la ruota della fortuna

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Converrete con me che il canale Real Time sia un vero concentrato di trash, a parte “Casa a prima vista” che, nonostante l’ultima stagione decisamente deludente – sarà per gli aspiranti acquirenti sempre meno interessanti, sarà per l’eccessiva ripetitività del format – si conferma uno dei più riusciti tentativi di confort entertainment televisivo. Il resto della programmazione dev’essere inqualificabile, a partire dalla fiction turca “Hercai” della quale viene trasmesso il trailer spot durante le interruzioni pubblicitarie di “Casa a prima vista”.

“Hercai”, che dev’essere una boiata senza precedenti, sembra però spassosissima per i gap tra il doppiaggio e il sinc con il labiale dei protagonisti. Non è colpa di nessuno, ci mancherebbe, se non dell’abisso glottologico che separa la lingua italiana da quella turca. Il gioco dell’osservazione attenta delle bocche degli attori metterebbe in seria difficoltà anche i migliori campioni in quelle prove di abilità in cui si sfoggia l’indipendenza di due parti del corpo che svolgono simultaneamente due cose differenti: strisciare una mano sul petto mentre l’altra lo percuote, pronunciare no mentre con la testa si annuisce, ascoltare la musica in auto mentre si abbassa il finestrino al casello autostradale per premere il pulsante e ritirare il biglietto. In “Hercai” colpiscono i dialoghi pronunciati mentre le labbra eseguono movimenti completamente agli antipodi e ci si chiede dove risieda il reale bisogno di importare trasmissioni turche, o al limite di doppiarne le voci, consapevoli di questa antitesi incolmabile.

Per mettere subito le cose in chiaro e fugare qualunque illazione di razzismo o snobismo culturale, per me turchi e italiani appartengono alla stessa faccia e alla stessa razza. In più ho la discografia completa di una band di Istanbul che mi piace di brutto (i Lalalar), per non parlare dei più noti Altin Gun, con i quali appago il mio debole per il rock anatolico, e adoro la mia alunna di origini turche – non riporto il suo nome per ovvi motivi di privacy – di cui ho già parlato a proposito del papà proprietario di alcuni ristoranti etnici e che mi ha già rinnovato più volte l’invito a essere suo ospite. In questi mesi mi sono messo a stecchetto per una fastidiosa steatosi epatica, ma appena mi sarò ripreso non lo deluderò. Sua figlia, la mia alunna, oltre a essere simpaticissima se la cava alla grande in italiano, nonostante la sua dizione risenta di certe insormontabili divergenze fonetiche. In più manifesta una vistosa alterazione della risonanza nasale, in parole povere è come se soffrisse di un raffreddore epico che va a impattare sulla pronuncia di diverse consonanti. Un insieme di complessità che, di certo, non favorisce la comunicazione e, per farla breve, non abbiamo ancora capito se sia meglio l’apporto di un onesto mediatore culturale o un buon logopedista.

A parte questo e una non brillante attitudine logica – comunque superiore alla mia – se la cava bene in tutto. In arte, poi, è un portento. Colora e disegna con una precisione non comune e, quando tocca a lei condurre il gioco del disegno misterioso, è un piacere vederla all’opera. Giochiamo al gioco del disegno misterioso quando mancano una manciata di minuti alla campanella e un argomento nuovo sarebbe sprecato. Il gioco del disegno misterioso si fa così. Qualcuno va alla lavagna e, disegnando con il gesso, svela un soggetto particolare per particolare. Chi indovina per primo vince e va alla lavagna a condurre la manche successiva. Nella maggior parte dei casi indovinare è pressoché impossibile, quasi tutti i bambini sono dei cani a disegnare e quelli che restano a posto sono dei cani a interpretare i loro sgorbi.

Ne deriva che il mix tra gli scarabocchi al di là delle comuni possibilità di comprensione della mente e la capacità interpretativa di esseri umani dalle facoltà intellettive ancora acerbe rende il disegno misterioso meritevole di un format tv dedicato. Se vivessimo in Giappone ne farebbero uno di quei programmi come quello in cui mandavano i bambini di due o tre anni da soli a fare la spesa al supermercato. Per fortuna ci sono due o tre miei alunni, tra cui la bambina turca, che dimostrano una abilità grafica di una spanna sopra al resto della classe e così, quando il tempo è agli sgoccioli, in un modo o nell’altro si riesce a chiudere almeno una sessione di gioco.

Quello del disegno misterioso è il secondo passatempo preferito strutturato dei miei alunni. Al primo posto si conferma imbattuto – con un inspiegabile primato che rimane insuperato dalla notte dei tempi, almeno da quando esistono i bambini – il gioco del gessetto.

L’aspetto paradossale è che nella scuola primaria ai tempi delle aule immersive, delle STEM e della didattica digitale integrata è un attimo a passare dall’intelligenza artificiale al gioco del gessetto. Giusto il tempo per riportare in laboratorio di informatica, al termine della lezione, il tech-bus con i Chromebook – cinque minuti per salire con il montacarichi al secondo piano e rimettere al suo posto l’armadietto a rotelle – che la collega di sostegno, lasciata da sola nell’aula, per accattivarsi il silenzio degli alunni non ci pensa due volte a piallare l’ardore avveniristico e l’entusiasmo tecnologico di una classe della generazione alpha a coronamento di un’ora di sperimentazione avanzata sui Fogli Google con il gioco del gessetto, un gioco che, già dal nome, ci catapulta in un’epoca e in un’atmosfera da libro cuore.

Che poi il gioco del gessetto, di romantico, ha solo il nome. Il gioco del gessetto è feroce. Spietatissimo. Chi sta in piedi davanti alla lavagna di ardesia con il gessetto ben stretto nel pugno a scegliere il proprio successore nella conduzione del gioco detiene un potere assoluto sui compagni. Chi sta in piedi davanti alla lavagna di ardesia con il gessetto ben stretto nel pugno determina, con la sua scelta, la scala di chi è popolare e chi è impopolare, chi gli sta simpatico e chi no. Chi deve stare simpatico a chi gli è simpatico e chi non deve stare simpatico a chi gli è simpatico. Chi avrà successo nella vita e chi resterà fino alla fine seduto al proprio posto. Il gioco del gessetto è disumano e a scuola dovrebbe esserne vietato l’uso, proprio come gli smartphone.

Sudan Archives – The BPM

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Se c’è una cosa che ci hanno insegnato l’hip hop, i suoi sottogeneri, gli stili che ne sono stati influenzati e tutti i vari derivati e le contaminazioni che si sono succedute fino alla trap (e, anzi, soprattutto la trap) è che i BPM (acronimo di Beats Per Minute, il valore con cui comunemente indichiamo la velocità di una partitura) non sono nella grancassa di chi suona ma nella testa di chi balla. Un amplissimo spettro di stili popolato da brani moderati ma solo sulla carta perché smaccatamente fisici e così saturi di veemenza e di impeto (anche erotico) tenuto al guinzaglio da indurre chi li propone a scaricare la responsabilità dell’effettiva scansione pratica del ritmo sul campo agli utenti finali.

Certe canzoni apparentemente contenute grondano di così tanta energia che ci vuole poco a fraintenderne l’intenzione ed ecco che, sul dancefloor, ci viene naturale, con i nostri movimenti, forzare un raddoppio dei battiti e un pezzo downbeat diventa house o techno senza tanti complimenti e, soprattutto, senza che nessuno abbia aumentato il pitch control nemmeno di una tacca. Oppure è sufficiente, come aggravante del raddoppio, qualche sussulto asimmetrico tra una pulsazione e quella successiva che ci si trova improvvisamente avviluppati in una fuga drum’n’bass ma il metronomo è matematica tanto quanto la musica, e il colpo di coda è solo illusorio e percepito.

Una tecnica che non è da tutti. Se prendete un brano bello spedito di una qualsiasi musica da bianchi, per esempio il rock, e dimezzate il BPM, dal pogo vi precipiterete ad abbracciarvi tutti per ballare avvinghiati una ballad a mo’ di lento. Viceversa, la storia della musica è costellata di lenti che, al raddoppio del tempo di batteria per un non richiesto climax conclusivo, prendono degli sviluppi tamarrissimi (“Paradise City” dei Guns N’ Roses è il primo che mi viene in mente).

Non solo. “La potenza è nulla senza controllo” era un claim decisamente altisonante per il soggetto di una pubblicità di qualche tempo fa ma, tutto sommato, veritiero. E da oggi l’arte di saper controllare la potenza in musica per condizionarne gli esiti ha un suo sillogismo costitutivo: se “BPM is the power” (come qualcuno sostiene nella title-track del suo nuovo album) e quel qualcuno al BPM ha addirittura dedicato il concept stesso del suo nuovo album, allora tutta questa foga irregimentata in un disco doppio e pronta per essere liberata con lo scopo dichiaratamente strumentale di attivare esplosioni emotive, non può che portare quel qualcuno a toccare vette senza precedenti.

Quel qualcuno è lei. Ne ha fatta, di strada, la ragazza con il violino, l’artista che con strumenti musicali inconsueti per la musica black (ma fedele alla sua acconciatura afro, come si mostrava nella copertina dell’EP Sink) si è distinta sin dagli albori della sua carriera con un originale e piacevolissimo genere a cavallo tra l’indie e un R&B più rhythm che blues. Quella roba che piace ai cultori della musica alternativa, ma da cui sono pronti a dissociarsi alle prime timide avvisaglie di una cassa dritta.

Da lì, la talentuosa Brittney Parks, attraverso il suo progetto di vita in musica Sudan Archives, ha espanso la materia della sua creatività contaminando il suo songwriting con un’espressività più consona alla cultura della sua fanbase predominante, accentuando le componenti elettroniche, rap/trap e techno. Un’escalation stilistica sempre più raffinata e sperimentale allo stesso tempo, una crescita in parallelo a una riprogettazione estetica del suo alter ego per una totale integrazione nel mondo delle idee dello show business, verso un perfetto equilibrio tra una dance che definire intelligente è persino riduttivo a compensazione (e redenzione) di un approccio talvolta licenzioso da popstar neo-soul di sicuro successo, come richiesto dal mercato.

Non è un caso che le prime note che si fanno strada in The BPM siano quelle del quartetto d’archi dei Chicago D-Composed, evoluzione del suo totem e del suo oggetto transizionale (il violino elettrico) che, alla luce della potenza sonora raggiunta, potrebbe tranquillamente rimanere a riposo in soffitta.

Dopo la personificazione della dea Athena nel primo album e la dismissione dei panni di una reginetta del ballo di fine anno del successivo Natural Brown Prom Queen, l’artista completa nel terzo che è diventata Sudan Archives assume le sembianze di Gadget Girl, una sorta di donna sequencer techno del futuro. Dall’ispirazione della dance elettronica di alcuni luoghi simbolo degli ultimi decenni (Detroit e Chicago in primis) nasce una summa monumentale del ritmo e della sua unità di misura, qui assurta a titolo.

Ma la dance promessa da The BPM, dalla copertina e dal look di Sudan Archives, non si limita ad accontentare gli ascoltatori superficiali. D’altronde nessun dj, nel bel mezzo di un party, selezionerebbe tracce in cui uno spleen imbellettato da una produzione senza precedenti potrebbe far leva sulla vulnerabilità del popolo della notte e influenzare, in peggio, l’umore della gente in pista. Siamo qui per divertirci, mica abbiamo il tempo di riflettere.

Il problema di The BPM, semmai, è che è un disco altalenante ma solo perché alterna una base di brani normalmente belli ad altri che definire pazzeschi è dire poco. Tra queste vette compositive spiccano tracce come “Dead” e le sue diverse anime neo soul, techno, post-punk e drum’n’bass, provare per credere. Oppure il funk di “Come And Find You”, brano trascinante in cui un sample con intrecci di violino vi suonerà come la cosa più naturale del mondo. O le due facce (quella dance e quella trap) di “Yea Yea Yea”, dove i topos dei due stili sono sapientemente resi raffinati cameo artistici. O ancora il blocco ad alto tasso ritmico di “A Bug’s Life”, “The Nature Of Power” e “Touch Me”, fino all’ultra pop di “My Type” e il suo ritornello così ferocemente contagioso.

L’inserimento, a questo punto della tracklist, di un brano di rottura come “She’s Got Pain”, un’intima composizione soul con un tutt’altro che improbabile riff di giga irlandese suonato al violino e dall’arrangiamento di archi lungo tutto il resto, contribuisce a dare una svolta al disco. The BPM, da questo momento in poi, spinge al massimo la sua già elevata vocazione sperimentale e la compresenza di evoluzioni in sottogeneri differenti, ma tutti di modernissima matrice electro.

Tracce come l’intrigante “David & Goliath” e la travolgente “A Computer Love”, o il già citato “The BPM”, inno alla supremazia del ritmo nella musica, i provocatori rap di “Ms. Pac Man” e “Los Cinci”, costituiscono una irrefrenabile ascesa verso la perfezione di “Noire”, la vera colonna sonora del futuro, la dimostrazione che ricerca e innovazione musicale sono appannaggio esclusivo della musica a trazione black. Un punto di non ritorno da cui non resta che decomporsi in nutrimento per le radici jazz di tutto quanto fino a qui professato: “Heaven Knows”, la canzone conclusiva, paga il giusto tributo alla cultura senza la quale il progetto di Brittney Parks, e questo album stesso, non esisterebbero.

Con The BPM, Sudan Archives ci regala il disco della vita, almeno fino a questo punto della sua carriera, un’opera che mette in risalto un talento fuori del comune. Un album in cui ispirazione, esecuzione e produzione, fattori qui reciprocamente propedeutici alla perfezione con cui risulta confezionato il prodotto finale, non intaccano affatto la sensazione di euforia e di spensieratezza che pervade l’esperienza di ascolto, complice la totale assenza di qualunque vincolo di genere. La prova che i Beats Per Minute hanno tutto il diritto di esercitare il loro potere illuminato, quando sono supportati da un’accezione colta della musica pensata per il ballo.

italian graffette

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Se volete farmi andare su tutte le furie chiedetemi quanto manca alla fine della lezione. Potete accanirvi verbalmente nei miei confronti con insulti di qualunque gravità, dirmi le peggio cose sulla mia reputazione o su quella di mia madre, ma non chiedetemi quanto manca alla fine della lezione perché quanto manca alla fine della lezione è come dirmi non vedo l’ora che te ne vai. Anzi, a essere precisi non vedo l’ora che tu te ne vada, ma tanto stiamo parlando di mocciosi di seconda che a malapena usano l’indicativo, potete immaginare il congiuntivo. Quando qualcuno alza la mano – e badate bene che il mio veto sugli interventi non inerenti all’argomento di cui si sta parlando è tassativo – e chiede quanto manca alla fine della lezione devo contare fino a dieci, altrimenti risponderei immediatamente con vaffanculo ma, capite bene, non si mandano a quel paese i bambini, con l’aggravante che sono io l’adulto e l’educatore.

Quando qualcuno alza la mano e chiede quanto manca alla fine della lezione conto fino a dieci, faccio un bel respiro e poi consiglio di controllare l’orologio appeso, e se sono in buona do un’imbeccata, una stima di tutti i giri che devono fare le lancette prima della campanella. Se non sono in buona, non aggiungo alcuna spiegazione, piuttosto taglio corto perché devono guadagnarselo, il suono della campanella, e punto. Se mi girano i maroni – anche se i maroni che girano, quando si fa l’insegnante, è meglio lasciarli nel bagagliaio della macchina se andate a scuola in macchina come me – dico che, se si annoiano, possono chiedere la mattina ai genitori di restare a casa, e non sono pochi quelli che fanno delle espressioni del tipo ehi maestro, che idea che mi hai dato, non ci avevo pensato, domani ci provo.

Ma non è sempre così. Domenica pomeriggio mi ha scritto una delle mie alunne preferite ever, una dello scorso ciclo, per dirmi che sta prendendo volti alti in matematica e scienze grazie a me, senza che le chiedessi nulla. Il mio ego si è talmente gonfiato che stamattina, persino al secondo maestro quanto manca alla fine della lezione, il ma andate a cagare l’ho appena appena accennato con un pensiero remoto.

L’email della mia ex alunna aveva assorbito tutto il nervosismo che altrimenti avrei provato. Sabato mattina mi hanno rubato la giacca sul treno. La colpa è mia. Ho riposto giacca e zaino sulla cappelliera appena salito sull’Intercity da Milano per Genova, e mi sono immerso così profondamente nel libro che sto leggendo – avevo su anche gli auricolari perché la lotteria dei posti random mi aveva penalizzato con due giovani aspiranti ingegneri biosailcazzo che hanno passato tutto il tempo del viaggio a correggere una cazzo di ricerca a cui stavano lavorando, che vita triste quella degli aspiranti ingegneri biosailcazzo, triste ma pagata almeno dieci volte rispetto alla vita triste di un insegnante della primaria con l’aggravante della laurea in lettere con tesi in letteratura latina ma vabbè – dicevo che mi sono immerso così profondamente nel libro che sto leggendo (“La radice del male” di Adam Rapp) che mica mi sono accorto che qualcuno, mentre il treno era ancora fermo in stazione a Milano, si è impossessato di nascosto della mia giacca e del mio zaino.

A Genova Principe giacca e zaino non erano più al loro posto. Lo zaino era poco più in là, tutto rivoltato in uno di quei scaffali portabagagli verticali che si trovano a metà della carrozza. Ho controllato immediatamente, nonostante dovessi affrettarmi verso la discesa per evitare di proseguire fino alla stazione successiva, ma nello zaino non mancava nulla: maglietta per la notte, boxer per il giorno dopo, rasoio, gel dopobarba, spazzolino, pastiglie per la pressione, caricabatterie e chiavi di casa. Che strano che non si siano portati via tutto lo zaino, un Pantone blu decisamente elegante. Io avrei fatto così, perché rischiare di essere beccati a rovistare in una borsa altrui su un treno?

Della giacca, invece, non c’era proprio traccia. Ero un po’ – come si dice a Genova – invexendato, non capita tutti i giorni (per fortuna eh) di subire un furto. Quando accade è difficile mantenere la calma. Quindi ho riordinato lo zaino, ritenendomi fortunato che almeno quello non mi fosse stato sottratto, e sono sceso. Ma la cosa divertente è che la giacca rubata era un piumino 100 grammi di marca Rifle che avevo acquistato una dozzina di anni fa, blu e con un taglio decisamente fuori moda, a cui a furia di indossare avevo sfondato le tasche, lo sapete che sono fatte dello stesso tessuto piuttosto delicato, e che qualche settimana fa avevo riparato con la cucitrice. Con i punti, avete capito bene, quelle che io chiamo graffette. L’autore del furto si sarà quindi presto reso conto di aver derubato un barbone più barbone di lui, e meno male che avevo desistito dal mettere nello zaino il mio prezioso portatile – da cui raramente mi separo – e di non aver scelto di indossare al posto del piumino Rifle il mio caldissimo montgomery blu. Se mi avessero rubato il montgomery blu, ecco, quella sarebbe stata una vera tragedia, e altro che mandare a cagare chi mi chiede quanto manca alla fine della lezione.

Durante il viaggio di ritorno, oltre ad aver tenuto ben stretti lo zaino e la giacca che ho dovuto acquistare a Genova per non ammalarmi – a Genova non fa freddo ma tira sempre vento – ho fatto così caso a tutti gli annunci trasmessi per avvisare i passeggeri a non lasciare incustoditi i propri bagagli, una frequenza di comunicazione che mi ha tranquillizzato sul fatto che non sono diverso da nessuno. Non sono più fortunato o più sfortunato di altri.

Mi trovo nella media delle persone a cui capitano cose con cui tutti si trovano ad avere a che fare. Una sensazione che mi rincuora e che provo anche grazie a certe pubblicità in cui si offrono soluzioni a problemi che hanno tutti, e che capisco che è normale che tutti abbiano. Le stoviglie particolarmente zozze dopo cotture elaborate, ad esempio, e la necessità di grattare per tirare via lo sporco, per non parlare del rischio che in lavastoviglie non si puliscano secondo certe nostre aspettative elevate. Questo è solo un esempio ma mi fornisce la prova provata che l’essere stato un asino a scuola, condizione che mi relega quasi sempre entro i confini di chi non si sente all’altezza, non implica necessariamente il non riuscire a comprendere come funzionano davvero certe cose pratiche. Utilizzare colle adesive di una certa portata consente di assicurare saldamente piccoli ammennicoli sulle pareti. Il cric, una volta imparato il funzionamento, solleva davvero le automobili e dopo trenta minuti circa a duecento gradi la zucca cuoce davvero, nel forno, proprio come sostengono le ricette. Smarrire la fiducia in se stessi fa perdere la bussola e restituisce una percezione della realtà tutt’altro che attendibile.

break the rules

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La pedagogia si divide fondamentalmente in due correnti principali. Ci sono quelli che permettono ai bambini di salire sullo scivolo arrampicandosi a ritroso sullo scivolo stesso – che poi è la cosa più elettrizzante del gioco dello scivolo in sé, dal momento che alla terza volta che sei scivolato ti sei già rotto i maroni di scivolare giù – e sull’altro versante quelli che lo vietano. Intendo l’altro versante della pedagogia, non dello scivolo, dove al massimo ci sono i compagni di classe che reclamano via libera per lanciarsi di sotto a tutta birra ma hanno la strada bloccata da chi non rispetta le regole perché il pedagogista di riferimento in quel momento sostiene che si possano anche non rispettare.

La mia teoria è che se in cima non c’è nessuno che vuole scendere – e se il tuo comportamento non danneggia una struttura di tutti – puoi fare il cazzo che ti pare. Hackeriamo gli scivoli, che problema c’è. Alla peggio, mentre ti arrampichi al contrario scivoli – appunto -, sbatti la faccia sulla plastica e ti salta un dente da latte, ma è un problema tuo o al massimo del pedagogista di riferimento in quel momento e addetto alla supervisione che poi dovrà vedersela con i genitori che metteranno in dubbio certe teorie campate in aria.

Il fatto è che la regola numero uno per chi opera nella scuola è dare delle regole. Le classi traboccano di cartelloni con regole di tutti i tipi, scritte, disegnate, illustrate con clipart decisamente cheap, scaricate dal web, stampate, colorate. I semafori che stabiliscono se è il momento opportuno per scambiare quattro chiacchiere con il compagno di banco o assistere alla spiegazione in religioso silenzio. Il mansionario che cristallizza chi deve fare che cosa, qualunque tipo di cosa – distribuire, raccogliere, organizzare le sortite al bagno – assiepato di mollette con i nomi dei bambini. L’ordine della fila per due per gli spostamenti quotidiani e quello della fila per uno in caso di evacuazione. E poi regole utili alla convivenza civile in classe: si alza la mano, non si parla quando parla qualcun altro, si dice per favore, gnè gnè gnè e cose di questo tipo.

Capiamoci. Non fraintendetemi per uno di quegli insegnanti che si mettono in piedi sui banchi, anzi. Però c’è una collega a cui questo sovvertimento dell’ordine precostituito dell’impiego dello scivolo proprio non le va giù. La scuola primaria – almeno la mia – pullula di docenti che arrivano direttamente dalle organizzazioni cattoliche e dagli oratori, dove alzarsi e sedersi a comando del prete è all’ordine del giorno, o almeno della domenica, e lei è una di quelli.

Il punto è che il gioco dello scivolo sbagliato lo permetto solo al mio asperger, un bimbetto che conosce solo l’approccio oppositivo come fattore di relazione con l’adulto, così intelligente da cogliere al volo qualunque sfumatura di comportamento in grado di dare fastidio alla persona di riferimento in quel frangente preposta al suo accudimento. Il confronto con lui è una sfilza di no a tutto. Non aprire e chiudere la porta, non accendere e spegnere la luce della classe, non leccare il gesso sulla lavagna, non tocchignare il pc sulla cattedra, non parlare ad alta voce mentre spiego, non sdraiarti per terra nei corridoi, non uscire dalla classe se non ci sono le collaboratrici, non prendere di nascosto le cose ai tuoi compagni, non lanciare il rotolo dello scottex, non girare in tondo intorno ai banchi mentre gli altri lavorano, non far rumore con le penne della LIM perché sono magnetiche e scagliarle contro i tubi del riscaldamento per vedere che rimangono attaccate è divertentissimo ma proprio no, non si fa.

Così ho deciso che ci dev’essere un campo neutro, uno spazio in cui dare sfogo a quell’innato impeto di rompere i coglioni agli altri. Gli permetto di lanciarmi la sfida, con quello sguardo che ormai riconosco a memoria, e poi su a ritroso lungo lo scivolo, con la faccia rivolta verso di me per osservare la mia reazione. Gli sorrido mentre lo vedo arrampicarsi. Controllo solo che sulla pedana in cima non ci sia nessuno. Anche perché dopo un po’, come è facile immaginare, si stufa. Che gusto c’è se il maestro non si indispettisce.

A prendersela, invece, è la collega timorata di Dio, lì con la sua classe, perché a quel punto i suoi bambini cercano di fare altrettanto. Il loro senso della pedagogia va in corto circuito: ma insomma, si chiedono, salire lo scivolo al contrario è consentito oppure no? Nel dubbio, sì. Così, alla volta successiva in cui il mio asperger si precipita nella risalita, nell’invidia del resto della scolaresca, eccola pronta a interferire nel flusso didattico-comportamentale e sostituirsi alla figura in quel momento direttamente responsabile, cioè io, senza nemmeno farmi un cenno.

A me, giuro che le invasioni di campo di questo tenore non rappresentano affatto un problema. Non ho fatto pipì intorno a nessun territorio – nonostante noi esseri viventi di specie animale e di genere maschile siamo rinomati in tutto l’universo per la caparbietà con cui, attraverso le nostre minzioni, ci attribuiamo aree esclusive per l’accoppiamento, la caccia, la residenza e cosucce di questo tipo – tantomeno intorno a nessuno dei miei alunni più bisognosi di attenzione. Anche il mio asperger sembra non prendersela. Nemmeno lui mi degna di un’occhiata. Sbraita qualcosa contro la maestra praticante e corre via, alla ricerca di un nuovo dispetto da perpetrare a qualcun altro.

uomini e boh

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Ho rinunciato da tempo a farmi recapitare a domicilio il pianoforte di famiglia che giace inutilizzato, da trent’anni, nella cameretta in cui ho passato ore interminabili (e buttate via, a onor del vero) a esercitarmi da ragazzino nella casa in cui sono nato e cresciuto. La questione del trasporto di un pianoforte, seppur verticale, non è per nulla banale. Occorre incaricare una ditta specializzata e il costo complessivo dell’operazione – spostamento a mano giù per cinque piani, circa duecento km di viaggio in un furgone equipaggiato, altra movimentazione in salita per due piani qui dove abito ora – equivale all’acquisto di uno strumento acustico nuovo di zecca, ed è addirittura superiore a quello di un piano digitale con i tasti pesati, opzione che mi consentirebbe di strimpellare le mie minchiate tutte uguali anche di sera tardi, in cuffia, senza rompere i maroni ai vicini.

L’opportunità di beneficiare di lezioni di musica è stata offerta solo a me, figlio maschio più piccolo, e non alle mie due sorelle maggiori. Benché mi sia stato fatto pesare non più di un paio di volte nella mia vita, da allora mi sento sufficientemente in colpa di questo privilegio andato sprecato e di cui ho goduto immeritatamente. Chissà, forse se le mie sorelle avessero imparato a suonare al mio posto, o insieme a me, magari avrebbero realizzato il sogno di mio papà, quello di avere un musicista serio in casa, sogno che ho infranto non appena ho scoperto il fascino del rock (post punk, a dirla tutta) e dei suoi aspetti collaterali che mi ha deviato dalla via maestra senza più ritorno. Mi risulta ovvio giustificare il fatto di essere stato il prescelto di famiglia con il mio genere di appartenenza, non vedo alternative. Non credo che prima non ci fossero risorse economiche sufficienti, senza contare il fatto che quando ho iniziato io i miei avrebbero potuto estendere anche alle altre figlie la proposta.

Questo per dire che siamo così impregnati di patriarcato da non rendercene nemmeno conto. Nel campo in cui credo di saperne oramai qualcosa, la musica, i pregiudizi sono all’ordine del giorno. Vi racconto questa.

Qualche settimana fa ho assistito al concerto dei Kokoroko, una band di jazz moderno contaminato dall’afrobeat che mi piace moltissimo. Mi sono presentato all’Alcatraz, il locale in cui era prevista l’esibizione, con il mio consueto folle anticipo, un’accortezza che mi ha consentito di occupare un posto appiccicato alle transenne sotto il palco e centralissimo rispetto alla collocazione degli strumenti. Al mio fianco destro, in pole position come me, c’era una giovane donna da sola, una ragazza minuta che non avrà avuto nemmeno trent’anni. La mia fervida immaginazione si è messa subito in moto con il filtro della discriminazione di genere che, in quanto uomo, non riesco a tenere a bada e che tento in tutti i modi di non manifestare esternamente.

I Kokoroko non sono certo una band da giovanissimi, intanto. Il resto della prima fila era composto da vecchi di merda come il sottoscritto. Proprio oltre la ragazza al mio fianco si erano posizionati tre amici, forse anche di poco più vecchi di merda di me che poi conoscerete al termine di questo aneddoto, e dalla parte opposta la situazione era poco differente. E poi, ho pensato cercando di non darlo a vedere, che cosa strana, una donna che ascolta jazz. Una donna che ascolta jazz, si presenta da sola a un concerto di una band di nicchia, giunge in anticipo quanto me che sono un uomo e si piazza in prima fila. Con l’aggravante patriarcale che la band in questione è capitanata da una sezione fiati tutta al femminile e, anche se fosse, i Kokoroko non sono certo il tipo di artisti che vai a vedere in concerto per la presenza. Piuttosto, sono dei mostri di tecnica e di groove. Questo mi ha indotto a supporre che la mia vicina di concerto fosse una musicista, un’addetta ai lavori. Oppure una pseudo-giornalista, lì come me senza compagnia per raccogliere tutte le sensazioni da riversare in un report per una qualche testata online come quella per cui scrivo io, che la leggono in quattro gatti.

Lungo l’ora abbondante di attesa prima dell’inizio, forse anche due, ho cercato in tutti i modi di capire che diavolo ci facesse lì. Non ho osato chiederglielo, un vecchio di merda che approccia una ragazza giovane a un concerto è una cosa che non si può sentire, un altro risultato di una mentalità ultra-patriarcale: con il genere femminile si parla solo per rimorchiare. Ho tentato persino di captare una videochiamata che ha fatto a un ragazzo, presumibilmente il suo fidanzato (e a chi altro penserebbe un maschilista) ma oramai il locale era stracolmo, la musica di sottofondo ingombrante, e della conversazione non ho colto nemmeno una parola. Durante l’esecuzione ha dimostrato di conoscere i brani, si muoveva bene come me a tempo e, anzi, a un certo punto l’ho sentita lamentarsi da sola che, del primo disco, i Kokoroko stavano suonando pochi pezzi. Se avessi accennato un tentativo amichevole prima, probabilmente ne avremmo discusso insieme ma in quel frangente, durante il live, sarebbe stato impensabile fare due chiacchiere.

Io ho trascorso tutto il tempo dell’esibizione con la bocca aperta, il concerto è stato a dir poco straordinario. Appena le luci si sono accese, ho percepito forte l’impulso di condividere con qualcuno il mio stato d’animo di beatitudine. Il mio sguardo ha incrociato i tre amici (uomini) che, come me, sovrastavano in altezza la ragazza in mezzo a noi, e mentre cercavo la loro complicità sull’effettivo valore di ciò a cui avevamo appena assistito, dentro di me già mi sentivo in colpa per non aver ritenuto quella ragazza all’altezza di una conversazione sugli aspetti jazzistici – o di tecnica musicale tout court – che avevano contribuito a rendere quel live set un appuntamento di quelli indimenticabili. Mi sono pentito immediatamente perché chissà come sarebbe potuto risultare appagante un confronto con lei, chissà che cosa avrei potuto imparare, chissà quali spunti avrebbe potuto offrirmi anche in vista dell’articolo che avrei dovuto scrivere, di lì a poco. Invece, mi sono accontentato della confort zone al testosterone, tre uomini – peraltro liguri quanto me – con i quali ci siamo subito cimentati a chi aveva il concerto più lungo.

Ma questa storia non finisce qui. Domenica scorsa ho assistito a un secondo concerto jazz. Come i Kokoroko, anche quello di Amaro Freitas a cui ho partecipato faceva parte della bella rassegna JazzMI. A differenza dell’Alcatraz, la location – il teatro della Triennale – prevedeva posti a sedere numerati. Alla mia destra si è seduto un elegante signore inglese ma residente in Italia con il quale ho subito fatto amicizia e ho condiviso le sensazioni e l’eccitazione per ciò che stava per iniziare. Alla mia sinistra si sono sedute due ragazze sui trenta/trentacinque anni. Sull’onda emotiva del rammarico per il mio precedente comportamento, ho prestato attenzione alle loro conversazioni cercando di cogliere uno spunto – le contaminazioni del jazz brasiliano, l’influenza di Chick Corea, l’eterno dibattito tra jazz tonale e jazz modale – per fare conoscenza ma i temi che ho colto – amicizie comuni e vita in ufficio – non mi hanno permesso di portare a compimento il mio desiderio di redenzione.

Ma, nel momento meno accogliente del concerto, proprio quando Amaro Freitas ha imboccato la via meno comprensibile della sua musica, un mix tra musica concreta, jazz e richiami alle tradizioni delle popolazioni amazzoniche, ho notato che entrambe le amiche hanno indossato il piumino e raccolto le loro cose, la borsetta e l’ombrello, procurandomi un certo fastidio a causa del tipico rumore di tessuti invernali prodotto. Ho fatto finta di niente per non mostrarmi pedante e inopportuno. Al termine del brano, eravamo nel bel mezzo della scaletta, le due donne se la sono svignata alla chetichella, guadagnando l’uscita lì a fianco mentre il pubblico saturava con copiosi applausi l’atmosfera in sala sancendo il primato culturale di ciò di cui avevamo la fortuna di essere protagonisti. Da quella scena inqualificabile che si è consumata accanto a me, continuo a chiedermi il motivo che ha spinto due persone a darsela a gambe al cospetto di una proposta così elevata di jazz contemporaneo, ma forse erano semplicemente in ritardo per qualche altra cosa più interessante di Amaro Freitas.

mainstream

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Ormai non posso più permettermi il lusso di pensare ad altro quando faccio una cosa. La vita dev’essere come la connettività. Arrivi a un certo punto e la disponibilità di banda è quella che, ci sono troppi processi attivi in background, e se non ti concentri sulla cosa che stai facendo perché pensi ad altro può succedere che poi non la fai o che la fai ma poi non ti ricordi di averla fatta. Per non parlare della distrazione in momenti in cui è sconsigliatissimo distrarsi, per esempio quando stai guidando, in un momento storico e anagrafico in cui guidare con un display grande come una tv nel campo visivo non è proprio il massimo. Questo è un caso limite che può anche degenerare in conseguenze gravissime, quindi mi limito a momenti più leggeri e casi su cui riderci su, come quello che mi è accaduto poco fa.

Ho fatto la doccia dopo la corsetta della domenica mattina e, solo mentre mi stavo asciugando con l’accappatoio in microfibra, mi sono reso conto di aver lavato i capelli con lo shampoo ma di non aver usato il bagnoschiuma e la spugna per il corpo, quindi di essermi sciacquato e basta. Tutto perché ho acquistato su Vinted i tre CD di Calcutta usati, pagandoli una sciocchezza, ma devo ancora ricevere il terzo e pensavo a quanti giorni stesse impiegando il pacco per arrivare a destinazione. Un tema di una serietà inaudita che ha assorbito così tante energie e concentrazione da mettere in secondo piano tutto il resto. Il fatto è che le canzoni di Calcutta mi ricordano tantissimo mia figlia che è a Madrid per l’Erasmus ormai da nove mesi, e ora che c’è questo tempo malinconico in effetti mi assale la malinconia. Ha visto Calcutta dal vivo ben due volte, la prima quando frequentava la seconda liceo, e ancora oggi sfoggia spesso una simpaticissima maglietta con due fette di kiwi all’altezza del seno. Calcutta piace anche a me, ma, fino ad oggi, non era mai rientrato tra quegli artisti dei quali sento la necessità di possedere le opere fisiche. I tre suoi album su vinile costano uno sproposito, un centinaio di euro in tutto, così mi sono accontentato della versione su compact disc per di più usati ma in condizioni ottime per un totale di nemmeno venti euro.

Comunque degli svarioni come quello della doccia potrei raccontarvene tanti altri: l’acqua nella caffettiera, la crema dopobarba, gli impegni che cerco di segnare immediatamente su Google Calendar, ma l’aggravante di questi episodi non è la dimenticanza in sé (almeno spero che non lo sia) ma il comune denominatore che è il motivo per cui mi distraggo. Mi distraggo pensando sempre ed esclusivamente a qualcosa inerente alla musica. Lo so perché poi dopo ci faccio caso, e quando il caffè non esce dalla caldaia e la pelle mi pizzica dopo aver passato il rasoio, perché ho saltato una fase decisiva per la riuscita di un processo, ho ben presente ciò che ha deviato la mia attenzione dall’attività su cui avrei dovuto invece focalizzarmi. Un fraseggio di chitarra da ricostruire, in che disco è inclusa la tale canzone del tale gruppo, o – quella di stamattina – l’attacco della recensione del concerto che andrò a seguire oggi pomeriggio. Oggi pomeriggio vado al concerto di Amaro Freitas, un talentuoso pianista brasiliano che suona un jazz contaminatissimo dalle influenze delle musiche popolari della sua terra d’origine. Un musicista da solo con il suo strumento la cui capacità di improvvisazione è in grado di farti precipitare in una specie di iperspazio. Ecco, mi è successo ancora una volta: dovevo chiudere questo post ma poi mi sono messo a pensare alla musica e non ricordo più se sono giunto a una conclusione oppure no.

come un turco

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Sul cartellone pubblicitario del ristorante “I gemelli” campeggia una gigantografia di un cuoco da solo, con i mano due attrezzi del mestieri infilati in un padellone, così approfitto della coda sulla provinciale per riflettere su che fine abbia fatto il fratello mancante. Morto? Timido? Poco fotogenico no, altrimenti anche quello immortalato nella foto risulterebbe altrettanto antiestetico, per quanto possa valere per fare la differenza nel marketshare della ristorazione nell’hinterland milanese. Forse ha dato le dimissioni o ha litigato con il gemello e ha aperto un ristorante concorrente chiamato “I gemelli” anche lui, per sfruttare la popolarità del brand e sfido chiunque a trovare le differenze tra i due. Il cartellone che vedo sul ciglio della strada è riconducibile al gemello A o al gemello B? I due esercizi saranno vicini come le due pasticcerie dallo stesso nome che si fronteggiavano nella piazza del paese in cui vivo? Poi, alla fine, quella aperta a seguito del battibecco tra i due rampolli della stessa famiglia ha dato forfait e oggi ha lasciato il posto a un kebabbaro un po’ pretenzioso che è già alla terza gestione differente da quella dell’inaugurazione.

Nulla a che fare con il papà della mia alunna turca che sta mettendo su un impero sul cibo tipico delle sue parti. La scorsa settimana gli ho chiesto di entrare a scuola, al termine delle lezioni, per firmare un documento. Lui e la moglie sono entusiasti di me (come biasimarli) perché è la bambina a esserlo in primis, così mi ha invitato molto calorosamente a visitare il suo ristorante. Non lo deluderò. A lui non serve la pubblicità, i tavolini che ha messo sul marciapiede sono sempre gremiti di studenti e di carpentieri nordafricani, una chiosa che ha l’unico scopo di attivare un collegamento ad alcuni spot televisivi su cui occorre lasciare qualche considerazione, come se non aveste capito che è una scusa bella e buona e che il rimando c’entra come i cavoli a merenda, ma senza falafel.

C’è una pubblicità di Mentadent Professional in cui lei fa la restauratrice e lui il biochimico, un dubbio luogo comune sessista che – fosse stato per me – avrei evitato abbinando al contrario le professioni. D’altronde la scienza è maschia e necessita di studio, e l’arte è femmina e comporta pazienza materna. Anche lo spot Skoda per il Black Friday non lascia troppo spazio all’immaginazione sulla parità di genere. Alla speculazione filosofica sul fatto che l’attesa del Black Friday possa essere essa stessa il Black Friday, l’esclamazione di non capirci nulla non poteva che essere attribuita a una ragazza decisamente attraente. A questo punto avrei ingaggiato un’attrice bionda a chiudere il cerchio. Per concludere con lo spot “dibidabi badididabi badadiba”. Per il copy che lo ha pensato ci vuole ben altro che uno bravo.

Upchuck – I’m Nice Now

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Ho ascoltato la prima volta per intero I’m Nice Now qualche ora dopo i titoli di coda di Una battaglia dopo l’altra, l’ultimo film di Paul Thomas Anderson. Una congiuntura indiscutibilmente offline, al riparo da qualunque ingerenza algoritmica, e che mi ha sorpreso con così tanta forza da farmi gridare al miracolo. Non c’è colonna sonora più adatta al processo di sedimentazione di un film così monumentale e profondamente segnante. Ho pensato addirittura che (attenzione spoiler) nella scena finale in cui Willa Ferguson/Charlene si mette al volante per dare seguito alla vocazione ribelle della madre, persino il titolo, del terzo album degli Upchuck, sia perfetto per una didascalia di un fermo immagine così pregno di significati. Uno su tutti: mai confondere la gentilezza con la debolezza.

Mentre uscivo dalla sala, qualcuno davanti a me ha reso una sintesi perfetta dello stato d’animo a cui il film induce sottolineando quanto sia urgente, giunti a questo punto della storia, compiere qualcosa di profondamente illegale, così come I’m Nice Now è un disco che sporca, che guasta la giornata, che fa incazzare. La giustificazione firmata da chi ne fa le veci ad agire al di fuori delle regole perché, nell’intento di rovesciare le cose, non c’è come la rabbia a far percepire tutto perfettamente nitido e logico. Si mette a fuoco il contorno e ogni cosa va al suo posto, a partire dal fatto che per praticare la trasgressione è ammesso anche suonare hardcore secondo canoni più moderni e personali, o anche meno filologici.

Quello che non è cambiato è che l’irrefrenabile impellenza dei derivati del punk sia la sfumatura più complessa da cristallizzare su un disco. A catturare un moto così intenso nei live ma altresì dinamico e sfuggente per imbalsamarlo a vantaggio di ascolti reiterati, si corre il rischio di rendere il tutto patinato. Un pericolo che non riguarda certo gli Upchuck e I’m Nice Now, grazie anche al lavoro alla regia di Ty Segall, già dietro le quinte del precedente Bite The Hand That Feeds. Il suo ruolo di produttore per l’esordio alla Domino ha contribuito alla non facile missione di passare al setaccio il loro sound (registrato totalmente in presa live) senza disinnescarne la portata di violenza artistica.

D’altronde, come poteva andare diversamente? KT, la cantante della band, è cresciuta donna afroamericana e ai margini dell’economia ad Atlanta, Georgia, Stati Uniti, un comburente perfetto per infiammare rabbia e sofferenza, per una volta incanalati nella crudezza del rock’n’roll più feroce. Una band nata nel momento peggiore della storia americana e non solo, la prima amministrazione Trump, e destinata a pubblicare il disco della consacrazione durante il secondo e fatale mandato. A condividere questo sorte beffarda un manipolo di compagni di guerriglia: il batterista Chris Salgado, che in I’m Nice Now contribuisce anche come cantante delle strofe in spagnolo in un genuino impulso internazionalista, i chitarristi Mikey Durham e Alex Hoffman e Ausar Ward a completare la sezione ritmica al basso.

Tra le tredici canzoni di questo sorprendente disco si trovano distillati di energia resi in molteplici sotto-derivati del punk. L’hardcore più viscerale e grezzo si può rintracciare in brani come “Fried”, “Un Momento”, “Kin”, “Lost One”, in alcuni casi con repentini cambi di tempo tipici del modo di interpretare lo stile alla vecchia maniera e un’espressività per nulla antitetica ad aperture melodiche e decisamente accomodanti come “New Case” e “Slow Down”. Si distinguono anche riff stoner ai confini del post-grunge in “Kept Inside”, “Forgotten Token” e “Nowhere”, e momenti più alternative rock in “Plastic” e “Homenaje”, senza contare l’intro di “Pressure”, una vera e propria miccia per una detonazione smaccatamente alla Sonic Youth.

Upchuck, vomito, è ancora una volta un destino nel nome perfetto. Nulla come un conato consente l’espulsione da un organismo, attraverso un atto involontario, di un corpo estraneo per la ripresa della funzione svolta per natura e che, per un essere umano, fondamentalmente coincide con la libertà. Un gesto estremo e indotto da soprusi quali il razzismo, il sessismo e il classismo di cui l’american way of life è permeata. Un tentativo per rigettare il malessere e impedire un blocco totale, riprendere il respiro, mettersi a suonare e a cantare e prepararsi alla prossima battaglia.

Automatic – Is It Now?

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È dal 2019 che le Automatic ci convincono con la sofisticata estetica del loro post-punk guitar-free e, nonostante l’ostentato protagonismo dei sintetizzatori retro dispensati con lead grassi, pad dagli oscillatori disallineati quanto basta e generoso ricorso al glissato, in nessuno dei loro tre album pubblicati ad oggi può essere rintracciata la minima parvenza di qualsivoglia cliché riconducibile alla musica elettronica che va per la maggiore.

Nelle loro canzoni la traccia di tastiere (più di una simultaneamente solo quando strettamente necessario) completa con classe e misura l’ingombrante spazio vuoto lasciato dalle parti di basso e batteria a dir tanto entry-level, risponde a tono alla metrica della melodia, snocciola riff, distende tappeti rigorosamente monocromatici per una resa che fa sembrare lo strumento notoriamente più artificiale di tutti prettamente naturale.

A differenza della no-wave riveduta e corretta del disco d’esordio Signal e dell’austerità che, con un po’ di esperienza in più, aveva contribuito a ridurre ai minimi termini ogni slancio di superflua empatia nell’ottimo secondo album Excess, le Automatic del 2025 allentano le maglie del loro inflessibile rigore compositivo per prendersi qualche licenza prosaica e ampliare il registro stilistico.

Is It Now? vi stupirà per i numerosi tentativi di compromesso di varia natura di cui è disseminato e che è doveroso annoverare in ordine di apparizione. Tanto per iniziare, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di aggiungere percussioni provenienti da ben altre latitudini musicali ai canoni esclusivi delle composizioni di gente come Izzy Glaudini (voce e synth), Halle Saxon (voce e basso) e Lola Dompé (voce e batteria). Eppure, basta cliccare play e mettere “Black Box” (singolo uscito a ridosso della pubblicazione del nuovo disco) per ammettere quanto calzino a pennello.

Una trovata meno sconcertante delle rullate di rototom e del flauto in “mq9”, mentre l’effetto wow è riservato agli accordi estesi oltre la triade base e al loop breakbeat che spezza l’atmosfera (dichiaratamente detroit) della drum machine di “Mercury”.

Davvero niente male anche la trovata di arricchire il brano “Lazy” con un ritornello disinvoltamente catchy, con tanto di solerti e fintamente distratte rispostine saccenti offerte dal synth alla voce e con un tema di Moog finale. E non lasciatevi scappare l’occasione: non capita molto spesso che una cantante radicalmente indie dimostri di sapersi liberare dai vincoli imposti dalla propria inseparabile impostazione upper class per concedere alla propria nicchia una riuscitissima melodia confidenziale da hit.

A ruota, ecco la claustrofobica no wave di “Country Song”, proemio alla successiva title track, reale reincarnazione dell’anima più post-punk delle tre musiciste losangeline, e l’ipnotico e cupo dub di “Don’t Wanna Dance”, vero alter ego del prudente synth-pop anni 80 di “Smog Summer”. Chiudono l’album le autorevoli atmosfere dark di “The Prize”, riuscito apripista per l’umore indotto dall’ossessiva “Playboi” in un crescendo che culmina con l’entropia della sconclusionatissima “Terminal”.

Punta di diamante di un modo di fare musica meno che minimale, l’approccio less is more in versione anti-rock e tagliato su misura sulle capacità tecniche individuali e d’ensemble risulta ancora una volta il più adatto per un band dal linguaggio così sofisticato. La ricerca della massima essenzialità professata dalle Automatic continua ad aggiungere valore all’esperienza di ascolto. Is It Now? sembra infatti pensato per una proposta di più ampio respiro pur mantenendo i prerequisiti della personalità inconfondibile della band, uno slancio facilmente interpretabile anche come frutto del raggiungimento della maturità artistica.

Le Automatic sono sempre più raffinate ed eleganti, questa volta con un pizzico di autoironia. Per questo la risposta alla domanda posta dal titolo del nuovo album è più che affermativa: il momento, il loro, è proprio adesso.

Kokoroko – 24/10/2025, JAZZMI, Alcatraz, Milano

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

In verità, fino all’ultimo ci ho sperato. Entrare all’Alcatraz e trovare la platea stipata di file di sedie ordinate – proprio come succede per i live jazz – e impadronirmi di un posto con una visuale libera a ridosso del palco in grado di risparmiarmi la distesa di smartphone in modalità rec che, delle esibizioni dal vivo, è sempre più la morte. Un premio meritato anche per il prudentissimo anticipo con cui mi sono presentato all’ingresso. Un’aspettativa avvalorata (solo in apparenza, come scoprirò di lì a poco) dall’età media del fan dei Kokoroko, sfegatati almeno quanto me, e degli amanti del jazz in paziente attesa all’ingresso abbondantemente prima dell’orario indicato. Per la cronaca, età media portata oltre i limiti di guardia anche grazie alla mia presenza.

Chi mai costringerebbe a far assistere due ore di jazz in piedi a signore distinte e vecchi di merda come me, ovvero l’idea del pubblico del jazz che ha chi non ascolta jazz. Che poi il jazz resti l’unico non-luogo dove capita ancora di incontrare giovanissimi – probabilmente addetti ai lavori, almeno è quello che trasmettono ad altri addetti ai lavori – che sfoggiano la cravatta a collo nudo sopra la maglietta è un dato di fatto. Da sempre, l’eleganza decontestualizzata per praticare la trasgressione alla trasgressione è l’eccezione che conferma la regola. Ma il jazz, e soprattutto le rassegne di jazz, hanno fortunatamente confini sempre più labili (e violati), e non è la prima volta che JazzMI trascende l’accezione di jazz (e meno male che Luciano Linzi e Titti Santini, i direttori artistici della rassegna che ha appena compiuto dieci anni, non si smentiscono mai).

Comunque, sedie o no, alla fine mi è andata di lusso. Primissima fila, abbarbicato alle transenne e in posizione centralissima in corrispondenza dei microfoni allestiti per la sezione fiati. Di certo i Kokoroko, la cui matrice è indiscutibilmente jazz ma in quella declinazione modernissima e molto africana che ne ha sancito il successo (se l’Alcatraz non era sold out ci è andato vicino), sono una band che solo un folle vorrebbe ascoltare da seduto, anche se la loro musica su disco, rispetto ai live, ha una gradazione di jazz decisamente meno ingombrante.

Il ritmo nelle tracce su disco è suonato per indurre al movimento. In concerto, il ritmo suonato per indurre al movimento si libera dei fardelli di una certa leziosità fusion e fighetta dovuta all’incantesimo della musica fermata da un registratore, a vantaggio di un groove molto più viscerale e primitivo (ma sempre suonato a livelli che noi umani bianchi non possiamo nemmeno immaginare) che si sprigiona quando, finalmente, l’incantesimo della musica fermata da un registratore si rompe e che, quando spinge sui tempi afrobeat (con tutti quegli accenti spostati sui quali solo i musicisti sul palco riescono a orientarsi tra battere e levare), o di raffinato funky (ciò che vent’anni fa, per darvi delle coordinate, chiamavamo acid jazz) e persino di jazz tradizionale (quello con il walking bass, la batteria suonata a swing e tutti gli altri crismi che vi rendono partecipi di un live jazz) manda il pubblico in visibilio.

Compresi quelli come me che si danno un tono perché, tutto sommato, il battere e il levare e la sfida alla ricerca dell’uno nella battuta si confermano gli elementi base di sopravvivenza anche al cospetto del jazz caldissimo, materno e avvolgente dei Kokoroko. Un ritmo che scappa inseguito dalla sezione fiati di Sheila Maurice-Grey (tromba e voce) e Richie Seivwright (trombone e voce) che armonizzano i loro temi sempre un po’ poco sedute sul beat ma con un risultato che, magistralmente, le allontana solo illusoriamente dal tempo. Con strumentisti di tale dimestichezza non si sgarra di una virgola, statene certi, e il problema è vostro, anzi mio, di noi cioè che contiamo da uno a quattro sul ritmo vincolati dalla banalizzazione che ne facciamo qui noi eurocentrici.

I Kokoroko si presentano sul palco alle 20.45 circa, un vero sogno, e chi ben inizia è a metà dell’opera. La scaletta scorre serrata, tra un brano e l’altro c’è giusto il tempo dell’attacco introduttivo, ma poi, in un paio di punti, il percussionista Onome Edgeworth e il tastierista Yohan Kebede si fermano per lunghe – e piacevoli – introduzioni ai brani e al progetto stesso. Confessano la gioia di suonare in Italia, a detta loro un posto più simile all’Africa dell’Inghilterra (vaglielo a dire ai difensori melo-salvinisti della razza), e ricordano i precedenti tour dalle nostre parti in cui, concerto dopo concerto, hanno assistito a una crescita graduale del pubblico sino al tutto esaurito di ieri sera.

In programma molti brani del nuovo album Tuff Time Never Last, qualche estratto da Could We Be More e dall’EP Get The Message uscito a cavallo tra i due dischi, più una straordinaria versione genuinamente highlife di “Love And Death” di Ebo Taylor e un momento davvero intimo, con l’esecuzione del classicone soul “Express Your Love” delle Sweet & Innocent.

Una scaletta con numerosi momenti strumentali, in cui anche il chitarrista Tobi Adenaike e, verso la coda, il batterista Ayo Salawu trovano più spazi per ispirati e trascinanti soli. Un concerto però in cui le voci e i loro magici intrecci (Sheila Maurice-Grey e Richie Seivwright, oltre a essere musiciste incredibili, sono anche cantanti straordinarie) costituiscono l’elemento di maggiore impatto e distinzione dal resto, persino quando il monumentale bassista Mutale Chashi, con il suo look da Malcom X, riesce a ritagliarsi qualche momento per dare il suo contributo al microfono.

La sensazione è che i Kokoroko, dal vivo, riescano ad aumentare le loro composizioni di una terza dimensione. I toni bassi e pulsanti, corredati da modernissimi timbri di synth, dalle note di chitarra suonata nell’inconfondibile stile afrobeat e dai temi eseguiti in modo impeccabile dalla sezione fiati, si completano egregiamente. Il suono si libra dal palco accresciuto senza soluzione di continuità dalla portata di un vero e proprio mare di piacevolezza che va a riversarsi sul pubblico, depositando sedimenti di ottime vibrazioni che si stratificano, brano dopo brano, sugli ascoltatori. Probabilmente uno dei migliori concerti a cui io abbia mai assistito. La musica e il jazz, ieri sera, più che mai hanno raggiunto il loro scopo.