un mondo in cui fare breccia con l’originalità è sempre meno alla portata di tutti e che le Adwaith superano grazie a un entusiasmo e una voglia di sperimentazione senza confronti. Un messaggio coraggiosissimo e proiettato al futuro, un piccolo capolavoro nato dall’estro di una band giovane ma pienamente consapevole di aver già trovato un sound unico e di aver occupato un posto, nel panorama musicale, che non è mai stato di nessun altro.

per festeggiare il 25 aprile è bello fare le cose al contrario

Standard

Postcards – Ripe

Standard

Se bombardassero il paese in cui vivete o scoppiasse una guerra, continuereste a incontrarvi in sala prove per suonare?

Olivier Messiaen scrisse ed eseguì live per la prima volta il suo Quatuor pour la fin du Temps internato nel campo di concentramento di Görlitz. È Il paradosso dell’atto compositivo: tensione, disperazione e una più che legittima paura della morte che riescono a scatenare, nelle vittime, l’istinto che reagisce all’annullamento del sé con atroce bellezza, in un impeto di sopravvivenza.

Ho pensato a questa straordinaria testimonianza degli orrori del Novecento dopo aver ascoltato la prima volta “Dust Bunnies”, il singolo che ha anticipato l’uscita di Ripe, nuovo album dei libanesi Postcards. Ho provato a immaginare come sia possibile conciliare cose che diamo per scontato come il suono di una chitarra elettrica, il canto, la poesia, e anche solo concetti come shoegaze e noise – il lusso del rumore nell’accezione di espressione artistica, mica come l’inevitabile background dovuto al caos bellico a cui i civili, sono pronto a scommettere, rinuncerebbero volentieri – in posti come Beirut nel 2025, allo stesso modo con cui Messiaen e tre suoi commilitoni dell’esercito francese prigionieri quanto lui, armati (per modo di dire) di violino, clarinetto, violoncello e pianoforte, da soli hanno vinto una guerra, gettando il suono e il cuore oltre la fine del tempo.

I bombardamenti dell’esercito israeliano e un genocidio alle porte imporrebbero tagli radicali al superfluo, limitando le attività delle persone a quella essenziale, salvare la pelle, in un kit di sopravvivenza in cui una entità immateriale come la musica, astrazione che comporta serenità, silenzio e uno spazio intimo necessario alla sua elaborazione, non può certo rientrare.

Solo e soltanto da questo punto di vista, la musica dei Postcards è disturbante, mette a disagio mentre la si ascolta al sicuro dentro i nostri auricolari, riparati nelle nostre case intatte e allineate lungo le vie delle nostre città ordinate e sgombre da macerie, al riparo dalle interferenze delle sirene di allarme o quelle in loop delle ambulanze. C’è un mondo che cade a pezzi e una band trascende un sentimento ancestrale come la rabbia in musica. Uno stile che stempera l’angoscia con l’ardore dell’immaginazione e organizza l’irrazionale in un linguaggio in grado di trasmettere al meglio gli aspetti fondanti della disperazione e della paura.

Non è fuori luogo, quindi, scrivere che in uno scenario come questo i tre componenti della band con base a Beirut – Julia Sabra (voce e chitarra), Pascal Semerdjian (batteria) e Marwan Tohme (chitarra e basso) – risultano dei sopravvissuti a tutti gli effetti, a poco più di dieci anni di attività e, ora, al quinto album. Ripe è un’opera in cui i Postcards portano a termine una rielaborazione del loro percorso musicale rivisitato sull’onda della storia più recente. Il suono, necessariamente più viscerale e cupo, mantiene al contempo la stessa incrollabile determinazione e trasmette la dignità con cui la band riesce a rispondere, ancora una volta nel modo più comprensibile agli ascoltatori distanti come noi, alla tragedia che si sta consumando dentro e ai margini dei confini del posto a cui appartengono.

Per questo in Ripe prevalgono le trame più dolorose, riconoscibili nel loro stile shoegaze dal retrogusto post-punk, mentre le componenti dream-pop, nei dischi precedenti sorrette dalla straordinaria vocalità di Julia Sabra, perdono i toni pastello e l’effetto vignettatura tipico dei sogni e si corrompono della peggiore realtà circostante. Uno sdegno sonoro urgente e discontinuo, alternato a momenti di sofferente consapevolezza dell’inevitabile sconfitta. Davide e Golia, l’epica che beffardamente si ripropone nella sua primitiva crudezza.

Ripe è un disco in studio (è stato registrato in presa diretta nella casa del batterista Pascal Semerdjian, ubicata sulle montagne libanesi) ma consapevolmente live. L’energia dei brani è la stessa reazione dell’espressione nella copertina, il fastidio una secchiata d’acqua in faccia, una bella seccatura, in costante equilibrio tra la consapevolezza del tenere la situazione sotto controllo e l’istinto di dover scappare via, senza pensarci, in preda al panico.

Tra le distorsioni di “I Stand Corrected”, l’allarmante “Dust Bunnies” (“I nostri antenati avrebbero dovuto saperlo, non c’è più nessun posto dove andare”) in antitesi con il suo opposto industrial “Ruins” (“come radici tra le pietre noi perseveriamo”), il funereo incedere – non caso siamo dalle parti dei Cure più recenti – di “Wasteland Rose”, lo struggente groove di “Colorblind”, la bellezza di “Construction Site” e le reminiscenze di Dummy di “Angel”, ribadite nella conclusiva “Dark Blue”, per tutto il disco la perfetta simmetria tra chitarre e sezione ritmica rilancia con potenza le dissonanze e le scomodità anche nei momenti in cui la smania di affermazione artistica, dall’alto della sua imparzialità, volta le spalle all’urgenza di trovare una risposta, una soluzione, una via di fuga, tra alienazione e malinconia.

Ripe ci lascia con un tragico interrogativo: è possibile opporre resistenza con la musica? Saranno davvero un pugno di canzoni a salvarci?

vintage

Standard

Ho accompagnato qualcuno – probabilmente mia sorella, visto che è disoccupata cronica nonostante abbia sessant’anni suonati e sia categoria protetta – al suo primo giorno di lavoro nel negozio di roba usata in centro, principalmente abbigliamento, un esercizio in franchising di una catena che poi investe i profitti in beneficenza. A fare che non lo so, probabilmente la commessa o qualche mansione più umile, risistemare i capi nel retrobottega prima di venderli o cose così. Il proprietario/gestore però mi ha riconosciuto immediatamente come cliente e mi restituisce – estraendola dal mucchio di capi impilati dietro il bancone all’ingresso – la mia giacca di pelle preferita, un tre quarti scamosciato marrone dal taglio inconfondibilmente anni 70 che avevo acquistato nel 93 o giù di lì alle bancarelle di San Lorenzo a Firenze, durante una vacanza che non dimenticherò facilmente. Ero con Alessandra e alloggiavamo alla pensione Parodi, una bettola decisamente economica considerato il posto, chissà se esiste ancora ai tempi di Airbnb e della riconversione dei centri storici in quartieri per il turismo mordi e fuggi. Una notte una zanzara l’aveva punta sulla palpebra e il mattino dopo si era svegliata con l’occhio vistosamente gonfio, tanto che alla reception – chiamiamola così, anche se si trattava di un servizio molto alla mano – senza tanti complimenti avevano messo in dubbio la mia estraneità all’accaduto, considerando l’eventualità che l’avessi presa a pugni in faccia. Ma vi sembro il tipo?

Comunque la giacca tre quarti in pelle marrone scamosciata mi ha accompagnato per più di dieci anni fino a diventare completamente lisa e mi ha fatto piacere riaverla indietro, almeno nel sogno. Ero convinto di averla gettata una volta diventato padre insieme a tanti altri indumenti e accessori poco opportuni per un adulto maturo e figura di riferimento per un figlia. Non mi trovavo a mio agio in situazioni pubbliche – per esempio in attesa fuori da scuola con gli altri genitori in giacca e cravatta e le mamme con quelle scarpe assurde che uniscono la forma sportiva a una foggia elegante – conciato come un frequentatore dei centri sociali. Non ricordavo invece di averla portata nel negozio per farla riparare e chissà da quanto tempo, so solo che la fodera e le tasche, a furia di indossarla in ogni stagione, si erano completamente distrutte.

Il gestore dell’esercizio, dopo aver spiegato alla persona che ho accompagnato lì le sue mansioni, mi presenta il conto. Non vi nascondo che sperassi che ci fosse del lavoro anche per me, avevo ben altre aspettative che essere trattato come un cliente qualsiasi, ma probabilmente anche il settore del vintage sta risentendo della crisi internazionale, delle guerre, dei dazi di Trump e chissà cos’altro, sempre che la scena sia ambientata al presente. Forse la gente non compra più roba usata a causa della fast fashion, o semplicemente si tratta di un cambio culturale a causa del quale il second hand viene ricondotto all’indigenza e, di questi tempi, nessuno vuole passare per povero.

Una commessa imbusta la mia giacca, mi dice quant’è ma non colgo il costo della riparazione, la ragazza alla cassa biascica le parole come i miei bambini di prima nonostante le abbia chiesto più volte di ripetere proprio come faccio in classe con Giada che parla con un filo di voce e ha il taglio della bocca rivolto verso il basso, come una perpetua espressione di disgusto. Che sfortuna.

Devo pagare forse trentun euro o, come spero io, undici. Il punto è che, nel sogno come nella realtà, non ho mai una lira in contanti nel portafoglio perché sono abituato a utilizzare la carta di credito. Vi dirò di più: sono uno di quei moralisti bacchettoni che criticano i clienti dei supermercati con i carrelli stracolmi di cibo spazzatura alle casse quando estraggono dalle tasche mazzette di contanti per pagare duecento euro e passa di spesa. Ultimamente, tanto sono vecchio e posso permettermelo, mi spendo addirittura in spocchiose paternali con le cassiere, tanto loro ci sono abituate a fare conversazione forzata con gli anziani rincoglioniti in fila.

La cosa strana è che il negozio vintage non ha il POS, tantomeno Satispay, o forse lo fanno apposta per non tracciare l’operazione ed evitare lo scontrino. Così sono costretto a fare una cosa che odio e che è mettermi alla ricerca di uno sportello automatico, e la cosa curiosa è che la commessa mi segue per sincerarsi che io effettivamente prelevi abbastanza contante per pagare la riparazione della giacca. Una precauzione che non sta né in cielo né in terra: se non pago, la giacca resta al negozio. Poi capisco che il problema è che loro non se ne fanno nulla, probabilmente è irrecuperabile, da buttare via, o comunque, di certo, non è possibile metterla in vendita, nemmeno lì non interesserebbe a nessuno.

Bambara – Birthmarks

Standard

Autori di storie americanissime su uno sfondo diversamente post-punk, i Bambara pubblicano il loro album più completo e maturo, confezionando dieci racconti maledetti in cui la sperimentazione di nuove sonorità accompagna la consueta potenza narrativa.

DreamviolenceSwarmShadow on EverythingStrayLove On My Mind e ora Birthmarks. Immaginateli come una collana di libri, raccolte di racconti esposte sullo scaffale nella sezione southern gothic della biblioteca, e voi che avvicinate il viso e inclinate il collo verso destra per leggere il titolo in verticale da vicino, finché con il dito scostate il volume che più vi intriga per trovare conferma delle trame promesse scoprendo, con prudente accortezza, l’illustrazione di copertina. Oppure pensateli come episodi di una nuova stagione di True Detective, ambientata questa volta in Georgia, profondo sud tanto quanto la prima – riuscitissima – in Louisiana.

Dai primi rumorosissimi album all’ultima uscita, tra tutte quella più squisitamente accogliente, i Bambara hanno dato sempre prova di saper coinvolgere il pubblico con la loro scrittura. Veri e propri concept narrativi da fuoriclasse dell’arte del raccontare, trame degne di penne maledette come Harry Crews, short story tra il noir e il grottesco imbevute di tutta la disperazione che pervade la vita nei sobborghi urbani e non degli stati del sud.

Inquietanti vicende notturne o ambientate in bui e ambigui locali da karaoke, palcoscenico di quel tipico underground umano che esiste solo laggiù, pick up parcheggiati fuori e stivali di pitone che si muovono intorno al biliardo e attraverso storie in cui non si vede la luce del sole se non da sopravvissuti all’alba o in uno di quei risvegli soffocati nel migliore dei casi dal tormento, nel peggiore dal vomito, in pieno hangover. Anti-eroi che, visti da qui, ci fanno lo stesso effetto dell’epica studiata a scuola, una mitologia della deprivazione a stelle e strisce che noi non possiamo nemmeno lontanamente immaginare, soprattutto ora che c’è pure Trump.

In Birthmarks lo stile dei Bambara si fa ancora più perfetto scenario ai protagonisti dell’immaginario di Reid Bateh, il cantante-chitarrista che condivide con il gemello Blaze alla batteria e il bassista William Brookshire una delle case di produzione di fiction musicale più convincenti al mondo. Lasciata Atlanta per Brooklyn, la componente noise del loro post-punk si arricchisce di una strumentazione di certo meno ortodossa per il solo clima del sud. Nell’ultimo lavoro la band si avvale di qualche add-on elettronico, linee di synth bass, strumenti a fiato e a corda e persino voci femminili, innesti de-strutturati ma perfettamente riusciti che conferiscono atmosfera e valore alla portata descrittiva delle loro composizioni, e rinuncia quasi in toto all’effetto vibrato e alle mandate di riverbero sulla chitarra elettrica, fino a Stray un loro americanissimo marchio di fabbrica, il tutto senza sacrificare l’essenza del progetto.

Merito anche della co-produzione di Graham Sutton dei Bark Psychosis, qui il risultato è un sound ancora più torbido, accresciuto da venature diversamente cupe che non sfigurerebbero nei passaggi più dark dei Massive Attack, un morso letale che aumenta il rischio per l’ascoltatore di soccombere per avvelenamento. Un apporto decisivo in grado di arricchire l’estro compositivo della band, uno sguardo degno di un direttore della fotografia in una ripresa in grandangolo pensata per espandere il respiro dei brani e lasciare spazio a un approccio ritmico meno radicale e intransigente rispetto ai dischi precedenti. La stessa voce, conturbante e macabra, alterna l’incedere da commento fuori campo a ruolo da crooner protagonista con seducenti impennate melodiche, a confermare la vocazione da capolavoro di un disco dichiaratamente ambizioso.

“Hiss”, calzante traccia di apertura, condensa in quello che sembra il trailer dell’album una toccata e fuga tra sconosciuti in una camera di un motel, tra squallore della frutta di plastica e tenerezze fuori luogo ma dal finale incerto. Le ultime volontà della successiva “Letters from Sing Sing” potrebbero esserne il logico prosieguo, lo stesso uomo che confessa il delitto ed è rinchiuso in attesa della scarica fatale. Una violenza anche nella forma che si stempera in “Face of Love”, in cui il pathos si concentra tutto nel racconto di una fuga – i camion, le strade e le aree di sosta delle pianure americane le conosciamo bene – troppo lenta per far mangiare la polvere ai rimorsi.

“Pray to Me” e “Holy Bones” sono ennesimi titoli evocativi di altrettante storie maledette rese con le trame sonore e gli espedienti strumentali che hanno reso lo stile dei Bambara inconfondibile. Nel disco trova spazio anche il racconto di un sogno, “Elena’s Dream”, dalla voce sussurrante di Madeline Johnston a.k.a. Midwife, qui accompagnato da una base onirica e adeguatamente surreale. Timbriche che cambiano di poco nella struggente “Because You Asked”, una lunga ed esplicita risposta a una richiesta di spiegazioni che, forse, alla fine sarebbe stato meglio non sapere. Il registro industrial di “Dive Shrine” crea una efficace separazione dal resto e fa da preludio alle due tracce conclusive, la mesta “Smoke” e la veloce “Loretta”, la prova che quando si parla di figure femminili, proprio come per la hit “Serafina” di Stray, i BPM necessariamente si impennano.

Con Birthmarks i Bambara si confermano una band senza confronti, veri maestri di sperimentazione musicale a corollario di capolavori narrativi. Uno stile allo stesso tempo crudele e rassicurante, potente e suggestivo che, grazie al suo mix di post-punk e americana – quella meno accomodante, quella dello Springsteen di Nebraska o di Leonard Cohen o dell’ultimo Johnny Cash – si distingue per modernità e indubbia originalità.

sensori

Standard

Stefano è la guida che mi è stata assegnata e, tutto sommato, mi fa piacere rivederlo. La visita alle sale macchine dovrebbe confermarsi un’esperienza terrific, come dicono gli americani con quell’aggettivo falso amico che, al contrario della nostra versione, non nasconde un’accezione pessima. La straordinarietà dell’esperienza comprende un altro aspetto simile alla visita sull’Etna a cui ho partecipato con mia moglie, qualche anno fa: anche qui fino a un certo punto puoi muoverti in libertà, poi si fa troppo pericoloso per i turisti ed è rigorosamente vietato. Oltre a essere a rischio di una multa salata, e considerato il mio RAL è l’ultima cosa che vorrei dover pagare, potrei anche perdermi tra i corridoi – un vero e proprio labirinto senza capo né coda – o farmi male con gli ingranaggi.

In realtà, mi spiega Stefano, il punto è proprio quello. Il revamping degli impianti con il passaggio dalla meccanica pura alla meccatronica, tramite l’associazione di un’asse elettronico ad ogni asse principale del motore, toglierà di mezzo tutti i componenti sporgenti e, soprattutto, renderà superflua la presenza degli operatori lungo le linee di produzione. Il sopralluogo che mi è stato concesso – indosso un vistoso badge al collo e un completo set di dispositivi di sicurezza, per non nominare chi ha interceduto per me affinché ottenessi il permesso, di questi tempi non sarebbe proprio il caso – sarà sicuramente utile per capire come vanno le cose. Come funziona tutto: la vita, principalmente, ma anche quello che ci succede, se sia possibile evitarlo, se ci siano margini di trattativa e, principalmente, se ci sia qualcuno con cui discuterne per migliorare le cose o almeno fare in modo che nessuno trovi motivi per lamentarsi.

La totale assenza di rumore, in un luogo come questo che in altre industrie di cui sono stato ospite colpisce per la sua inesorabilità, rende l’ambiente ancora più surreale, e se pensate dove mi trovo potrebbe sembrare ancora più paradossale. Mi viene da sorridere perché io e Stefano avevamo già vissuto un’esperienza di questo tipo. Gli unici due che camminavano in una via di un centro abitato ma in un giorno della settimana e in un orario in cui non si vedeva anima viva ed ero stato io a insistere per andare proprio lì. L’ultima volta che ho ricordato quell’episodio – prima di questa volta, intendo – immediatamente dopo avevo rigato la macchina al casello dell’autostrada, quegli istanti in cui è difficile farsi un’idea della distanza migliore per ritirare il biglietto.

Non c’è un vero e proprio momento in cui io o la mia guida decretiamo la fine della visita. Si potrebbe continuare all’infinito, volendo, e oggi è proprio una giornata di quelle in cui potrei anche decidere che mi sta bene farlo. Potrebbe essere il cambiamento di stagione, o quel punto dell’anno scolastico in cui noi insegnanti vediamo la fine, o il fatto che la scorsa settimana abbia accompagnato la mia gatta – la veterinaria ha chiamato così l’eutanasia – sorreggendole la testa, come facevo sempre quando mi si accoccolava ormai anzianissima addosso sul divano, nel suo ultimo viaggio. Persone, animali, cose: in questo enorme stabilimento si decide il tutto. Tra poco saranno installati dei sensori che trasmetteranno i dati a un centro che li elaborerà, ma per noi non cambierà nulla. Non è prevista alcuna divulgazione, almeno nel progetto pilota che precederà l’implementazione definitiva.

Joan Thiele – Joanita

Standard

Non c’è Lucio Corsi che tenga. La canzone più indie dell’ultimo Sanremo è quella di Joan Thiele, e basta. Da oggi “Eco” trova casa nel suo secondo album, una produzione dal respiro internazionale pronta per il grande pubblico e il successo che merita. Sempre che riusciate a capire cosa dice quando canta.

Chi l’avrebbe mai detto che un giorno il mondo sarebbe stato di quelli che si mangiano le parole e che un’intera generazione di cantautori e interpreti, penalizzata da un insanabile connubio tra un disturbo dell’articolazione dell’eloquio, l’anelito di rimare con parole tronche per emulare i propri beniamini d’oltreoceano e il desiderio di far percepire il proprio vissuto da underdog, un must dei nostri tempi, si sarebbe alfine imposta come il genere umano predominante nel panorama musicale italiano. Che avremmo dato ragione a gente che si esprime biascicando.

Il tutto mentre quelli della mia generazione, cresciuti a cantanti underground dalla dizione fin troppo impostata e azzimata – pensate a un Miro Sassolini, un Andrea Chimenti o allo stesso Pelù con tutto il suo entusiasmo – si sarebbero trovati nello stesso momento storico anziani ed esposti a questa barriera di incomunicabilità in piena ipoacusia, conseguenza dell’età avanzata e di ascolti giovanili a volumi evidentemente inopportuni. In poche parole, siamo sordi noi o hanno bisogno di un buon logopedista loro?

Per valutare giovani cantanti come Joan Thiele occorre quindi spogliarsi del pregiudizio che, per una serie di motivi che non conosciamo ma dei quali sicuramente noi vecchi sputasentenze rincoglioniti (che ne siamo stati genitori e insegnanti) ne costituiamo in gran parte la causa, nel duemila e rotti i giovani tentano l’emancipazione culturale (e purtroppo linguistica) con fonemi di questo stampo e che quella che sembrerebbe un’omologazione a uno stile vocale tutto italiano, indispensabile per certificare l’appartenenza all’ormai super-genere unico nazionale – quella specie di pop trap rap neosoul imbellettato da urban indie che detiene il monopolio solo da noi, altro non è che una naturale evoluzione del linguaggio. Un destino che ha dell’incredibile: dal latino al volgare, dal volgare all’italiano, dall’italiano al bsgsgsgsg. Abbiamo vissuto la stagione degli urlatori? Bene, ora godiamoci quella dei farfuglioni.

Ma queste sono stupidaggini. Credo piuttosto che la talentuosissima Joan Thiele certo non si offenderà se ammetto di averla scoperta solo grazie al suo contributo all’album di Colapesce Di Martino. La difficoltà di comprenderne il testo senza fruire di un labiale in presenza mi aveva oltremodo intrigato. Poi, la sua apparizione sul palco dell’Alcatraz di Milano come consolidamento del suo featuring proprio per il brano in questione (“Forse domani”, una delle più riuscite tracce di Lux Eterna Beach) accompagnata dalla band degli autori di “Musica Leggerissima”, ha avvalorato il colpo di fulmine. Da allora ho percorso a ritroso la sua carriera grazie all’ordine anticronologico della sua produzione in palinsesto nella più diffusa piattaforma di musica liquida e, fedele al mio modo ossessivo compulsivo di approfondire gli artisti che mi piacciono, mi sono messo in paziente attesa di una prova più rappresentativa della sua maturità. Un album, ma di successo, fatto e finito.

Fino a quando, da uno dei suoi profili social che seguo con fervente devozione, ho appreso della partecipazione al Festival di Sanremo assistendo alla story del momento che mostrava la sua reazione (un vero e proprio POV, com’è tanto di moda oggi) alla notizia del superamento della selezione. Sono stato così sveglio per una settimana fino alle due di notte per scoprire le possibilità che avrebbe avuto “Eco”, senza dubbio la canzone più interessante di tutto il festival, anche molto di più del pluri-favorito Lucio Corsi, di piazzarsi ai primi posti, per poi scontrarmi con la feroce realtà extra-bolla e constatare, per l’ennesima volta, come se non l’avessi mai saputo, la pochezza di un concorso canoro lasciato alla mercè di una giuria popolare di deprivati che, fondamentalmente, di musica non capisce un cazzo, perfettamente in linea con il resto, a partire dal senso estetico per arrivare agli orientamenti politici, antipolitici e astensionisti. Venticinquesima, roba da matti. Ma ormai i giochi erano fatti: Joanita, finalmente il primo disco fuori dalla nicchia, sarebbe stato pubblicato di lì a poco.

Ed eccolo qui. Nella
sua intervista a Il Manifesto di qualche giorno fa la cantautrice (italiana ma, grazie al miscuglio di residenze e incroci genitoriali, cittadina del mondo) ha ammesso l’impegno e la caparbietà necessaria a portare a termine un disco così sofisticato in quasi tre anni. Un impegnativo processo di composizione musicale, arrangiamento, scrittura dei testi e assemblaggio nella forma canzone in grado di mettere fuori gioco anche un carattere perfezionista e una personalità dal gusto sopraffino come Joan Thiele. Fino a quando l’istinto, i consiglieri giusti e una produzione molto poco italiana hanno sbloccato il livello e spianato il percorso più adatto ad arrivare sino in fondo e chiudere il progetto.

Dentro a Joanita la regia di Callum Connor dei Free Nationals, l’apporto di Mace, il beneplacito della figlia di Piero Umiliani per certi smaccati tributi alle colonne sonore del padre e il featuring di Frah Quintale che colloca meglio il prodotto nel calderone nazionale (autore dell’ennesima non-rima frequente in questo genere di canzoni – ‘Sta vita è troppo corta, ti verso un Franciacorta – che è un vezzo che mi manda in bestia) fanno da cornice alla vera protagonista.

Dodici tracce (più uno scherzo finale) che funzionano sotto tutti i punti di vista. Melodie intriganti ma sufficientemente contenute per non sconfinare nel pop dozzinale, con il giusto alternarsi tra cantato e quel flow che sembra sempre che chi recita stia per andare in un inebriante fuori tempo ma che invece, dimostrando di gestire al meglio la situazione, essendo convintamente cool, ha tutto sotto controllo. Pattern e suoni di batteria che cullano l’ascoltatore tra il trip hop e il breakbeat. Trovate e arrangiamenti ispirati alle orchestrazioni della canzone italiana anni ’60 (la chitarra suonata con il riverbero e altri effetti garage-surf su tutti) e, in genere, groove a volontà. Un raro sfoggio di stile che si accende su un immaginario cinematografico centrato sulla voce narrante di Joan Thiele, artista unica, songwriter sorprendente e figura ricca di fascino.

Joanita sarebbe un disco da massimo dei voti se non fosse per la dizione irritante, una posa che, anziché conferire valore aggiunto all’opera, ne omologa le tracce a un provincialissimo cliché – che ahimè va per la maggiore – oramai trito e ritrito, sicuramente poco inclusivo, ampiamente pretenzioso e per questo più che superfluo. Ma non ve l’ha mai insegnato nessuno, da piccoli, che non si parla con la bocca piena?

il nome della rosa

Standard

Non ho ancora ben capito cosa voglia dire invecchiare ma se avete qualche dritta da darmi ogni suggerimento è il benvenuto. Talvolta mi capita di riflettere sull’argomento grazie a qualche spunto fornito dai libri che leggo, dai film e dalle serie tv, oppure semplicemente osservando e ascoltando persone in carne e ossa. Rifletto sulle esperienze altrui, presunte o autentiche o anche solo ispirate da fatti avvenuti realmente, provo a sovrapporle al mio vissuto – passato, presente e futuro – e cerco di trarre degli insegnamenti più che delle conclusioni, anche se poi, al lato pratico, torna tutto come prima. Trascorro il tempo libero ad ascoltare band di venti o trentenni americani e inglesi che si rifanno ai Killing Joke e ai Joy Division, ragazze e ragazzi che potrebbero essere miei nipoti, ma poi lo noto il contrasto con il riflesso che vedo di sfuggita sulle superfici lucide quando cammino, nonostante cerchi di evitare come la peste gli specchi fatti e finiti. Manca la corrispondenza che certe convenzioni sociali impongono tra come ci si deve sentire e come veniamo percepiti all’esterno e, nonostante colga di continuo le molteplici conferme di questo disallineamento e le conseguenti inadeguatezze, faccio fatica a trovare una soluzione. Anzi, a dirla tutta, non riesco proprio a capire come sia possibile arrendersi, se di resa si tratta.

Vi faccio un esempio. Ho avuto l’occasione di seguire qualche frammento – notate che mi vergogno non poco ad ammettere di essere arrivato fino in fondo a episodi interi – della trasmissione “The Golden Bachelor”, in onda sul canale Real Time. Dovete credermi però rispetto al motivo per cui l’ho scoperta. Il programma va in onda in coda a “Casa a prima vista”, format per il quale nutro una smodata quanto irrazionale passione. La spiegazione di tanto entusiasmo per i sei agenti immobiliari che si alternano tra Milano e Roma deriva da un latente trasporto per il design degli interni unito a un sentimento che non saprei definire per l’architettura (e gli architetti), mentre poi – ed è paradossale – non stimo particolarmente i venditori di appartamenti a partire da quello che, non mi spiego ancora come ci sia riuscito, si è procurato il mio numero di telefono perché qualcuno, per farmi uno scherzo, gli ha detto che casa mia era in vendita. Figuriamoci. Non mi separerei mai dagli ambienti da cui vi sto scrivendo. Mi ha chiamato e gli ho smentito la diceria, lui non contento si è presentato due volte qui sotto fino a quando ha preso coraggio e mi ha intercettato per chiedermelo di persona. Ho un sospetto su chi gli abbia potuto fornire i miei contatti e certe informazioni false. Ho un vicino che vota sicuramente Salvini ed è in pensione da quando ha compiuto 54 anni. Lo incrocio sempre, quando esco, nei pressi del nostro condominio con il suo cane di merda mentre fa finta di telefonare per non salutare o fermarsi a chiacchierare con i vicini, nonostante a nessuno verrebbe mai in mente di scambiare due parole con un potenziale serial killer così. Quindi, per tornare a noi, vai a sapere come nascono certi interessi.

Comunque è successo che, al termine di una puntata di “Casa a prima vista”, mi sono involontariamente esposto alla visione di “The Golden Bachelor” un mercoledì sera e, in una delle classiche sessioni di spegnimento del cervello e dell’elusione delle barriere inibitorie del giudizio dopo una stressante giornata lavorativa, mi sono lasciato sommergere da questa specie di incrocio tra “XFactor”, “Uomini e donne” e uno di quei dozzinali programmi in cui le persone si incontrano per conoscersi e finire a letto dopo essersi destreggiati in una qualsiasi forma di competizione tra di loro: seminudi in un’isola selvaggia, circondati da veline e tronisti tentatori quanto burini, abbinati a cazzo per un improbabile primo appuntamento a puro scopo di audience.

Conoscerete sicuramente anche questo, di format: uno scapolo ha a disposizione una sorta di harem composto da una decine di donne tra le quali deve scegliere l’esemplare con cui intraprendere una storia romantica che, sulla carta, dovrebbe essere quella decisiva. A ogni puntata ne prova una o due, nel senso che le sottopone a qualche pratica d’antan presa da un fotoromanzo rosa fino poi comunque a limonarsele – come biasimarlo – e ne scarta un paio fino a quando, immagino perché il programma è ancora nel pieno della gara, resteranno le finaliste e infine la vincitrice. Che poi, diciamocelo, di che premio si tratta? Comunque, sia il protagonista sia le concorrenti sono tutte persone piuttosto attempate. Divorziate e vedove, reduci dai più disparati vissuti personali e intimi, che per un motivo o per l’altro hanno deciso di mettere i propri sentimenti alla berlina e regalarsi questa sorta di favola d’antan in piazza. Non entro nel merito delle trame che a ogni episodio si dipanano. Il punto è che, quando scrivo concorrenti attempati, intendo donne e uomini a grandi linee miei coetanei. Lo scapolo ha tre anni in più di me, le sue pretendenti sono in un raggio di età coerente e potrebbero tranquillamente esser state mie compagne di classe o di università.

Nel corso dell’ultimo episodio, tutto incentrato sul potere seduttivo della danza, Massimiliano Pace – questo il nome del bachelor d’oro – se non ho capito male ha sostenuto di aver ridotto, da giovane, a un uso strumentale la canzone “Kiss” di Prince con l’obiettivo di sbaciucchiare ragazze in pista da ballo sfruttando il punto in cui si sente la riproduzione a tempo dell’inconfondibile schiocco delle labbra. Lui è un uomo attraente e sicuro di sé e immagino che in discoteca abbia fatto scintille. Il fatto è che “Kiss” è un brano dell’86 e io avevo diciannove anni, e anche se nei locali che bazzicavo io i dj se ne guardavano bene dal mettere una qualunque canzone di Prince, mi sono reso conto proprio in quel passaggio di avere in comune con il protagonista della trasmissione un trascorso da coscritto. In poche parole, in quella trasmissione potrei esserci io, da un punto di vista anagrafico. Il punto è che lo scapolo conteso, a vederlo così, a interpretare la percezione che ne ho io, mi sembra mio nonno, nonostante ci separino una ventina di mesi. Io non mi vesto come lui, non vado a cavallo, non parlo così, ho dei trascorsi da adulto decisamente più ordinari e soprattutto non ballerei mai il tango con una donna per cogliere l’intesa ma, al limite, “Charlotte Sometimes” o “Love Like Blood” o “Shake The Disease”.

Con lo stesso metro di giudizio, le concorrenti mi sembrano mia nonna nonostante siano donne decisamente attraenti e in forma, malgrado l’età. Si vestono giustamente con vestiti eleganti da sciure e nessuna, per dire, calza anfibi o Camper. Un altro aspetto che mi ha colpito è che sono a grandi linee coetanee anche di molte delle mie colleghe maestre e, riflettendoci, anche loro le vedo così, molto più grandi di me di almeno un paio di generazioni, quando magari invece sono più giovani ma, nel comportamento, mi superano ampiamente in maturità.

Non solo. Le concorrenti di “The Golden Bachelor”, lì a più o meno sessant’anni in versione single a valle di esperienze di coppia per motivi diversi fallimentari, indurite nel temperamento dalle traversie sostenute e non sempre risolte, manifestano un forte – e legittimo – desiderio di abbandono all’uomo ampiamente superato. Un anelito di resa che non nascondono al loro partner in potenza, in cui ricercano il ruolo protettivo da film americano anni cinquanta, come se decenni di emancipazione femminile e di conseguente rieducazione maschile non fossero mai esistiti. Al termine di ogni episodio, consumate tutte le prestazioni necessarie a creare un’intesa con le concorrenti, lo scapolo consegna rose alle donne che, superata la prova, passano al turno successivo. Ogni volta due restano sul campo, fanno armi e bijoux e tornano piccate e deluse alla loro dimensione privata e, da come l’hanno presentata, incompleta. Donne che cercano protezione e rose salvifiche in omaggio è un connubio di luoghi comuni che mi lascia attonito. Spero che anche voi cogliate la portata diseducativa e deviante di pratiche come questa e di un programma davvero ai confini della realtà. La rosa, poi, è un presente dal significato oltremodo svilente. Non è più romantico un libro o un disco?

cimeli

Standard

Una volta viaggiavo abbastanza spesso per lavoro e, quando mi era possibile, rientravo a casa portando qualcosa acquistato in trasferta. Tortellini a Bologna, cannoli a Catania,  piadine industriali in Romagna, una boccia magnum di amarone dal Veneto e persino una confezione famigliare di carta igienica ricevuta in omaggio, dono di una fabbrica ubicata nel principale distretto produttivo del settore in Toscana. Spostare specialità del luogo da un posto all’altro è una pratica che probabilmente è composta della stessa sostanza del commercio export, non mi intendo di economia quindi potete confrontarvi tra di voi mentre metto un disco. A conferma di quello che dico ci sono persino leggende metropolitane come quella della focaccia comprata a Genova che, scollinato il Turchino, perde croccantezza e aumenta volume diventando mandrogna (giustamente si attraversa l’alessandrino) e, giunta a Milano, la puoi usare per lavare i piatti – la pasta – e per lubrificare i pistoni del motore – l’olio – grazie alla precisione con cui le condizioni ambientali contribuiscono a separare le componenti. Nonostante questo, i colleghi padani che ne beneficiavano non andavano tanto per il sottile. Qualunque materiale riconducibile alla principale specialità ligure a colazione – rigorosamente pucciato in qualsiasi bevanda prodotta dalle cialde come impone la tradizione rivierasca – risultava oltremodo gradito andando a ruba in tempo per il primo staff meeting della mattinata.

Operare nella scuola invece non comporta questo genere di trasferte di lavoro giornaliere o di brevissimo termine, a parte Didacta e altre perdite di tempo del genere. Ci sono le tratte migratorie con la T maiuscola dal sud al nord, questo sì, ma durano il tempo di una supplenza annuale, anche se i rientri dopo le vacanze e i ponti lunghi dei colleghi più zelanti nello stringere legami sono un’inestimabile occasione per gustare dolcetti e altre prelibatezze meridionali. Chi invece fa armi e bagagli e si trasferisce di sana pianta – pensate a chi entra in ruolo al nord e quindi volente o nolente impiega anni a ottenere uno straccio di trasferimento – tiene strette le sue radici. L’accento non si stempera mai e le occasioni in cui sfoggiare teglie di melanzane alla parmigiana (fritte e rifritte prima dell’inforno) o spacciare nduja tra i corridoi sono costantemente dietro l’angolo. Per questo mi sorprendo sempre ogni volta in cui qualcuno mi fa notare che la mia cocina ligure non si percepisca affatto. Chissà quando e dove l’ho smarrita. Nessuno mi chiede nemmeno più se mi manca il mare, elemento di cui facevo a meno persino quando abitavo a qualche centinaio di metri dal bagnasciuga. Una cosa a cui non so resistere però sono i canestrelli di Sassello confezionati che si trovano nel distributore in aula docenti. Sapete come funziona, vero? Più un prodotto va a ruba, più viene confermato da chi si occupa del refill. Ed è per questo che non perdo occasione di fare merenda – anche per il break di metà mattinata – con una confezione di canestrelli di Sassello accompagnata da quella brodaglia al sapore di caffè macchiato della macchinetta a fianco. I canestrelli tipici delle mie parti, a onor del vero, si trovano anche al supermercato e se mi rifornissi su più ampia scala alla grande distribuzione sono certo che risparmierei.

Tutto questo per rimandare il più possibile una cosa che apparentemente non c’entra nulla. La mia gatta è conciata malissimo, è vecchia e il veterinario sostiene che c’è poco da fare, anche se attende l’esito delle analisi del sangue per dare un parere più preciso. Ho aspettato troppo per il controllo perché avevo paura che mi proponesse di sopprimerla, allo stesso modo in cui oggi non riuscivo a scriverlo qui. Sono anche profondamente deluso da me stesso per non essere tutt’ora in grado di assumermi responsabilità come queste, far visitare la gatta e scrivere cosa c’è che non va qui. Vabbè. Sarà per il prossimo blog.

Vent’anni di Socialismo Tascabile: intervista a Max Collini

Standard

Questo pezzo è uscito su Loudd.it

Ho una foto di mia figlia da piccola che, con addosso un paio di cuffie Sennheiser indiscutibilmente oversize rispetto alla sua testa, manovra la modulation wheel del mio Microkorg con la mano sinistra, mentre con l’altra schiaccia qualche tasto a caso, né più né meno di quello che da giovane facevo io quando mi atteggiavo a Boosta dei Subsonica, ma prima di Boosta dei Subsonica e penalizzato dall’assenza di un supporto a molle per la mia strumentazione. L’ho scattata qualche mese dopo l’uscita di Socialismo Tascabile degli Offlaga Disco Pax. Mi aveva colpito l’immagine della copertina del disco, e quel giorno in cui mia figlia mi aveva sorpreso mostrandosi interessata a seguire le orme del papà (cosa da cui ha desistito immediatamente per coltivare passioni che fortunatamente hanno richiesto investimenti meno impegnativi in termini di equipaggiamento) non mi ero lasciato scappare l’occasione di accendere il synth, metterglielo davanti e immortalare l’irripetibilità del momento.

Credo che in quel sabato mattina sia andata poi di lusso quasi a tutti. Mia figlia ora ha ventun anni e si sta godendo la libertà di studiare all’estero, almeno per il periodo dell’Erasmus. Io scrivo recensioni di dischi e musica (per la gloria, ça va sans dire) per una webzine tutto sommato genuina e con una sua dignità, grazie alla quale ho intervistato persino Max Collini, che da tempo condivide con Paola Egonu il mio personalissimo pantheon di figure per le quali nutro una smodata stima.

Gli Offlaga Disco Pax, dieci anni dopo la dolorosa scomparsa di Enrico Fontanelli (fotografo e zio della bambina in copertina nelle prime tre edizioni del disco nonché padre della protagonista dell’ultima) si sono temporaneamente ricostituiti per un tour celebrativo dei vent’anni dall’uscita dell’album d’esordio che, ad oggi, ha doppiato le date con cui era stato inizialmente organizzato e vanta diversi sold out in location da mille posti, quelle che organizzano concerti che viene gente anche da fuori a vederli.

Devo ammettere che abbiamo sottovalutato l’affetto che ci circonda”, esordisce Max Collini, raggiunto al telefono. “L’idea è stata mia e quando ho proposto a Daniele Carretti questa iniziativa per i vent’anni ha accettato con entusiasmo. Ci siamo così rivolti alla nostra agenzia storica – Lorenzo Bedini di Antenna Music Factory, la stessa che ha gestito tutta l’attività live degli ODP dai primissimi concerti sino allo scioglimento – il quale ci ha sorpreso proponendo locali con una capienza ben distante dai numeri che avevamo raggiunto nell’ultimo tour”.

La scommessa sul successo dell’iniziativa è stata così vinta dagli organizzatori. “Lorenzo si è mostrato certo sul fatto che i biglietti sarebbero stati presi d’assalto nel giro di pochissimo”, aggiunge Max. “Lato mio c’era il desiderio di suonare dal vivo di nuovo quelle canzoni, anche solo come celebrazione di quello che era stato, senza particolari ambizioni. Pensavamo di ritrovare un po’ degli amici che ci seguivano all’epoca ma probabilmente non ho tenuto conto di quello che è accaduto intorno a noi negli ultimi dieci anni”.

Nel frattempo è cambiato tutto. Del socialismo in espansione come l’universo, già in piena contrazione nel 2005, non si percepisce nemmeno più l’eco del big bang da cui è scaturito. Il match contro i vetero-sensibilisti che perdevamo due a zero è stato annullato per manifesta incapacità dell’avversario (cioè noi) e della Golf, oggi, è presente sul mercato persino un modello ibrido. Ma non è difficile immaginare chi sarà presente in prima fila.

Non sappiamo chi si sia precipitato ad assicurarsi i biglietti”, sottolinea Max. “Forse la vecchia guardia, o forse le generazioni che non ci hanno incrociato perché ai tempi troppo giovani”. L’ultimo concerto degli Offlaga risale a settembre 2013, da allora sono trascorsi dodici anni. “Nel frattempo ci siamo trasferiti sulle principali piattaforme di musica liquida e le nostre canzoni possono essere rintracciate in ogni modo. Per questo credo che troveremo un pubblico eterogeneo. Ci sono ragazzini che vanno a vedere i Diaframma per il tour dei quarant’anni di Siberia, un disco che è uscito quando non erano nati nemmeno i loro genitori. Non so veramente cosa aspettarmi, te lo saprò dire quando inizieremo i concerti”.

Tra quelli che sono riusciti ad accaparrarsi due biglietti della prima data ai Magazzini Generali di Milano ci sono anch’io, alle soglie dei sessant’anni, ma sono sicuro che non sarò il più vecchio del locale. Anch’io, come Max, ho fatto l’esame di seconda elementare nel 1975. Ho avuto così la fortuna di vederli più volte dal vivo, lungo i tour promozionali dei loro tre dischi. Gli aspetti che da subito mi hanno colpito dei loro live sono la sicurezza e la precisione con cui Collini riesce a seguire la struttura dei pezzi nonostante la formula spoken word dei testi. Finché canti, andare a tempo e riuscire a rispettare, con una melodia, strofe e ritornello è tutto sommato semplice. Per i testi declamati cambia tutto. Nel caso degli Offlaga la differenza la facevano lo stile e la strumentazione di Enrico Fontanelli e Daniele Carretti, composta da sintetizzatori, drum machine ed effetti manovrati dal vivo, oltre a basso e chitarra. L’assenza di basi (e la conseguente maggiore libertà sul palco) in brani che altre band farcirebbero di sample e tracce daw pre-registrate è l’altro fattore che li ha resi unici.

Abbiamo ripreso a suonare con un terzo musicista, Mattia Ferrarini, e a provare i pezzi a metà novembre”, chiarisce Max. “Quella di Mattia è stata una scelta abbastanza naturale. È uno di noi, appartiene al mondo musicale di Reggio Emilia, e ha suonato in alcuni gruppi che conosciamo. Non ha un passato né un profilo da session-man. Con lui condividiamo diverse passioni e somiglia molto a come eravamo noi quando abbiamo iniziato e quando abbiamo registrato Socialismo Tascabile. Nessuno degli Offlaga era un virtuoso, pensavamo di avere delle cose da dire e cercavamo di farlo nel miglior modo possibile, secondo le nostre capacità”.

E quando chioso sul fatto che per suonare certi pezzi occorre anche essere fedeli alla linea, Max non ha dubbi. “Mattia è una persona con la stessa nostra sensibilità. Non è stato sottoposto a uno screen per identificare la sua posizione politica, cosa vota e cosa pensa. Ma per come suona, per le cose che gli piacciono e per gli ascolti che ha, pensare che non sia un uomo profondamente progressista, libertario, di sinistra, democratico e antifascista è impossibile. Non si può suonare e ascoltare il nostro repertorio, o vivere come Mattia vive la sua vita di musicista, e votare Fratelli d’Italia. È inconcepibile. Non riesco a immaginarlo. La sintonia è umana, prima di tutto. Noi cercavamo una persona che potesse farci sentire a casa. Saremmo potuti ricorrere a un professionista qualificato, magari con tempi tecnici più veloci, e magari avremmo lavorato meno. Probabilmente nel giro di due settimane avremmo riarrangiato e sistemato tutto con una certezza superiore del risultato, ma non era quello che cercavamo”.

E anche se provare con un altro musicista che non fosse Enrico, nel ruolo di chi si deve occupare di cose così complicate che, a detta di Collini, nemmeno Enrico stesso, a volte, sapeva spiegare come facesse, non è stata un’operazione immediata, i risultati non sono tardati. “L’unico obiettivo che avevo era di conferire la giusta dignità ai pezzi e prepararli in modo adeguato”, sottolinea Max, “evitando di proporli in una veste o una produzione non convincente o non consona rispetto alla nostra storia, in linea con quello che siamo sempre stati: un gruppo rigoroso, in grado di portare sul palco sempre il miglior concerto possibile. La prima cosa che abbiamo detto nel momento in cui abbiamo rimesso insieme la band è stata di metterci in condizione di non arrivare alle prime date impreparati o non convinti di quello che stavamo facendo”.

Nel frattempo, altre cose sono cambiate, e non solo per i fan degli Offlaga. “Com’è suonare al tempo di Giorgia Meloni? Non ne ho idea”, ammette Max. “Noi siamo una cosa talmente differente da ciò che rappresentano la politica e la società oggi da risultare una bolla, al di fuori del paese reale, nella sua complessità. Quello che spero è che gli Offlaga e chi li segue siano una sorta di virus in grado di mettere in qualche modo in discussione lo stato di cose esistente”.

Se, come me, di quella bolla avete un abbonamento a vita, anche solo honoris causa, avrete assistito al culto di cui le canzoni degli ODP sono state oggetto sui social da quando i social si sono diffusi. Pochi artisti, in Italia, possono vantare versi così efficaci da entrare nell’uso comune e alimentare citazioni o meme. A me vengono in mente Elio (per ragioni diametralmente opposte), i CCCP, Calcutta e Max Collini. Parole ricche di situazionismo poetico, in grado di cristallizzare eventi e attitudini. Questo significa cogliere nel segno e penetrare nella cultura.

Negli otto anni e mezzo in cui siamo stati sulla scena abbiamo dato voce a una nicchia”, continua Max. “Negli anni zero, quando facevi cinquecento persone a Bologna eri già un fenomeno di tutto rispetto. Questo prima di Calcutta, che ha decuplicato il pubblico dell’indie italiano. Il lessico di Socialismo Tascabile nel 2005 risultava desueto, maneggiato con molta autoironia, e paradossalmente ha incuriosito generazioni successive a quella cui invece pensavamo di rivolgerci. Da allora gli Offlaga si sono evoluti, anche nel modo di scrivere i testi. Bachelite Gioco Di Società, sotto questo punto di vista, non sono sovrapponibili al primo album. Un cambiamento che però non è avvenuto per una scelta estetica a monte. Eravamo cambiati noi, era mutata la consapevolezza di quello che facevamo, io stesso non volevo raccontare le stesse cose nello stesso modo. Per questo, dal punto di vista lessicale e semantico, nei testi di Gioco Di Società, che è arrivato sette anni dopo, c’è qualche affinità con i precedenti ma sono evidenti anche molte divergenze. La voce e il tono sono gli stessi, ma sono cambiate un po’ di cose. Forse sarà per questo che Socialismo Tascabile si è consacrato il disco più amato degli Offlaga”.

C’è un momento dell’anno in cui, puntualmente, gli Offlaga tornano alla ribalta. Ogni 2 agosto, anniversario della strage di Bologna, la canzone “Sensibile”, forse il brano con il significato più forte di tutto il loro repertorio, viene ampiamente condivisa sui social. Ma il video che circola e va per la maggiore non è ufficiale e, a differenza dei (pochissimi) video della band,  sembra banalizzare il tema trattato. Non sarebbe il caso di pubblicarne uno ufficiale, in modo da risolvere la questione alle radici?

No”, su questo Max non ha dubbi. “Siamo sempre stati attenti a non risultare didascalici, e realizzare un video su un argomento così controverso, in un momento in cui i videoclip sono prodotti superati, non avrebbe più lo stesso impatto di allora. Il video non ufficiale che circola è pieno di ingenuità. C’è da dire che non siamo mai stati inappuntabili nemmeno noi nella scelta dei singoli, “Robespierre” a parte. Non siamo mai riusciti a individuare il brano più forte negli altri album, che in Bachelite è sicuramente “Sensibile”, molto più di “Ventrale” e “Onomastica”, e in Gioco Di Società è “Piccola storia ultras”, più di “Parlo da solo” o “Respinti all’uscio””.

Canzone che, su tutte, è accompagnata dal mio video preferito.

Il video di “Respinti all’uscio” è stato interamente pensato e realizzato da Enrico, grazie all’archivio messogli a disposizione dalla nostra televisione locale, TeleReggio. Lì Enrico ha trovato pochissimo materiale utilizzabile del concerto dei Police, così ha pensato di integrarlo con riprese di riempimento tratte dai telegiornali dell’epoca. Senza saperlo, ha scelto immagini che mi riguardano, a partire da un corteo di studenti dell’8 marzo in cui ho riconosciuto i miei compagni di militanza della FIGC e una mia fidanzatina dell’epoca. Il tutto, ripeto, in modo involontario. La prima volta che l’ho visto, e tieni conto che allora Enrico stava bene e non c’era nessuna avvisaglia o pericolo per il futuro della band, ho pianto dalla commozione e dalla contentezza. L’ho trovato centratissimo, bellissimo, con un gusto perfetto per quel tipo di montaggio e nel modo di raccontare la città. Ed è allo stesso tempo la perfetta nemesi del video di “Parlo da solo”, realizzato da Luca Lumaca, un bravissimo videomaker nostro amico, in cui, visto da qui, emerge invece una città che ricorda Reggio durante il lockdown. Un panorama urbano abbandonato in cui un’automobile si muove lungo vie deserte, e sullo sfondo solo edifici senza traccia di esseri umani. La città contemporanea, desolata e spopolata, in contrapposizione alla Reggio degli anni 80, piena di gente, di vita, di fermento e di gioiosa confusione”.

Un altro momento in cui mi si ripropongono ciclicamente gli Offlaga Disco Pax è il mese di febbraio, per motivi indubbiamente meno nobili. Ogni anno mi approccio a Sanremo con una fantasia perversa, quella di trovare, nella serata dei duetti e delle cover, gli Offlaga Disco Pax accompagnare uno dei concorrenti del festival nell’esecuzione di uno dei loro brani. Nell’anno di Lucio Corsi, un outsider un po’ come loro, ho chiesto a Max con quale artista italiano vorrebbe condividere il palco dell’Ariston e con quale titolo.

Sarebbe senz’altro un concorrente suicida, o almeno un amante del pericolo. Ci vorrebbe un artista che allo stesso tempo fosse da Sanremo ma che avesse con noi almeno un’affinità umana, se non personale. L’unico che mi viene in mente in questo momento, per attitudine e anche perché con lui ho già diviso il palco qualche anno fa, in un concerto per Enrico Fontanelli organizzato alla Flog di Firenze per i 30 anni del Rock Contest, è Dario Brunori. Abbiamo eseguito insieme una versione abbastanza curiosa e con accento calabrese di “Dove ho messo la Golf”. Il problema è che Brunori non è matto e non chiamerà mai gli Offlaga a duettare con lui”.

Non vi nascondo che io speravo invece in una versione di “Lungimiranza” con Ligabue e Vinicio Capossela.

Ah certo, quei due vengono di sicuro. Ipotesi molto suggestiva però, a prescindere dalla nostra disponibilità, Ligabue non farà mai Sanremo, Capossela ha già partecipato con Giovanni Truppi, ma comunque nessuno dei due ci chiamerebbe mai. Sono un grande fan di Lucio Corsi, ma il suo immaginario di riferimento non è sovrapponibile a quello degli Offlaga. Ma chi è che ha un immaginario di riferimento sovrapponibile al nostro? Più probabile che invece uno come Manuel Agnelli possa assegnare la cover di “Robespierre” a un concorrente di X Factor, questo non lo escludo. Resta il fatto che Sanremo è fuori dalla nostra portata. L’unico brano degli Offlaga che potrebbe avere un senso al Festival è “De Fonseca”. Una canzone che parla d’amore e non di politica, nonostante il brand citato che è una cosa che non piace agli organizzatori, anche se dall’avvento della trap e del rap le cose sono un po’ cambiate e grazie a “Minchia signor tenente” di Faletti si sono aperte le porte al parlato sulle canzoni. Ma Sanremo non è il nostro mondo. Mi piace seguirlo perché è uno spaccato della società italiana e per parlarne male, ma anche bene. Quello che ho apprezzato di quest’anno è vedere tre cantautori, tutti e tre sul podio, alla faccia degli autori che firmano qualunque canzone possibile e immaginabile. I primi tre posti occupati da artisti che si sono scritti da sé i loro brani. Un bel segnale verso le catene di montaggio delle case discografiche”.

Volevo raccontare un’ultima cosa a Max Collini, ma dovevamo chiudere l’intervista, così la scrivo qui. Anni fa ho acquistato una maglietta sbagliata, che è una linea di t-shirt illustrate con vistosi abbinamenti grafici e concettuali consapevolmente paradossali, principalmente in ambito musicale, frutto di un’idea geniale del mio amico ed ex collega Dietnam. Il modello che avevo scelto era quello con l’iconica onda del pulsar di Unknown Pleasure con sotto, al posto della scritta Joy Division, il nome dei Nirvana. Qualche settimana dopo ho notato una foto proprio di Max Collini davanti al microfono con la stessa maglietta. Aveva condiviso l’immagine sul suo profilo Facebook, e ricordo benissimo che c’era gente che non aveva capito e commentava stupita il grossolano qui pro quo. Ma come, uno come il cantante degli Offlaga Disco Pax, che sa chi è Mark Lanegan, non conosce i dischi di due band così importanti e si lascia trollare in questo modo?

Poche settimane dopo ci sarebbe stata una serata del progetto Spartiti, quello di Collini con Jukka Reverberi, al Carroponte di Sesto San Giovanni. Avevo già visto due volte gli Offlaga proprio nella stessa location. La prima, ricordo, avevo portato con me mia figlia, quella della foto con il Microkorg. Prima del concerto, in prossimità del palco, c’erano dei saltimbanchi che vendevano delle palle da giocolerie. Mia figlia, quell’estate appassionatissima di bandiere, aveva chiesto di comprare il set con i colori dell’Ucraina. La questione del Donbass, per non parlare di Zelens’kyj e della guerra con Putin, era ancora lontana da arrivare, e quegli artisti di strada si erano semplicemente sorpresi della competenza in geografia di una bambina delle elementari. L’abbinamento dei colori con cui realizzavano gli oggetti per i loro numeri era del tutto casuale, per non parlare della totale involontarietà di un richiamo nei confronti di qualche nazionalismo ancora latente. Alla data di Spartiti, anni dopo, mi ero invece presentato da solo, con un anticipo prudentissimo. Avevo persino incrociato Max Collini a spasso per il parchetto che circonda il Carroponte. Max aveva notato la maglietta sbagliata come la sua che avevo indossato per l’occasione, commentando la cosa con una battuta.

C’è un’altra parte piuttosto curiosa di questa storia, che più o meno coincide con il finale. Ho messo e lavato quella maglietta in cui Ian Curtis e Kurt Cobain condividono lo stesso logo innumerevoli volte, fino a scolorirla e a renderla inutilizzabile. L’anno del lockdown, era il 2020 e in estate sembrava che il virus ci avesse concesso una tregua, ho chiesto a mia suocera novantenne, tutt’ora in gambissima, di ricavare una mascherina anti-covid ritagliando la parte della maglietta con il disegno del pulsar. Ne avevo vista una identica su Instagram e mi era sembrata una buona idea. Le mascherine in cotone non erano il massimo dal punto di vista della prevenzione ma potevano comunque essere indossate nelle situazioni meno a rischio.

Le ho mostrato il disegno sul davanti della t-shirt e mi ha confortato sapere che ci fosse sufficiente tessuto per ricavarla. Quella occasione ha dimostrato che mia suocera non è una fan dei Joy Division, malgrado ai tempi del loro blasonatissimo disco d’esordio fosse più giovane di me nel momento in cui le ho fatto questa richiesta da adolescente. Non essendo riconducibile propriamente al movimento post punk/new wave, mia suocera ha infatti utilizzato lo scampolo della maglietta ma con il disegno ruotato di 90 gradi in senso anti-orario, con le celebri pulsazioni elettromagnetiche messe in verticale anziché in orizzontale, forse pensando che l’orientamento non avesse importanza. Avevo dato per scontato che avrebbe realizzato la mascherina come la maglietta, ma in realtà il modo in cui posizionare le onde era un’istruzione necessaria. Il disegno messo per così risultava dissacrante e iconoclasta in eccesso, e la mascherina ovviamente non l’ho mai utilizzata. Malgrado ciò, non ho fatto notare l’errore a mia suocera, che anzi avrebbe potuto lanciare una linea di mascherine sbagliate. La morale è che le persone anziane non sono in grado di cogliere l’amore per il rock dei giovani come me e la serietà con cui prendiamo cose come queste.