Liberato – Liberato III

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È il 2025 ma il segreto di Liberato, secondo solo al terzo di Fatima quanto a curiosità popolare suscitata e sacralità ispirata, ad oggi sembra lontano dal poter essere svelato. Grazie al recente documentario per il grande schermo dedicato all’artista napoletano e realizzato da Francesco Lettieri (il fidato regista dei cliccatissimi video di Liberato che, nel lungometraggio, introduce il suo alter ego musicale proprio con i misteri in questione in aggiunta a quello finto di Pulcinella) possiamo contare su qualche informazione in più, ma la soluzione dell’enigma è ancora remota.

Altro che fuochino o fuocherello. A dirla con le immagini di un’altra prestigiosa divinità locale, il regista Sorrentino (che condivide l’Olimpo, che poi per loro immagino sia il Vesuvio, con Totò, Peppino, Maradona, Troisi, Pino Daniele e qualcun altro che al momento mi sfugge), ci troviamo in acquissima, al largo del golfo, ad annaspare nello stesso liquido amniotico dell’incantevole (quanto tabagista) Parthenope.

Tant’è che io mi sono arreso. E se avete desistito anche voi e la curiosità si è consumata, i casi sono due. O l’hype del recidivo electro-neomelodico mascherato si è normalizzato oppure (e attenzione che potrebbe non essere la stessa cosa) l’anonimato di Liberato lo diamo come un dato di fatto. Il suo personaggio in outfit all-black fa parte del sistema.

Due varianti basate su un denominatore comune: chi se ne importa, per non dire di peggio. Una considerazione che non aggiunge o non toglie una virgola a un successo in costante crescita, nonostante la ricorsività della proposta artistica, dei contenuti e della forma.

Per questo fa sicuramente notizia un album di Liberato pubblicato il primo di gennaio, anziché il consueto nove maggio, quasi un buon proposito, un presagio da intendersi all’origine di un nuovo corso, o in coda a una fase di cambiamento. Liberato ha risolto finalmente lo struggimento amoroso alla base del suo progetto (lo scrivo dando per scontato che abbiate visto il film e conosciate la storia) tanto da rivoluzionare le priorità di calendario?

In Liberato III il cantante si spinge addirittura a “Novembre”, peraltro con ottimi risultati (la traccia più bella del disco, senza ombra di dubbio, pronta a diventare un nuovo classico del producer napoletano). Quindi, per farla breve, che cosa dobbiamo aspettarci?

Il terzo album di Liberato, al momento disponibile solo in formato liquido, conferma la formula vincente dei due blasonatissimi predecessori, a partire dal minutaggio d’altri tempi (mezz’ora totale di musica declinata in nove tracce, perfette dal punto di vista dell’organizzazione in lato A e lato B) e dalle sottocategorie di elettronica a cui ricondurre i brani.

Fanno molto comfort zone anche la sequenza degli accordi che si inseguono nelle canzoni, oramai uno standard se non un cliché, quelle successioni armoniche consolidate ascrivibili ad archetipi quali “Tu t’e scurdat’ ‘e me” e “’O core nun tene padrone”. Tanto che, vista da qui, la discografia di Liberato potrebbe essere travisata per un continuum, risultare un’unica opera omnia perpetua che si ripropone disco dopo disco secondo i canoni della fluidità con cui si percepisce la composizione musicale di questi tempi in cui, a quasi un secolo di pop e a fronte delle centinaia di migliaia di svilenti suggestioni sonore pubblicate ogni istante sui vari canali di fruizione audio, tutto ci trasmette reminiscenze di tutto.

Senza contare che III è un disco in linea con l’elevata qualità con cui Liberato ci vizia da sempre. Per questo corre il rischio di confondersi, in una immaginaria riproduzione random di una playlist monografica, tra tutto il resto del repertorio del fanta-cantautore napoletano.

Ancora una volta a convincerci sono il miscuglio di idiomi, i crescendo e i drop, gli stop and go, i sessantaquattresimi di hi-hat, il dub, l’uso intelligente di side-chain e ducking sui boati della cassa, i synth in levare, l’immancabile sirena, Napoli, il Napoli Calcio e il suo anno di fondazione, il 1926. Conferme che permettono ad alcune  novità di emergere in freschezza e originalità: la sorprendente attualità del sample del ritornello di “Voglia ‘e turnà” di Teresa De Sio nell’omonima traccia introduttiva, e l’incursione nella drum’n’bass (finalmente di nuovo di moda) di “‘A fotografia”, un tuffo nei break-beat degli anni zero. Per il resto, prevale la sicurezza dei botta e risposta tra la trap e l’house, per un risultato complessivo di eccellente fattura.

Non possiamo quindi che promuovere, anche questa terza volta, il progetto Liberato, un diamante nello scadente e noioso panorama musicale del pop italiano, quello sì davvero anonimo. Ma immaginarlo tutt’ora chiuso nella sua cameretta, con le sue diavolerie elettroniche cheap e il Microkorg (proprio come lo abbiamo visto illustrato nella versione anime della sua vita dal film di Lettieri) a suonare e registrare cose di ordinaria amministrazione, risulta ormai riduttivo per il talento ad ampio respiro che dimostra di saper esprimere.

Liberato ha tutte le carte in regola per raggiungere lo status di The Weeknd europeo. Dovrà solo scendere a qualche compromesso con i vincoli imposti dalla sua auto-narrazione culturale e geografica, ma la voglia di tornare, di percorrere i vicoli di Napoli, lo sappiamo, nun se ferma mai.

cattivi pensieri

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Dietro casa mia, in un’area industriale in cui a nessuno verrebbe in mente di transitare volontariamente in auto, tantomeno a piedi, ha aperto una grande rivendita di mobili e complementi d’arredo vintage. In realtà l’ubicazione è perfetta, da un punto di vista marketing. I milanesi apprezzano questo genere di prodotti inspiegabilmente costosissimi, ma lo stato d’animo che scaturisce dal contrasto tra l’immaginario di un’epoca che sicuramente non hanno nemmeno vissuto ma per i quali nutrono una smodata nostalgia – chissà poi perché – e il degrado senza tempo proprio delle zone artigianali dell’hinterland, da visitare preferibilmente in uggiose domeniche invernali, non li fa badare a spese.

L’apertura del negozio, esteso per svariate centinaia di metri quadrati stipati di modernariato, conferma inoltre una nuova ondata di interesse per il mercato dell’usato da fighetti, trend che ha avuto alti e bassi. Potersi permettere mobili anni sessanta e settanta non è da tutti e ora che l’ulteriore divario del potere d’acquisto tra poveri e ricchi ha compiuto un nuovo scatto, unito ai timori per il futuro in tempi che definire bui è un complimento, le persone più abbienti sembrano nuovamente interessate ad accaparrarsi la sicurezza trasmessa dal design di una vera e propria età dell’oro in quanto a welfare e socialdemocrazia. A memoria, dopo il boom dei mercatini dell’usato in franchising di fine anni novanta, culminata in una bolla che, trasformatasi in fenomeno di massa, ha fatto disamorare la nicchia, abbiamo assistito a una seconda crescita del fenomeno nel decennio scorso, exploit che ha reso il modernariato ancora più esclusivo. A occhio e croce potremmo quindi trovarci al cospetto della terza ondata, ma se avete dati più aggiornati o informazioni più autorevoli vi prego di comunicarmelo qui sotto nei commenti.

Io ho avuto la fortuna di rendermi indipendente e di andare a vivere da solo poco prima che l’usato del 900 diventasse una moda costosissima. Avevo acquistato mobili bellissimi per la mia casa a poche decine di migliaia di lire, ricordo addirittura di aver pagato il trasporto e la consegna di uno splendido divano in ski verde con annesse due poltrone quasi il doppio del loro costo – se non ricordo male avevo pagato i mobili 35mila lire – e rimpiango ancora oggi uno stilosissimo tavolo rotondo con quattro sedie in tek, quasi regalato, che sfoggiavo nel salotto. Ho lasciato tutto questo nell’appartamento in cui vivevo in affitto prima di trasferirmi nella mia residenza definitiva, dove mobili di quel tipo non avrebbero trovato posto. Mi è rimasto qualcosina – una lampada in tek con libreria abbinata ricevute in regalo di nozze dai miei nel 1960, due poltroncine anni 50 che ho visto uguali nello store di cui sopra a 300 euro l’una, e un po’ di cianfrusaglie – ma da allora mi sono disaffezionato. Tutta roba bellissima se vivi da solo ma poco pratica se hai una famiglia e dei gatti.

Ho pensato comunque di fare un giro nel mercatone vintage, considerando la vicinanza da qui. Ho sguinzagliato il mio sguardo da esperto nel vasto hangar stipato di chicche da collezionisti e di facoltosi potenziali acquirenti ma poi ho trascorso il tempo della visita, mentre mia moglie – decisamente più scettica di me – liquidava l’esperienza in una manciata di cartellini con relativi prezzi da capogiro, a scartabellare in quattro contenitori ricolmi di ellepì. Quella dei dischi in vinile è una vera e propria ossessione irrefrenabile che condivide con me il mio corpo e la mia mente più o meno dalla seconda media. Inutile dire che anche i prezzi dei dischi usati erano in linea con il resto dei prodotti in vendita. Per scelta non acquisto mai dischi usati a più di 15 euro, che già mi sembra una cifra ai limiti della ragionevolezza. Fino a dieci anni fa te li tiravano dietro. Ho saccheggiato bancarelle portandomi a casa decine di trentatré giri pagandoli in tutto quanto il costo dell’ultimo disco dei Cure su Amazon.

Ora, come per le chaise longue e certe lampade d’antan, hanno costi inarrivabili. Ho visto un Battiato a 40 euro e “Deja Vu” di CSNY – pagato ricordo 5 euro a un mercatino in Sardegna intorno al 2010 – a 70. Ho deciso comunque di passare in rassegna tutti i dischi sperando in un colpo di fortuna che la tenacia, alla fine, ha favorito. Per 30 euro totali ho portato a casa un doppio Lp di extended play degli Spandau Ballet, il bellissimo “Love Not Money” degli Everything but the Girl che inseguivo da un po’, “Human’s Lib” di Howard Jones in ottime condizioni e, soprattutto, “Cattivi pensieri” di Gino D’Eliso, entrambi a una cifra irrisoria. Mia moglie è rimasta perplessa da quest’ultima scelta. Non aveva mai sentito nemmeno lontanamente nominare il cantautore triestino. Le ho spiegato che Gino D’Eliso è stato una specie di Battiato che non ce l’ha fatta, una sorta di Garbo in versione meno piaciona. Io ne sentivo sempre parlare su Ciao 2001 nei primissimi anni 80 ma ai tempi non esisteva musica liquida e un album di quel tipo di certo non si trovava in tutti i negozi. Poi, grazie al peer-to-peer, mi sono procurato gli mp3 e ora finalmente una copia fisica a un prezzo da vero affare. Il disco suona benissimo e la mia collezione si è arricchita di una vera chicca di cui vado molto fiero, quasi quanto una copia promozionale di “Guendalina” dei Dadaumpa pagata mille lire nella notte dei tempi.

orca

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A Roberto i genitori hanno dato il nome uguale al mio. Roberto è di origine cinese ed è la conferma di una consuetudine consolidata tra la comunità a cui appartiene, almeno nel territorio a cui attinge il comprensivo in cui insegno, quella cioè di attribuire ai loro membri un nome occidentale con cui presentarsi in pubblico. Forse è una cortesia che ci fanno, per evitarci imbarazzanti tentativi di ridurre alle nostre regole anagrafiche una società con una storia millenaria. È il terzo alunno cinese che ho in classe da quando faccio l’insegnante ed è il primo con cui riesco a parlare. La prima era affetta da una forma  di mutismo selettivo a scapito degli adulti, docenti compresi, e il secondo aveva un un mix tra asperger e ipoacusia. Roberto è bravissimo in inglese, siamo in prima e lo sa meglio di me, ma diciamo che è bravissimo in tutto e, quando parliamo di animali, per esempio durante le lezioni di scienze, non capisce più niente. Ha la faccia tonda e simpatica, porta gli occhiali, ed è anche molto educato, con noi e i compagni. Dev’essere per questo che quella volta in cui ha ruttato forte in laboratorio di informatica, o quell’altra in cui ha spezzato a metà una matita a una compagna, senza nessun motivo, mi ha enormemente sorpreso. Non gli danno mai la merenda e, a differenza dei compagni che usano le felpe col cappuccio, lui indossa sempre il cardigan. Ma forse è per il nome che abbiamo in comune che Roberto ha sviluppato una incontrollabile passione per i peli che ricoprono mie braccia. Quando mi arrotolo le maniche della camicia o del pullover sopra i gomiti, durante la lezione, lui non sa resistere, viene al mio fianco e li accarezza in modo molto delicato, senza toccare la pelle. Ieri ero seduto alla cattedra a sistemare due cose al pc sul registro elettronico con le maniche sollevate. È venuto accanto a me e ha iniziato a passare le mani sui peli del braccio. “Orca”, a un certo punto mi ha detto. “Come dici? Non ho capito” gli ho chiesto. “Orca”, ha ripetuto. “A me piace orca”.

Lambrini Girls – Who Let The Dogs Out

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A vederlo nelle foto su Google, il Lambrini (un sidro al gusto di pera) evoca una di quelle sottomarche di vodka alla peggio frutta con cui i ragazzini delle nostre parti, alla ricerca di una sostanza prestazionale in grado di favorire l’inizio del nuovo anno nel modo il più benaugurante possibile, stipano il carrello del supermercato per il veglione di Capodanno durante la spesa collettiva improvvisata, come tradizione, il 31 pomeriggio, raccattando tutto quello di alcolico a buon prezzo che rimane sugli scaffali da pagare poi in cassa con i contanti raccolti dalla colletta. Tutta roba economica che si beve a stomaco vuoto e finisce nel cesso mescolata alle patatine del discount ancora prima della mezzanotte. Una formula perfetta: poca spesa, massima resa.

Un endorsement decisamente punk, quindi, quello delle Lambrini Girls, che trasmetterebbe a chiunque innumerevoli doppi sensi etilici: una band da far girare la testa, canzoni con testi di spirito, ma a chi vogliono darla a bere, un distillato di energia, punk ad alta gradazione, l’ebbrezza delle chitarre distorte, l’hangover da sbornia di potenza sonora. Tutto vero. Noi però ci limitiamo ai fatti.

Le due ragazze di Brighton (voce/chitarra e basso, una coppia sguaiatamente elettrica che diventa trio grazie all’apporto nei live di una batterista altrettanto ribelle) dopo alcune pubblicazioni sparse e un EP sono finalmente approdate al disco d’esordio, dal titolo Who Let The Dogs Out. Un modo di dire, forse un retaggio del video della celeberrima hit omonima, un punto di non ritorno del trash pop di fine anni Novanta, ma in ogni caso un titolo dall’accezione che non lascia adito a equivoci: qualcuno ha lasciato la porta aperta permettendo a questa band poco elegante di uscire a fare un disco niente male, e ora dobbiamo affrontare le conseguenze.

Non è il caso di tracciare un grafico dei gruppi provenienti dal Regno Unito riconducibili al punk e ai suoi derivati saliti agli onori della cronaca, negli ultimi tempi. La rappresentazione visiva dei dati sulla densità abitativa e sulla disponibilità pro capite potrebbe metterci in allarme. Le Lambrini Girls però si ritagliano in questo panorama affollato quanto avvincente un posto di tutto rispetto. I loro brani sono una bomba, tutti, dal primo all’ultimo, e dal vivo suonano molto bene un punk sicuro, apparentemente grezzo ma tecnicamente ineccepibile.

In una parola, spaccano (date un’occhiata al loro live alla KEXP) e, soprattutto, propongono con ironia e sarcasmo temi decisamente scomodi nelle liriche delle loro canzoni. Ce l’hanno con la polizia (e chi non, direte voi), il maschilismo e la disparità di genere negli ambienti di lavoro (a proposito, presentarle come gli Idles al femminile è decisamente riduttivo, anche se l’incipit del disco, in effetti, mette sul chi vive anche l’ascoltatore più distratto), il machismo tout court, i canoni alimentari imposti dal mercato, le mode, l’inclusività di facciata, gli avvelenatori di relazioni, l’amichettismo nell’ambiente musicale, la gentrificazione e chissà che altro.

Ma quello che vi stupirà è la totale assenza di banalizzazione musicale nelle composizioni. Suonano inequivocabilmente punk, con contaminazioni industrial e grunge, ma non troverete mai in tutto il disco un giro di accordi approssimativo, non un passaggio forzato, non un momento evocativo di qualcos’altro perché, abilmente, Who Let The Dogs Out ha il magico potere di cambiare registro all’istante per mescolare le carte e confondere adeguatamente l’ascoltatore.

Sono i riff di chitarra e basso a lasciare piacevolmente senza fiato, e il drumming a mettere a tappeto, e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Da “Special Different” a “Bad Apple”, da “Big Dick Energy” a “You’re Not from Around Here”, fino a “Love”, sicuramente il brano più travolgente, una canzone in cui una trama dichiaratamente più post che punk del resto tradisce una appena riconoscibile vena di vulnerabilità in un progetto che trasuda sfrontatezza, temerarietà, cinismo, irriverenza e sprezzo del pericolo.

Malgrado gli spoiler dei singoli pubblicati nelle scorse settimane, Who Let The Dogs Out non ha certo rovinato la sorpresa di un esordio in grande stile. Le Lambrini Girls sono il modo più efficace per mandare in vacca tutti i migliori propositi per l’anno nuovo, a partire dall’intenzione di osservare il dry january. Avete capito bene: Lambrini Girls, dry january.

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Ogni famiglia si confronta con una famiglia rivale di una rivalità che poi è fondamentalmente invidia, e l’invidia, converrete con me, è un sentimento positivo, altro che vizio capitale. La mia famiglia rivale abita proprio qui all’angolo e li invidio perché vivono in una villetta a schiera indipendente completamente coperta dalla vegetazione lussureggiante che cresce rigogliosa nel giardino. Il nucleo è composto da madre, padre e qualcosa come sei figli ma attenzione perché non sono di cielle come tutte le famiglie numerose che trombano solo per procreare. Non sono nemmeno radical chic anche se potrebbero tranquillamente permetterselo. I genitori non sono facoltosi professionisti ma svolgono mestieri normali – lei è un’insegnante e lui lavora credo come tecnico per un provider telefonico. Hanno la fortuna di aver avuto a loro volta genitori lungimiranti, mica come i miei che non vorrei sembrare irrispettoso ma hanno sprecato soldi in lungo e in largo per tutta la vita e hanno cresciuto un deficiente a cui hanno permesso tutto quello che chiedeva.

La leggenda metropolitana racconta che hanno mandato più volte in estate i figli in famiglie all’estero, addirittura in Australia, fin dai tempi della scuola primaria. Grazie a questo approccio – un misto tra scoutismo, mentalità nordeuropea e autarchia alla Captain Fantastic – i figli sono diventati adulti, i più grandi, e ragazzi, i più piccoli, fuori dal comune. Quei due che invidio non potete immaginare quanto hanno cresciuto cittadini indipendenti fatti e finiti, dei mostri di maturità e pronti a continuare da soli questa catena di gente sicura di sé, che li riconosci dallo sguardo indomito, da come si vestono e si muovono nel mondo incuranti del giudizio altrui, le femmine da piccole con i capelli da maschietto e maschi da grandi con i dreadlock portati con eleganza, che si muovono in bici anche sotto le bufere di neve, mai una merendina industriale, le Birkenstock come archetipo estetico e cose di questo tipo.

Si tratta, come avrete capito, di una rivalità tutt’altro che reciproca perché loro non mi cagano nemmeno di striscio, non sanno nemmeno chi sono e figuratevi se immaginano che quello di cui ignorano l’esistenza che abita di fronte, in quel condominio anonimo, è un famoso autore del web italiano.

Io comunque di figli ne ho solo una, una femmina appunto figlia unica, avuta a trentasette anni (mentre i rivali si sono dati da fare subito) e che ho viziato ed educato malissimo tanto che ascolta musica assurda, vede cinema da merdoni, ci ha reso totalmente dipendenti da lei e frequenta una facoltà inutile al cazzo. Ma ora è successo che praticamente tra tre giorni partirà per l’Erasmus, starà via cinque mesi, e io mi sto cagando addosso. Il fatto è che lei si è ampiamente resa conto che suo papà è una mezza calzetta. Mia moglie ed io non riusciamo nemmeno a decidere se è meglio acquistare qui un piumino in microfibra da mettere in valigia e spedirlo là o se è più logico comprare direttamente là un piumino d’oca da riportare poi a casa, una volta terminata l’esperienza all’estero.

Ripeto: io sto male e non so come me la caverò, se non l’avete capito. La mia famiglia rivale, con i figli in Australia da soli a dieci anni, alla lontananza e alla nostalgia non avrà concesso nulla. Il punto è che non è assolutamente come credevo. Io credevo di essere anch’io come la mia famiglia rivale e che avere una figlia che studia all’estero fosse una cosa fighissima. Probabilmente lo è, ma vorrei che qualcuno di voi mi spiegasse i benefici, se ce ne sono.

litio

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Da qualche settimana tengo un corso di informatica e cultura digitale a una trentina di ragazzini della secondaria di primo grado del comprensivo in cui insegno. Si tratta di una delle svariate iniziative di formazione a cui mi sono reso disponibile grazie ai finanziamenti ottenuti con il PNRR che mi consentono di arrotondare i quattro soldi dello stipendio da insegnante di scuola primaria. Al corso di informatica e cultura digitale si sono iscritti in tutto una sessantina di studenti provenienti da tutti e tre gli anni di quella che una volta chiamavamo scuola media. Ce li siamo divisi equamente io e il collega della secondaria che, come me, è stato selezionato dopo aver partecipato al bando. Quindici lezioni da due ore ogni venerdì pomeriggio che, tra vacanze e ponti, si concluderanno a metà maggio. Il collega ed io siamo siamo ubicati in due aule, una di fronte all’altra. Accogliamo i ragazzi terminato il panino che si portano da casa e che consumano nel grande spazio a cui si affacciano i laboratori del piano terra. Saliamo insieme a loro al piano superiore, dove si trovano le classi, e da lì i due gruppi si dividono seguendo il prof a cui sono stati assegnati.

Il programma è grosso modo identico e finalizzato al conseguimento del cosiddetto patentino ICDL. Cambia ovviamente l’approccio, nonostante il mio collega ed io rientriamo ampiamente nella categoria degli smanettoni. Siamo due umanisti, nell’accezione del tipo di studi in cui abbiamo conseguito la laurea, ma non so per quale forma mentis riusciamo a risolvere qualunque problema tecnico legato all’uso dei dispositivi digitali si presenti ai colleghi. E non sto esagerando. Qualche giorno fa il mio collega mi ha insegnato una cosa che non sapevo: staccando per qualche minuto la pila al litio ubicata sulla scheda madre il sistema si resetta completamente. Una procedura empirica che si è rivelata utile per ripristinare da zero un paio di ferrivecchi desktop che ho in laboratorio e sui quali il tentativo di revamping in Chrome OS ha fatto cilecca.

La cosa strana è che poche ore dopo ho assistito a un intervento analogo su un’automobile super-moderna in cui era andato in tilt il sofisticatissimo sistema informatico e non c’era verso di farla ripartire. Il proprietario, che poi è un amico, ha staccato il cavo della batteria, abbiamo atteso qualche minuto, ha ripristinato i connettori nella posizione corretta e l’auto è si è riaccesa come se niente fosse. Alcuni sostengono che trovarsi in balia dell’elettronica sia molto più grave che trovarsi in balia della meccanica. Ti si blocca la macchina perché il computer di bordo è impazzito – quelli del Discovery con a bordo HAL 9000 ne sanno qualcosa – e sei letteralmente fottuto. A quel punto devi aprire l’involucro in cui vive e respira e si nutre quella specie di entità soprannaturale e, brugola alla mano, devi scollegare fisicamente chissà quante parti cablate per salvarti il culo. Giro giro tondo, casca il mondo, avete capito bene, proprio quella roba lì.

Vi confesso però di aver accusato una non leggera difficoltà nello smontare e montare lo chassis per tentare l’esperimento della pila al litio, togliere e stringere le viti, proteggermi dalla polvere di chissà quanti anni penetrata nel cuore pulsante di quei vecchi computer scolastici. Senza contare che vivo nella consapevolezza – assolutamente non dimostrata – di essere allergico alla polvere e in genere a certe particelle presenti nello smog. Ai tempi dell’università la viuzza che collegava la stazione ferroviaria alla mia facoltà era aperta al traffico e non passava mattina che non dovessi correre in bagno al primo bar aperto per porre rimedio a fortissimi attacchi non sto a specificarvi di cosa ma ci siamo capiti.

Comunque, tornando ai computer, il mio resta un approccio decisamente in linea con le aspettative dei ragazzi del corso, tutti più che millennials. Nessuno di loro ha voglia di ascoltare paternali su hardware e periferiche che non servono più a niente e anche l’ICDL, vista con gli occhi dell’adolescente del 2025, è un acronimo che suona come una cagata pazzesca. A chi interessa se confondono browser e motore di ricerca, tanto ora ci sono Trump e Musk e la Meloni che spazzeranno via l’intera civiltà come l’abbiamo conosciuta e chi ha le possibilità si trasferirà su Marte. A chi interessa se non hanno idea di come rendere editabile un PDF, che peraltro pensavo che la P stesse per Printable e invece è l’iniziale di Portable ma, e non lo dico per eludere una qualche responsabilità nell’averne equivocato la definizione, il senso non cambia di un bit.

Ethel Cain – Perverts

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In uno dei suoi più recenti momenti ask sui social, veri e propri siparietti Q&A con i follower, Ethel Cain ha chiarito ogni dubbio sul rischio che Perverts, il suo attesissimo nuovo lavoro (forse l’unico EP della storia della musica lungo ottantanove minuti) possa risultare un deterrente per i fan della domenica, quelli che fraintendono brani del suo repertorio come “Michelle Pfeiffer” o “American Teenager” e, ingenuamente, li aggiungono come riempitivi a playlist indie-pop dal sapore buonista alla Taylor Swift insieme ad altro materiale costruttivo e rassicurante.

In effetti la community degli ammiratori della cantautrice di Tallahassee pratica un approccio radicalmente calvinista al culto della preacher’s daughter, mentre tra i più scettici o i laici, o comunque tra i numerosissimi utenti distratti e inconsapevoli di Spotify, può risultare naturale una certa fatica a raccapezzarsi tra i meandri del suo percorso musicale.Rispetto alle accuse di allontanamento volontario di qualche fan, basta sbirciare tra la copiosa letteratura video rubata di straforo ai suoi concerti per convincersi, al contrario, del profondo legame che Mothercain ha tessuto con il pubblico, almeno quello delle prime file. Massima invidia (un sentimento assolutamente positivo, non me ne vogliate) per tutti quei miracolati, presi per mano, pietrificati dallo sguardo di questa Gorgone del Duemila puntato negli occhi, colti in lacrime nell’estasi della fruizione ravvicinata di intere strofe cantate ad personam, una trance indotta da un fascino e un carisma così potente in grado di mandare al tappeto qualunque persona debole di cuore.

Nella mia condizione di maschio italiano bianco etero basic, con l’aggravante di svariati decenni sul groppone, lungi da me la velleità di comprendere anche di striscio una personalità così complessa e in divenire individuale e artistico come quella di Ethel Cain. Mi basta unire i puntini tra le tappe salienti della suo percorso intimo e privato e la sua produzione artistica (il tutto nella cornice dell’estrema provincia USA, quella che noi, in questo buco di culo di posto, non possiamo minimamente nemmeno immaginare come cresca i suoi figli, se non dalle riduzioni letterarie dei libri e delle serie tv) per capire che si tratta di una cosa al di fuori della mia portata.

E, anche se volessimo parlare di musica, qui c’è poco da dire perché in Perverts di musica, almeno nell’accezione che ci hanno insegnato fin da bambini, ne troviamo davvero poca. A differenza di Preacher’s Daughter, il concept album di esordio, un capolavoro di cantautorato, americana in tinte dark e southern gothic e vera summa di tutto quello che ha digerito Hayden Silas Anhedönia per trasformarsi nell’affascinante figura di Ethel Cain. A differenza dei primi EP, Inbred su tutti, che hanno contribuito a diffondere il mito che oggi ha raggiunto tre milioni di ascoltatori mensili. E a differenza delle decine di canzoni che, prima di dichiararsi nella nuova identità artistica, la cantautrice ha diffuso sul web e di cui, sin dal raggiungimento più o meno definitivo della meta della sua transizione, ha chiesto senza tanti mezzi termini ai fan la cancellazione dai riproduttori e dalle cronologie, un progetto ampiamente superato e quinti estraneo alla nuova ispirazione.

A differenza di tutto questo, Perverts è principalmente un compendio di drone, industrial lo-fi e rumorismo ambient in un’opera audace e fortemente complicata in grado di riflettere un profondo disagio ma che, liberata e percepita fino all’ultimo istante, garantisce un’esperienza senza confronti. Nove non-tracce che alternano suggestioni pseudo-acustiche calde e avvolgenti ad atroci incursioni in una dimensione anti-materica, una sorta di sottosopra intriso di tutte le frequenze e le vibrazioni di cui, da questa parte della realtà, solo le leggi della fisica impediscono la propagazione.

Persino la voce, o almeno il simulacro del timbro che è possibile ricondurre a una natura umana, risulta perversamente vilipesa e brutalizzata in un’illusoria parvenza di tregua per l’anima. In brani come “Vacillator” , “Amber Waves” o “Punish”, abili decostruzioni country e slowcore e veri e propri salmi di espiazione ispirati dallo sconforto, Ethel Cain si (e ci) strugge attraverso i topos della sua liturgia, una narrazione in cui i confini tra il bene e male non si delineano distintamente, l’uno sporca indelebilmente l’altro e il tutto appare sfocato e contaminato da un’accezione dell’amore (sacro e profano, Dio e gli esseri umani peggiori) definitivamente compromessa.

La scelta deliberata dell’ascolto di un disco viscerale come questo può lasciare ferite irrimediabili. Perverts è un vortice trascendentale, un’immersione negli abissi del disagio e una anestetizzante esperienza di regressione a emozioni indecifrabili a cui solo un deterioramento accelerato del suono come lo conosciamo, pratica di cui Ethel Cain è sperimentatrice estrema, può indurre. Un viaggio fatale di sola andata in un non luogo tentacolare, dove angoscia e bellezza si uniscono per resettare per sempre ogni credenziale utile a individuare l’accesso sicuro e protetto alla via del ritorno.

calza a pennello

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Poche giornate, almeno qui da noi, ci sono invise come il sei di gennaio, una data che sin dalle prime ore dell’alba trasmette perfettamente l’idea dell’apocalisse. La fine di tutto adiacente in perfetta simmetria con la ripresa di tutto, con qualche inesorabile differenza, a partire dal +1 in età di noi involontari utenti abbonati a questo servizio di deterioramento e deriva di cui faremmo volentieri a meno anzi no, ricordate che costituisce un vero e proprio monopolio, non ci sono alternative (una sola, ma meglio tenersene alla larga, come quelli che vogliono cancellarsi da X e non ne hanno il coraggio) e il canone ci viene addebitato in una bolletta metaforica indipendentemente dal modo in cui ne fruiamo e dal consumo. Certo potrebbe andare peggio. Potrebbe essere il sei di gennaio e noi studenti del liceo con una sfilza di insufficienze nelle materie più importanti, zero voglia di studiare, la maggior parte dei compiti delle vacanze da svolgere in meno di ventiquattro ore e domattina un compito in classe e almeno due rischi di interrogazione che potrebbero risultare fatali ai fini della pagella del primo quadrimestre se non compromettere addirittura l’anno. Ecco. Se potessi scegliere un desiderio impossibile, altro che la pace nel mondo o l’invisibilità per spiare le modelle mentre si spogliano nei camerini delle sfilate. Sceglierei di andare bene a scuola, di prendere voti alti perché sono intelligente e studioso, mi vengono i sistemi di equazioni e traduco dal latino senza nemmeno bisogno del vocabolario. Vorrei essere il più bravo della classe, avere medie alte e la stima dei miei professori, affrontare ogni giorno di scuola senza paura perché sempre preparato. Un desiderio che, come la prima di una sfilza di tessere del domino, spingerebbe tutte le successive fino all’ultima, collocata in un posto e in un momento diverso da qui e ora, a partire dal tempo da dedicare ai compiti delle vacanze e i compiti tout court, che inevitabilmente andrebbe a erodere il tempo sprecato per cose inutili che mi hanno portato in questo posto e in questo momento. Chissà cosa e dove sarei e, soprattutto, come lo racconterei.

punto di ritiro

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La mia fortuna con i tabaccai ha visto fasi alterne. Ai tempi delle Camel a 1600 lire – potrei sbagliarmi, forse costavano 1650 – la coppia che gestiva la rivendita sotto i portici del centro da cui mi rifornivo quotidianamente aveva perso un figlio più o meno della mia età. Se l’era portato via un brutto incidente in motorino, la causa di morte dei giovani più diffusa negli anni ottanta, eroina a parte. In quanto sopravvissuto a differenza sua mi sentivo in colpa, ogni volta che varcavo l’ingresso della tabaccheria.

Sarà stato anche per quello, fatto sta che pochi anni più tardi da quella tragedia ho smesso di fumare, scelta che non mi ha impedito di tenermi alla larga dalla categoria. Vi ho già parlato del simpaticissimo tabaccaio del PD, – era solo quattordici anni fa – da cui acquistavo i biglietti dei concerti e dove ho comprato quelli per il mio primo live dei The National. Non mi fidavo ancora dell’e-commerce e in più mi piaceva la sensazione di tornare a casa con i titoli di accesso stampati sul cartoncino regolamentare, tenuti nella borsa a tracolla, per condividere la felicità al rientro con mia moglie. Una esperienza per la quale ero disposto anche a passare sopra il fatto di non poter pagare con la carta i biglietti in tabaccheria ma di dover, ogni volta, prelevare dei contanti al bancomat a lato del negozio. Chissà se nel frattempo le cose sono cambiate, oramai mi affido unicamente ai biglietti virtuali e al codice a barre trasmesso via email o app. E comunque, da quando non lavoro più in zona, il tabaccaio del PD non l’ho mai più incontrato, ma non ho nessun dubbio che, come me, sia ancora del PD.

Anche mia sorella, per alcuni anni, ha lavorato in una tabaccheria. Una volta ha addirittura venduto le cartine lunghe a Gianna Nannini anche se – a quei tempi indossavamo tutti quanti vistose mascherine sul viso – non è sicura al cento per cento che si trattasse di lei. Erano i giorni del festival di Sanremo – la rivendita in cui faceva la commessa si trova in un paese della riviera del ponente ligure – quindi è possibilissimo. Ma il suo lavoro di tabaccaia non è durato molto. I gestori erano ogni mese in ritardo con gli stipendi, in più di mia sorella non si può dire proprio che abbia un bel carattere, e così un bel giorno ha preso e si è licenziata.

Per mantenere viva questa curiosa tradizione ora faccio visita di frequente a una tabaccheria dal nome decisamente insolito, inciso su di un’insegna che richiama la letteratura fantasy, ma che esiste da prima della moda dei fratellisti d’italia e di atreju. In più l’esercente sembra tutt’altro che uno di destra. Sfoggia lunghi dreadlock, svariati tatuaggi sulle braccia e piercing sulla faccia. Si alterna dietro il bancone alla sua compagna, anche lei indubbiamente alternativa. Il loro negozio è piccolino, nonostante ciò non avete idea di quanti pacchi in arrivo dagli acquisti online è in grado di accumulare nel retrobottega. Quando la piattaforma di vendita mi dà la possibilità scelgo sempre la sua tabaccheria per le consegne. Finalmente i lavori di ristrutturazione del condominio in cui vivo sono terminati, nonostante ciò non mi è passata la sensazione di provvisorietà che il palazzo trasmette e così preferisco non rischiare di lasciar incustodite le cose che compro. Senza contare il frenetico commercio su Vinted in cui mia figlia si è gettata a capofitto. Le ho chiesto spiegazioni ma mi ha assicurato che non c’è niente di losco, si tratta solo di vestiti usati, e io le credo. Per farla breve, il tabaccaio rasta-punk senza bbestia oramai si ricorda il mio cognome e mi avvisa se, oltre all’ennesimo disco per me, c’è qualcosa per lei.

La morale della storia è che mia moglie ed io ci siamo chiesti se attivare un servizio di fermo posta sia realmente redditizio per un esercente. Il senso di colpa che abbiamo sviluppato nei confronti della quantità di pacchi che ritiriamo da lui ci ha addirittura indotto a pensare di comprare un pacchetto di Camel, una delle prossime volte, nel caso il tabaccaio punti esclusivamente sull’indotto. In realtà poi è stato lui stesso a confermarci che non è così. Per ogni consegna e ritiro c’è un guadagno, e ci mancherebbe. Ci siamo dati reciprocamente degli ingenui. Chi è che si metterebbe in pista per un’attività così impegnativa senza ottenere un ritorno? E poi, a parte il fatto che a Milano non si può più fumare, non ho nemmeno idea di quanto costi oggi un pacchetto di Camel.

tappi

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Non vi nascondo che da quando ascolto la KEXP anche a casa – mi sono dotato di un accrocchio bluetooth con cui connetto il pc allo stereo – metto molti meno dischi. Ho pensato addirittura di annullare l’abbonamento a Spotify – ho un amico musicista super professionista che lo considera il male assoluto – ma non dovete preoccuparvi, sto bene, l’idea è stata solo una questione di un attimo. È stato sufficiente constatare per l’ennesima volta la praticità delle playlist tematiche che allestisco prima di andare a correre a farmi desistere.

Il punto è che, abituati a certi standard di qualità della vita e alle comodità che comportano, è difficile tornare indietro. Riuscireste mai a fare a meno del vostro letto dopo averci dormito più di 50 anni? L’altra notte ho disteso le gambe sotto il piumone, in una duplice sensazione di confort provata grazie all’apparente paradosso dovuto alla freschezza del cotone in contrasto con le potenzialità del tepore che da lì a poco si sarebbe sviluppato, e ho pensato ai popoli che abitano le case sventrate dalla guerra che si vedono alla tv, un’immagine, anche in questo caso, evaporata dopo pochi secondi. Ero rientrato tardi, l’esposizione al freddo è stata una scelta e per nulla imposta da un esercito invasore, e mi sono addormentato senza alcuna difficoltà.

Quando poi mia moglie mi ha raggiunto a letto, non saprei dire quanto tempo fosse trascorso dal momento in cui mi ero coricato, mi sono svegliato da quel tipo di sonno che ci prende per primo – incerto ma allo stesso tempo decisivo, un’altra contraddizione – e quel repentino cambiamento di stato mi ha indotto a temere, per una manciata di istanti, di essere morto, un equivoco dovuto a qualche informazione che la mia mente in stand-by stava processando a mia insaputa. Ma poi, come al solito, mi sono ritrovato tutto intero e in carne e ossa, con il copripiumino a foglioline indaco e grigie addosso e la tapparella chiusa il giusto per lasciar trapelare un po’ della luce del lampione che sovrasta il parcheggio dietro casa su cui si affaccia la nostra camera da letto.

Un risveglio che ahimè si è rivelato fatale. Mia moglie è crollata come al solito e i suoi respiri, come accade spesso, hanno preso una brutta piega, dopo la quale non c’è stato verso di riaddormentarmi. Ma non è stata solo colpa del suo russare. Ero un po’ su di giri perché a cena – ho incontrato alcune persone con cui bevo una birra due sere l’anno – ero riuscito a non farmi tirare dentro in una discussione a tema politico. Mi sono trattenuto come mai successo credo in vita mia, una di quelle volte in cui la rabbia la fai brillare dentro per non farla scoppiare fuori proprio come quegli aggeggi che usano gli artificieri per contenere al mimino le esplosioni, e i postumi della deflagrazione a salve si sono fatti sentire proprio di notte, in quel frangente. Ho provato così l’espediente della KEXP in cuffia riprodotta sul telefono. Trasmettono da Seattle e, rispetto al nostro fuso orario, sono indietro di circa nove ore. Non c’era nessun programma notturno, per farla breve, ma la classifica dei 100 dischi più votati dagli ascoltatori della radio, un programma iniziato ore prima – ne avevo intercettato una parte in auto proprio mentre mi recavo a cena – e a quel punto restava veramente poco alla top ten. Malgrado le proposte non conciliassero affatto il sonno, sono comunque riuscito a riaddormentarmi e non so dirvi come sia finita. Ricordo solo di aver pensato che io, di dischi belli, quest’anno ne ho contati almeno una settantina, e che al risveglio li avrei scritti qui, subito dopo aver ordinato su Amazon i migliori tappi per l’isolamento acustico. 

Adrianne Lenker – Bright Future
Amaro Freitas – Y’Y
Berries – Berries
Beth Gibbons – Lives Outgrown
Black Ends – Psychotic Spew
Bodega – Our Brand Could Be Yr Life
Cassandra Jenkins – My Light, My Destroyer
Chelsea Wolfe – She Reaches Out To She Reaches Out To She
Clairo – Charm
Clearwater Swimmers – Clearwater Swimmers
Cola – The Gloss
English Teacher – This Could Be Texas
Ezra Collective – Dance, No One’s Watching
Fat Dog – Woof
Father John Misty – Mahashmashana
Fin Del Mundo – Hicimos Crecer Un Bosque
Folly Group – Down There!
Fontaines D.C. – Romance
Grandaddy – Blu Wav
Hana Vu – Romanticism
Hauspoints – Eel Feeling
High Vis – Guided Tour
Hildegard – Jour 1596
Honeyglaze – Real Deal
Ibibio Sound Machine – Pull The Rope
Idles – Tangk
Jessica Pratt – Here In The Pitch
Joan As Police Woman – Lemons, Limes And Orchids
Julia Holter – Something In The Room She Moves
Kaia Kater – Strange Medicine
Kamasi Washington – Fearless Movement
Kate Bollinger – Songs From A Thousand Frames Of Mind
Khruangbin – A La Sala
King Hannah – Big Swimmer
Little Simz – Drop 7
Loma – How Will I Live Without A Body?
Mabe Fratti – Sentir que no sabes
Magdalena Bay – Imaginal Disk
Mannequin Pussy – I Got Heaven
Mdou Moctar – Funeral For Justice
Merce Lemon – Watch Me Drive Them Dogs Wild
Mgmt – Loss Of Life
Mildlife – Chorus
Mj Lenderman – Manning Fireworks
Moor Mother – The Great Bailout
Nadine Shah – Filthy Underneath
Nia Archives – Silence Is Loud
Nilüfer Yanya – My Method Actor
Omni – Souvenir
Oum Shatt – Opt Out
Phantogram – Memory Of A Day
Pillow Queens – Name Your Sorrow
Plantoid – Terrapath
Porridge Radio – Clouds In The Sky They Will Always Be There For Me
Rosie Lowe – Lover, Other
Royel Otis – Pratts & Pain
Sleater-Kinney – Little Rope
Soccer Mommy – Evergreen
St. Vincent – All Born Screaming
Still House Plants – If I Don’t Make It, I Love U
Subsonica – Realtà Aumentata
The Cure – Songs Of A Lost World
The Last Dinner Party – Prelude To Ecstasy
The Smile – Wall Of Eyes
The Waeve – City Lights
Torres – What An Enormous Room
Twenty One Pilots – Clancy
Vampire Weekend – Only God Was Above Us
Waxahatchee – Tigers Blood
Yannis & The Yaw – Lagos Paris London
Yard Act – Where’s My Utopia?