The champion, my friends

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Furono i Lost a meritarsi il premio di vincitori morali della serata, grazie alla loro esibizione di una manciata di cover dei Ramones. Nulla di strano, se non fosse che quello non era un concorso musicale e, soprattutto, si trattava di un concerto commemorativo per Freddie Mercury, morto qualche giorno prima. Suonare dei pezzi di punk caciarone al tributo in onore della più significativa icona del rock mainstream fu un gesto geniale e irriverente, al limiti del situazionismo, ma a notare la provocazione furono in pochi, tra il pubblico che partecipava distratto sotto il palco. La solita claque di intimi rockettari che seguiva i Lost nei concerti in città e i membri dell’altro gruppo che non c’entrava nulla con il tema della serata, una band che sfoggiava un nome smaccatamente new wave, con l’aggravante di essere degli outsider di provincia.

Suonavamo e ci atteggiavamo un po’ come gli Smiths ma fuori tempo massimo, considerando che il gruppo di Morrissey era già morto e sepolto da quattro anni a seguito di una separazione destinata a non risolversi mai più. Ci trovavamo nelle grazie del presidente dell’ARCI di zona e fu proprio lui a coinvolgerci in quel concerto, non so se per merito, perché ci trovava originali, perché segretamente invaghito del nostro cantante o, ancora, perché non c’erano state abbastanza adesioni e quelli di fuori, come noi, avevano più fame di entrare nel giro degli eventi di città. Una serata di metà dicembre organizzata in fretta e furia in uno dei tanti locali che oggi ospitano un supermercato, una banca o un’altra ragione sociale più redditizia dell’entertainment. Un posto il cui nome curiosamente ricordava il termine che si usa nelle redazioni dei quotidiani per indicare i trafiletti commemorativi che si pubblicano quando muore qualcuno di importante, e che i giornalisti tengono pronti nel cassetto mentre le persone a cui sono dedicati sono ancora in vita, molto vecchi oppure con un piede nella fossa, per essere pronti a divulgare la notizia prima degli altri e bruciare la concorrenza. E anche il tributo dell’ARCI a Freddie Mercury era stato pensato per dare un segnale immediato ai giovani del posto sul fatto che l’organizzazione fosse viva e vegeta, sul pezzo, disponibile a osservare il lutto insieme a chi si sentiva vuoto senza il suo beniamino, o anche solo orfano di una rockstar così ingombrante.

Avevo scelto con cura che cosa indossare per quella serata. Venivo da anni di ossessione per gli indumenti neri e mi trovavo in piena fase di disimpegno per il rigore imposto dai canoni del genere musicale che praticavo con abnegazione sin dall’adolescenza. Ora, al contrario, prestavo attenzione a trasmettere agli altri nel modo più convincente possibile la casualità della scelta dei capi e del loro abbinamento, una non-strategia che anche in quella occasione fece la differenza. Avrei scoperto solo anni dopo che quel concerto avrebbe costituito la serata inaugurale di una fase della mia vita di cui, ancora oggi, non posso che riconoscere l’unicità. Un periodo purtroppo breve ma molto intenso, cominciato con una camicia grigia, pantaloni di velluto chiari e un paio di anfibi, e terminato venti mesi dopo, con il giro di strette di mano al termine della discussione della tesi di laurea. Poco meno di due anni in cui mai più mi sarebbe capitato di muovermi con altrettanta disinvoltura e che, visti da qui, avrei potuto spremere con più decisione e maggior vigore, con l’obiettivo di cogliere ancora più opportunità di quelle che ho portato a casa.

Il concerto commemorativo per il cantante dei Queen a cui ho partecipato con la mia band, anzi, con una delle band con cui suonavo allora, ma che era quella principale, quella il cui nome riportavo con convinzione a chi mi chiedeva di quale formazione facessi parte, coincide con la prima volta in cui baciai Barbara. Mi piaceva Barbara perché era molto bella, e io le piacevo perché Barbara era una persona completamente fuori di testa, attirata dal fatto che anche io sembrassi una persona altrettanto fuori di testa, e fino a prova contraria non esiste nessun’altra spiegazione per cui una ragazza così attraente avesse deciso di dedicarmi così tante attenzioni.

La prima volta in cui ci eravamo notati reciprocamente avevamo trascorso l’incontro inaugurale del primo anno accademico del corso di laurea a cui eravamo iscritti seduti sugli scranni opposti dell’Aula Magna di facoltà a guardarci e mandarci segnali da distante, probabilmente attirati dalle rispettive caratteristiche che ci rendevano unici. Lei oggettivamente fuori dal comune, io seduto tra maschi rumorosi, brutto e strambo ma conciato come il cantante dei Cure, fuori luogo ovunque e soprattutto in quel contesto anche se, era l’86, di fronte a certe manifestazioni di appartenenza a tendenze o movimenti – sempre più musicali e sempre meno politici – le istituzioni e la gente, più per impreparazione che per accondiscenza, chiudevano un occhio. La stravaganza folcloristica, a metà di quel decennio che, ancora oggi, sono in molti a giudicare irripetibile, era nel peggiore dei casi tollerata, quando non considerata un pittoresco valore aggiunto, espressione di indole creativa, di ambizione artistica, di pensiero fuori dagli schemi. Per me, un escamotage per rimorchiare o poco più.

Dopo il gioco di sguardi in Aula Magna, Barbara però era sparita nel nulla. Solo un anno dopo, quando ci incontrammo di nuovo, venni a sapere da altri che era caduta vittima di un forte esaurimento nervoso a seguito di un problema di salute serio. La ritrovai così una mattina, alla ripresa dei corsi nell’anno accademico successivo, ricomparsa dal nulla come nel nulla era svanita esattamente dodici mesi prima, dopo quel muto flirt. Un paio di amici la frequentavano tra una lezione e l’altra in università con la comprensibilissima finalità di concludere qualcosa, così non persi l’occasione di iscrivermi a quella gara a chi ci riuscisse prima ma che, vi posso assicurare, in quel girone preliminare non vide nessun vincitore.

Barbara giocava con la sua apparente disponibilità per poi lasciare chiunque, almeno noi di quel gruppo di studenti frequentanti, a bocca asciutta. In quel periodo, comunque, risultavo fidanzatissimo e potevo puntare sulla scusa della fedeltà e della conseguente indisponibilità quando mi precipitavo a muovere un passo indietro ogni volta, poco prima del momento apparentemente decisivo in cui non era ben chiaro se si sarebbe venuti al sodo o, come invece credevo io, mi sarei preso un più che ammissibile rifiuto, considerato l’oggettivo divario estetico. Barbara ricordava moltissimo una delle più iconiche bellezze dei tempi, la cantante Patsy Kensit, e nessuno capiva che cosa ci facesse nel gruppo di studenti sfigati che frequentava, che comprendeva anche me. Era consapevole del fatto che i maschi di quella compagnia avrebbero fatto qualunque cosa per lei, io in primis, ma sarebbe stato lo stesso altrove. Il punto è che il suo gioco di seduzione, da lì fino al giorno in cui ci baciammo, soltanto quattro anni più tardi, si protraeva sempre pericolosamente un po’ più in avanti, di volta in volta, ma senza risultati. Una specie di sfida a chi ci arrivava più vicino che però vincevo sempre io, rinunciando e tirandomi indietro per il terrore che lei spostasse il volto, sottraendosi al bacio. Una ritrosia che Barbara, non immaginando il mio baratro di timidezza, equivocava per stoica resistenza al suo fascino, più che per manipolatorio sadismo pensato per caricare al massimo la tensione erotica che, settimana dopo settimana, mese dopo mese, sembrava però non esplodere mai.

Le cose cambiarono radicalmente nella primavera del 91, tre anni e mezzo più tardi. Ero stato piantato in asso dalla ragazza con cui stavo da anni, proprio durante il servizio militare – al ritorno da ogni licenza ci si aggiornava, in caserma, sul numero delle vittime lasciate sul campo – e non avevo perso tempo ad avviare un rapporto epistolare con Barbara. Ci spedivamo lettere con tanto di francobolli, avete capito bene, con una certa continuità. Una cosa che suona romantica ai tempi dei social, ma che nella sostanza consolidava le stesse dinamiche tra noi due, con la differenza che ora non sarei stato più soggetto ai sensi di colpa di un eventuale tradimento della persona con cui mi ero da poco lasciato, in caso di capitolazione nel gioco perverso di Barbara. In una busta un giorno trovai persino una sua fotografia decisamente esplicita – sedeva su un motorino al mare con uno striminzito costume da bagno e un’espressione piuttosto provocante, almeno io la interpretai tale – che appesi, come un vero soldato, nel retro dello sportello del mio armadietto in camerata, tra i mini-poster di Robert Smith e di Siouxsie che ritagliavo dalle riviste musicali e che lasciavano sbigottiti i miei commilitoni.

Rientrato a fine agosto alla vita civile e finalmente single, intrapresi un paio di relazioni piuttosto superficiali e, contemporaneamente, Barbara ed io intensificammo, come era prevedibile, il nostro rapporto, ma ancora nella consueta modalità che portavamo avanti da anni – quasi esclusivamente per colpa mia. Trascorrevamo insieme le ore buche in facoltà e frequentavamo con altre persone – tra cui la sua inseparabile amica Michela – locali notturni e club di musica dal vivo. Entrambe presenziavano spesso ai concerti dei gruppi in cui suonavo, non ero per niente possessivo o preoccupato del fatto che qualcuno, tra i miei colleghi musicisti decisamente più prestanti e svegli di me, avrebbe potuto farsi avanti, d’altronde Barbara ed io eravamo solo amici.

Così estesi a lei e Michela, con il consueto approccio fintamente disinteressato, l’invito a partecipare alla serata commemorativa organizzata a seguito della scomparsa del cantante dei Queen, in cui ci saremmo esibiti anche se eravamo determinati a prendere le distanze dal rock di Freddie Mercury. A me e a nessuno dei componenti della mia band piacevano i Queen – li trovo irritanti ancora oggi, a distanza di più di trent’anni – e, al netto del rispetto per il lutto per una rockstar, nessuno di noi si era posto il problema di preparare una scaletta a tema o comunque più pertinente, rispetto al consueto repertorio di brani di nostra composizione che proponevamo. Eravamo un residuato storico degli anni ottanta che non aveva ancora reagito all’urgenza di adattarsi al nuovo decennio agli albori. Intorno a noi la musica si stava radicalizzando e intorbidendo, sia quella inglese che quella proveniente dagli USA. Noi, con i nostri testi in italiano e il nostro sound raffinato ma fragile, troppo plasticoso e poco sincero per quel sottobosco di autoproduzioni e di artisti indipendenti da cui sarebbe nata di lì a poco una scena nazionale straordinaria e irripetibile ma agli antipodi di stili e generi rispetto a ciò che ci rappresentava – e nella quale di lì a poco mi sarei perfettamente integrato – non avevamo ancora fatto mente locale sul modo in cui posizionarci. Grunge, neopsichedelia, britpop, indie-rock, reggae e tutti i derivati dell’elettronica erano stili troppo contigui, cronologicamente, al nostro. Noi appartenevamo a un passato prossimo da cui il pubblico aveva appena preso le distanze, ed era troppo presto per contare sul potere della nostalgia, quella che oggi ci rende così indulgenti su quello che abbiamo vissuto. Il mondo aveva voltato pagina, e toccava a noi adattarci ai nuovi gusti.

La nostra esibizione fu programmata nella primissima parte del concerto, com’è giusto che fosse. La presenza simultanea di più gruppi che devono avvicendarsi sullo stesso palco da sempre comporta una gerarchia da seguire soggetta a una legge non scritta ma che nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione. Prima gli artisti meno conosciuti e via via quelli più noti, secondo un crescendo che impone le proposte più soft a inizio concerto per chiudere poi con il botto conclusivo.

Terminata la nostra scaletta di brani in una prevedibile indifferenza, mi affrettai subito a smontare i miei sintetizzatori e a posizionarli al sicuro dietro le quinte del locale. Mi dedicai quindi alla meritata fase di post-concerto impiegando le consumazioni gratuite che spettavano ai musicisti, bevendo birra e concedendomi alternativamente ai miei compagni di band, ad altri amici presenti e a Barbara, per assistere alle performance degli altri gruppi. I Lost suonarono i pezzi dei Ramones verso la fine della serata, un repertorio che comprese una versione trascinante di “Sheena Is A Punk Rocker” che pogai con il resto del mio gruppo e altri che mi sembrava avessero afferrato il vero significato della scelta, con la dovuta ironia rivolta allo spirito dell’iniziativa a cui stavamo partecipando. Lo spettacolo si concluse poco dopo la mezzanotte con l’esibizione della band più calata nel contesto, un improbabile complesso di temutissimi rockettari hair metal e glam, guidata da un frontman che cantava in modo sguaiato, fasciato in una divisa da cosplayer dell’hard rock comprensiva di pantaloni attillatissimi, soprattutto sul davanti. 

Il loro contributo si esaurì come da previsioni, raramente ai gruppi di base qualcuno chiedeva di tornare sul palco per i bis. La serata quindi proseguì con le selezioni del dj residente, che avviò la consueta proposta di brani rock e pop dozzinali (ma sempre meglio della techno e dell’house music), data l’occasione orientata sui pezzi più ballabili dei Queen, come “Radio Ga Ga” e “Another One Bites The Dust”. Mi accommiatai così da Barbara e, con il resto della band, ci avviammo alle automobili con gli strumenti in mano per rientrare a casa. Io ero da solo con la mia Fiat Ritmo – trasportavo un equipaggiamento ingombrante e mi trovavo spesso costretto a muovermi in autonomia – ma, riposte le tastiere nel bagagliaio, anziché mettermi al volante e seguire i miei amici provai l’impulso di dare una svolta alle cose e di rientrare nel locale. Era un momento come tanti altri, non c’era nulla di diverso da prima se non l’assenza di Freddie Mercury e un’esibizione in più nella mia carriera da musicista, che si sarebbe esaurita qualche anno dopo.

Ordinai un’altra media chiara e rintracciai Barbara, che non nascose l’entusiasmo sul fatto che avessi cambiato idea. Continuammo a bere, forse ballammo anche, riprendemmo a stuzzicarci nel solito modo in cui avevamo costruito il nostro stare insieme fino a quando ci sedemmo da qualche parte, lei esausta e vulnerabile in braccio a me. Lì mi decisi di baciarla, e dal suo trasporto mi accorsi che avrei potuto farlo molto tempo prima. Aprivo gli occhi e osservavo i suoi chiusi, spiavo da vicino quei lineamenti che tanto avevo temuto e desiderato allo stesso tempo. Andammo avanti a baciarci senza proferire parola per il resto della sera, che ormai era notte, fino a quando la musica terminò e gli inservienti si diedero da fare per sbattere fuori gli ultimi avventori rimasti, noi compresi. Ci eravamo baciati nella penombra di un locale notturno, e l’accensione delle luci in sala ci indusse a ricomporci e a ristabilire in parte i ruoli che da sempre interpretavamo e che ormai erano sin troppo consolidati, lei di sfida e io di totale disponibilità, ma ormai il giocattolo si era rotto. Ci eravamo baciati per ore, il livello era salito e non sarebbe stato più possibile tornare indietro. Nonostante questa consapevolezza, Barbara ed io ci congedammo tra l’imbarazzo e la sorpresa di quello che era successo. Per fortuna, ci fu possibile dissimulare il nostro stato d’animo con un atteggiamento da sbronza di fine serata. 

Barbara e Michela si avviarono fuori dal locale. Per non seguirle ed evitare ulteriori impacci, accennai l’urgenza di dover usare il bagno, prima di partire, ma si trattava di una scusa. Di fronte al lavabo mi guardai allo specchio e mi sciacquai le mani. Tornai nella sala, raccolsi il chiodo su un divanetto e mi apprestai a uscire. Salutai il DJ che aveva messo un cd per non lasciar piombare in un silenzio irrispettoso quel tempio del rock in cui si era appena consumato un vero e proprio rito di suffragio, mentre i baristi e il resto del personale si affrettavano a riordinare e rassettare ciò che era di pertinenza a seconda del proprio incarico. Si diffuse ancora una volta la musica nella sala, un greatest hits dei Queen, non avrebbe potuto essere altrimenti. La storia stava giungendo al termine, al nero che precede i titoli di coda. Mi fermai così a riflettere, come ultima scena, sulle parole della traccia che mi stava accompagnando mentre guadagnavo la porta di uscita, potrei scommettere con una sigaretta accesa tra le labbra. Un brano famosissimo e smaccatamente kitsch, un pezzo che parla di gente che combatte fino alla fine per meritarsi il titolo di campione del mondo.

Beth Gibbons alla Triennale di Milano – 11/07/2025

foto di Domenico Aprile
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Pochi artisti al mondo possono concedersi il lusso di tornare sul palco per i bis e suonare “Roads” e “Glory Box”, due tra i più iconici brani della storia della musica. Ma è riduttivo sostenere che la scaletta dell’unica data italiana live di Beth Gibbons abbia raggiunto l’apice del pathos solo con quei due pezzi da novanta (e dei novanta), sbilanciando la forte portata emotiva di un concerto fino a quel punto estremamente toccante, ma per registri la cui definizione non è così scontata e che richiederebbero più di una riflessione.

Certo, si tratta di due canzoni che giocano un altro campionato rispetto a Lives Outgrown, il suo straordinario ritorno sulle scene dello scorso anno, ma che risulterebbero fuori luogo in qualunque setlist. E chissà quanti, tra il pubblico del sold-out milanese di ieri sera, erano lì per la cantautrice che ha raccolto dieci anni di vita musicale in uno dei dischi più raffinati del 2024, oppure per la voce dei Portishead. Ma si tratta di una chiave di lettura ingannevole, l’inevitabile equivoco in cui cadiamo tutti noi che ascoltiamo musica voltando sempre lo sguardo all’indietro, vittime dell’incantesimo del suo potere evocativo. Nella musica – mi verrebbe da dire nell’arte in generale, ma non ho sufficiente competenza – non esiste un prima e un dopo. C’è solo un durante, un presente che si stempera lungo le esecuzioni, un piacere permanente del qui e ora che permette di assaporare, nella pienezza del suo significato, un’esperienza live come quella di Beth Gibbons in tempo reale e senza tanti rimpianti.

Al pubblico decisamente attempato e raccolto con una devozione fuori dal comune (e una gentilezza d’altri tempi) sotto il palco dei Giardini della Triennale non servono nemmeno gli smartphone per immortalare il meglio di ciò di cui è testimone. Le nuove composizioni, quelle meno nuove e quelle che risalgono a una notte dei tempi struggente come è stata solo la stagione del trip-hop, in quel decennio straordinario e irripetibile in cui ha preso forma (e che qualcuno ha avuto il privilegio di vivere in diretta) sono un tutt’uno, questa sera. Ed solo in quest’ottica che le tracce più significative di una delle band più influenti della fine del secolo scorso perdono il loro status di appartenenza. Suonate in queste versioni, con la stessa inusuale strumentazione che ha reso tangibili i brani del primo vero e proprio lavoro solista di Beth Gibbons, assumono un significato più ampio. Un culmine, certo, ma in cui il trasporto indotto dalle canzoni che, lungo il concerto, hanno contribuito alla sua resa, alla fine risulterà indispensabile, se non propedeutico, all’efficacia di una scaletta, nota dopo nota.

Ma provate a isolare uno scatto fotografico della voce dei Portishead per ritagliarlo e sovrapporlo a quello di Beth Gibbons oggi, in tour con il suo repertorio al contagocce. Il tempo si è davvero fermato, e quella figura carica di intensità e affanni la vedrete sempre uguale, un’antidiva in abiti ordinari avvolta in un’aura dalle tinte cupe, abbarbicata al microfono, il volto semicoperto dal ciuffo di capelli e gli occhi socchiusi a vedere cose che noi, rivolti dalla parte opposta al suo sguardo, riusciamo a immaginare solo grazie alla portata suggestiva della sua voce.

Del resto, non è un caso che i biglietti della sua unica apparizione dalle nostre parti fossero andati esauriti da tempo. Beth Gibbons si presenta alle dieci spaccate, si libera dei sandali e si mette scalza al microfono in un palco avvolto da un denso fumo artificiale che, per tutta la durata del live, compenserà le sigarette che non ha fumato cantando e darà luogo a effetti suggestivi con le luci di scena, alle spalle dei musicisti.

Insieme a lei, una band di sette elementi che, al netto del tastierista e della batterista – dietro a un set inusuale in grado di rispondere a una varietà timbrica non indifferente – è composta da polistrumentisti. Basso talvolta suonato con l’archetto, chitarre acustiche ed elettriche (a partire dalla Telecaster con wah wah per il solo filologicamente ineccepibile di “Glory Box”), viola e violino costantemente presenti sia in ricami melodici che in sezioni strutturate e, a sovrastare il tutto, un pittoresco sciamano che si alterna tra percussioni di ogni genere e suggestivi bordoni di sax basso.

Com’era facile intuire, il programma prevede solo le dieci tracce di Lives Outgrown in una successione leggermente differente rispetto all’ordine del disco, mantenendo l’incipit di “Tell Me Who You Are Today” e chiudendo, dopo i bis, con “Reaching Out”. In aggiunta, oltre alle due hit tratte da Dummy, trovano spazio due composizioni presenti in Out Of Season (l’album scritto a quattro mani con Paul Webb dei Talk Talk), “Mysteries” e “Tom the Model”, per un totale di quattordici pezzi. L’acustica, nel complesso, è soddisfacente ma non ineccepibile. D’altronde dev’essere tutt’altro che semplice amplificare una strumentazione così eterogenea.

Tra un brano e l’altro, Beth Gibbons volta le spalle al pubblico abbandonando i suoi fan in un silenzio religioso e, considerata la folla presente, così assordante da risultare surreale. Si lascia andare a un paio di ringraziamenti in un italiano stentatissimo misto al francese. Un finto distacco che smentisce però a fine serata, quando scende dal palcoscenico e si concede a lungo al caldo abbraccio delle prime file.

Negli inchini finali, a godersi gli applausi in fila in mezzo ai suoi musicisti come una pièce teatrale qualunque, ci lascia però a un rigurgito della stessa malinconia che aveva suscitato in noi poco prima, implorando, per l’ennesima volta e con la stessa classe di sempre, un confronto con un interlocutore invisibile, in un ritornello che ha fatto la storia. Ma il concerto è finito e, mai come questa volta, it’s time to move over.

(foto di Domenico Aprile)

preso in castagna

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C’era una stand-up comedian – una cabarettista, insomma – che, lungo i passaggi di un suo monologo, argomentava una delle più diffuse fobie legate alla vita sociale rappresentata dal momento in cui, al cospetto di amici o conoscenti, chiacchierando del più e del meno qualcuno senta il bisogno di suggerire serie e film – “L’hai vista questa?”, ti dicono. “E l’hai visto quest’altro?”. La gag si concludeva con una postilla sul senso di colpa indotto dall’idea degli abbonamenti alle piattaforme sfruttati poco e da tutte le altre scadenze che la vita ci impone di osservare tra un binge-watching e l’altro, comprese le occasioni in pubblico in cui siamo esposti a persone che ci suggeriscono serie e film da guardare e che ci fanno venire voglia di tornare a casa per accendere subito la tv.

Avrete anche sicuramente conosciuto qualcuno che, parafrasando Lessing o chi per lui in uno dei più celebri aforismi da meme, instilli il dubbio che l’attesa durante la scelta di cosa guardare tra le migliaia di titoli a disposizione tra Netflix, MUBI e Prime non sia essa stessa la visione di una serie o di un film. Il punto è: quante vite occorrono per vedere tutto? E, soprattutto, che cosa facevamo prima?

Io non mi ricordo e non ho una risposta. La soluzione è nel trovare qualcuno che faccia il lavoro sporco per noi. Una persona affidabile e con i nostri stessi gusti che ci eviti non solo di scartabellare tra le sinossi dietro ogni titolo nelle pagine di menu delle piattaforme di streaming, ma anche addirittura di accontentarci dei consigli delle tv stesse, ordinati in base a chissà quale algoritmo. Non vi è mai capitato di vedere un film turco e che, da quel momento in poi, la piattaforma vi consigli decine di pellicole turche come se la provenienza di un film fosse di per sé garanzia di qualità?

Altrettanto difficile – almeno per me – è informarmi sul web. Di siti e profili social di sedicenti cinofili è piena l’Internet da tempi non sospetti, commenti e recensioni di utenti comuni non sono affidabili – è come chiedere pareri al primo che incontri per strada – senza contare il fattore principale, che è il gusto personale. Non tutti hanno amici con la stessa nostra sensibilità, e il rischio di una serata flop davanti a qualcosa che non ci piace è decisamente concreto.

Allora che si fa? Bisogna avere fortuna, io sono stato fortunato e ho deciso di condividere questa fortuna con voi. Quest’anno ho conosciuto per lavoro Manlio Castagna, uno dei più conosciuti e talentuosi autori di libri per ragazzi. Lo abbiamo invitato a scuola a presentare alcune delle sue opere e, a seguito di quell’incontro e su consiglio di un collega, ho iniziato a seguire il suo profilo Facebook scoprendo che i suoi post sono in una piccolissima parte dedicati alla sua attività di scrittore. La dicitura in calce al suo nome – Film Advisor – non lascia dubbi. Con una frequenza che ha del miracoloso, Manlio Castagna pubblica suggerimenti su film e serie da vedere sia in tv che al cinema. La cosa sorprendente è che ha i miei stessi gusti. Mi affido a lui da qualche mese e, al momento, non ha sbagliato un colpo. Alcuni dei titoli suggeriti li avevo già visti, ma ne ho trovati altrettanti di cui non avevo mai sentito parlare, recenti e degli anni scorsi, e tutti ottimi. Non solo. Il meglio Castagna lo dà nelle proposte recuperate nell’archivio sommerso delle piattaforme, tutti i film e le serie che è difficile scovare senza conoscerne già i riferimenti. La cosa interessante è che esiste persino un suo canale Facebook per abbonati a un prezzo irrisorio, ricco di ulteriori proposte. Ma la sezione gratuita, ve lo assicuro, basta e avanza. Lui consiglia film e serie, e io consiglio lui. Fidatevi.

Activity – A Thousand Years in Another Way

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Poche band possono vantare un esordio con un tempismo così beffardamente perfetto come gli Activity. Unmask Whoever è stato pubblicato il 27 marzo del 2020, eravamo da poche settimane barricati in casa per il Covid, e insieme ad altri dischi inconsapevolmente in linea con l’emergenza sanitaria usciti nello stesso periodo, se non nello stesso giorno (Void Moments dei Facs, Cointainer dei The Wants e 925 dei Sorry) ha ispirato più di una playlist, colonne sonore calzanti di quella catastrofe mondiale e commento dell’angoscia collettiva che stava soffocando un’umanità piegata all’esperienza estemporanea di una pandemia globale.

Degli Activity, gruppo newyorkese di stanza a Brooklyn, colpivano l’approccio avant e art-un po’ di tutto (noise, post-punk, elettronica), una varietà di stili messa al servizio di una forte personalità compositiva e corredata da un retrogusto compulsivamente opprimente, in grado di gratificare in modo incisivo l’ascoltatore alla ricerca di esperienze crepuscolari

Tre anni dopo, gli Activity davano alle stampe il seguito, Spirit in the Room, mentre la bassista Zoë Browne lasciava il posto a Brianna DiGioia nella line up storica costituita dal cantante polistrumentista Travis Johnson, Jess Rees alla chitarra, voce e tastiere, e dal batterista Steven Levine. Una tacca sotto in quanto a originalità (è la legge non scritta del secondo album) compensata però dalla cupezza dell’ispirazione di fondo, stato d’animo di cui Travis Johnson avrebbe fatto volentieri a meno in quanto dovuto alla scomparsa della madre.

Giunti al loro terzo album, A Thousand Years in Another Way, gli Activity si confermano abili tessitori di atmosfere sperimentali ricamate da un graffiante post-punk smaccatamente moderno, tra rumori allarmanti e originali incursioni elettroniche. Un stile che conferma la loro unicità ma in un disco maturo che aspira a diventare una pietra miliare della loro carriera.

Anche questa volta c’è stato un cambiamento nella formazione, con l’avvicendamento (programmato e concordato amichevolmente) tra Stephen Levine – membro formatore degli Activity e amico di lunga data di Johnson – con Brian Alvarez, il nuovo batterista che avrà il compito di portare nei live e nelle future registrazioni l’esperienza e il contributo dato dal suo predecessore rimasto fino alla pubblicazione del nuovo disco.

A Thousand Years In Another Way è un’opera che nasce dalla necessità di dare forma all’alienazione e alla disperazione dei nostri tempi ma con la volontà di esorcizzarne le conseguenze, per offrire all’ottimismo una possibilità. È Travis Johnson in persona a mettere le cose in chiaro: l’amore non ha ancora gettato la spugna in questo presente in cui il male è il vero protagonista. In dieci tracce gli Activity ci trasmettono la loro percezione di tutto questo disagio, con una formula che alterna sperimentazione a squarci di linearità, senza compromessi con il senso di paranoia di sottofondo, il vero marchio di fabbrica della band.

Complice la produzione di Jeff Berner, già collaboratore degli ultimi Psychic TV, un collettivo che di mettersi di traverso nella ricerca dell’agio musicale se ne intende. A lui il compito di affinare la forma con cui la band riesce a sviluppare le composizioni partendo da campionamenti casuali e improbabili riff di chitarra, e di assecondare l’impeto manipolatorio e iconoclasta di Johnson e soci volto al disorientamento senza tregua degli ascoltatori.

Il risultato è un insieme di brani in cui la forte personalità degli Activity sembra in costante tensione con elementi e corpi estranei, invisibili ma presenti, per un risultato davvero sorprendente. Ne deriva una perpetua sensazione di incertezza, un’angoscia che possa accadere qualunque cosa in qualsiasi momento, traccia dopo traccia.

“In Another Way”, brano di apertura già pubblicato come singolo, rispecchia in pieno le intenzioni dell’intero disco. Una composizione in cui la totale assenza di dinamicità tra le parti toglie il respiro, un incedere ipnotico che, fino all’evaporazione dell’ultimo suono, richiede nervi saldi.

In “Piece of Mirror” si percepisce la seconda anima degli Activity, del tutto complementare alla precedente. Jess Rees, con la sua voce femminile, prende il posto di Travis Johnson, mentre gli intrecci di chitarra del brano di apertura lasciano spazio alle tastiere, ai campionamenti e a ritmi essenziali, una discesa verso il minimalismo che sfocia in “We Go Where We’re Not Wanted”, il momento più inquietante di tutto l’album, un vortice definitivo diretto al punto più profondo del baratro, che sembra non concludersi mai. Le due voci si amalgamano perfettamente nella successiva “Your Dream”, il momento in cui la forza dirompente di A Thousand Years in Another Way ci concede una pausa, riportandoci entro i parametri della nostra zona di conforto, almeno fino al crescendo finale e ai suoi toni dark.

In “Good Memory” è protagonista la voce di Brianna DiGioia che, nelle strofe, gioca con una linea di basso che conosciamo molto bene, quella di “Glory Box” dei Portishead, in uno sfuggente tributo destrutturato al trip-hop che persiste anche nella successiva “Scissors”, cantata da Jess Rees, la canzone più trascinante e convincente del disco grazie alle sue atmosfere che invece rimandano a 100th Window dei Massive Attack. Un tris completato dalla traccia successiva, “Heavy Breathing”, un brano che sembra arrangiato ai tempi di “Songs Of Faith And Devotions” e della deriva chitarristica senza ritorno dei Depeche Mode.

A questo punto il disco ci sorprende piacevolmente con un altro trittico, un vero e proprio plot twist finale. “Her Alphabet”, brano incredibilmente delicato, è la prova definitiva della personalità poliedrica degli Activity, maestri nel condurre gli ascoltatori all’interno dei loro paesaggi sonori. In “I Came Here to Harm You” ritroviamo l’anima post-punk e più elettrica del loro sound, fino al capolavoro conclusivo, “The Beast”, con il suo ingresso di batteria a 5 minuti e rotti della canzone che ci ricorda di che stoffa sono fatti gli Activity, prima di inghiottirci nella loro apocalisse finale promessa e mantenuta dal titolo. Un degna chiusura per un reportage di un mondo dai giorni contati ma che, tutto sommato, ci strega ancora con la sua struggente bellezza.

A Thousand Years in Another Way è un concept ambizioso ma di cui gli Activity si dimostrano perfettamente all’altezza, probabilmente il disco della svolta per una band che si distingue in originalità in un panorama musicale spesso troppo evocativo e nostalgico di cose già sentite.

insegnami

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Ho saputo della scomparsa di Claudio con imperdonabile ritardo. I social non sempre sono tempestivi nel favorire la diffusione di queste notizie. Mi sono perso i contributi di commiato sulla sua pagina FB, illegittimamente declassati dall’algoritmo a meno urgenti in fatto di priorità rispetto a ciò che si presume debba proporre la home, e poi nessuno si è giustamente preso la briga di avvisarmi. Mi ha aggiornato il fratello, qualche mese dopo, quando mi ha chiesto su Messenger un’informazione e non mi ha visto, anzi, letto particolarmente mosso dalla compassione nella risposta.

Qualche giorno fa ricorreva il suo compleanno, così ho pensato bene di rimediare lasciandogli un pensiero, corredato dal link a una canzone, sul suo profilo ancora attivo. Avrei voluto augurargli buoni ascolti – come quello proposto da me, sono certo gli piacesse – ovunque si trovasse, ma la straordinaria estensione di Chrome che intercetta e impedisce la pubblicazione di frasi e commenti retorici me lo ha efficacemente impedito. Nessuno sa se prende Spotify, di là. Di certo non si possono portare i dischi, di questo ne sono sicuro. Ho già chiesto un preventivo per il trasporto della mia vasta collezione e la risposta che ho ricevuto non lascia dubbi in proposito.

Dovrò abbandonarla alle future generazioni, sempre che sappiano cosa farsene. L’impressione è infatti che non stiamo lasciando ai nostri figli e nipoti una situazione rassicurante, questo in generale. Anzi, sembra proprio che si faccia di tutto per radere al suolo qualsiasi parvenza di civiltà come quella che costringiamo loro a studiare sui libri di storia e di letteratura. Ha senso rompergli i maroni con l’arte, la scienza e l’ingegneria quando siamo noi adulti i primi a percepire queste discipline superflue? Non è meglio concentrare i nostri sforzi pedagogici sulla cura di sé propedeutica alla seduzione e all’accoppiamento o un bel corso di cucina? Dev’essere questo che inconsciamente ci induce a combattere – fisicamente, intellettualmente e da qualche tempo anche digitalmente – tra di noi per finire il nostro genere e per condurci alla meritata estinzione. Osservavo la foto dell’insegna che è collassata in cima alla torre Hadid, nel quartiere City Life di Milano, proprio ieri. Non siamo più in grado di applicare le tecniche che hanno messo al sicuro la nostra evoluzione fino a qui. Quando le conosciamo non sappiamo aggiornarle alle nuove complessità, o se sappiamo farlo non ci crede nessuno. Se non le conosciamo non ci interessa nemmeno studiarle, e se le studiamo ci limitiamo ad esercitarle sui simulatori – in Internet ne esiste uno per ogni cosa – perdendo tutta l’intelligenza motoria che serve per metterle in pratica dal vero e sul campo.

gratis

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C’è un concetto che è complicato da rendere – ma anche solo da scrivere – in pubblicità, che è “belli fuori”. L’equivoco di fondo nasce dal fatto che ciò che riconduciamo a uno dei due fattori dell’ideale della kalokagathìa, integrità morale che corrisponde a perfezione estetica, nella nostra lingua può risultare travisato come la conseguenza dell’abuso di sostanze stupefacenti, alcol o anche una semplice spregiudicatezza nel comportamento sociale, una sorta di esuberanza non necessariamente dannosa per il prossimo ma comunque soggetta all’attenzione di chi vi si trova a contatto o di chi ne è spettatore. Un prodotto che fa apparire i consumatori “belli fuori” – vedo spesso lo spot che passa in tv – anche se pensato con tutte le migliori intenzioni del mondo, io non so se lo acquisterei, già sembro suonato di mio e di qualcosa in grado di sottolineare questo aspetto ne posso fare a meno.

Altrettanto controproducente, a mio avviso, è la proliferazione dell’intelligenza artificiale nella realizzazione delle pubblicità televisive. Degli effetti collaterali dell’AI non c’è tanto da temere che qualche supercalcolatore come HAL 9000 sviluppi sentimenti, decida di sua sponte di non spegnersi e per tutelarsi ci porti all’estinzione, piuttosto che – anche solo per fini meramente commerciali – generi cloni di Gerry Scotti nello stesso ambiente sotto forma di persone diverse. Questo è il rischio che, più di ogni altro, ci si può ritorcere contro, mica un Terminator qualunque che rientra dal futuro e ci suona al citofono. Piuttosto gli chiederei un ulteriore sforzo, quello di andare ancora un po’ di più indietro nel tempo e di sostituire di soppiatto la lattina di aranciata Sanpellegrino protagonista del soggetto “La prima volta”, che per noi liguri aveva un particolare significato in quanto girato nella stazione ferroviaria di Genova Nervi, con una limonata per giocare con un becero doppio senso. Quella sì che avrebbe potuto essere una vera prima volta, per il ragazzino che rincorre la sua amata sul treno in partenza.

Ma gli spot televisivi hanno fatto anche cose buone, come il ritorno della mia attrice prefe che è Camilla Pistorello, quella che sveniva magistralmente vedendo le case di Idealista, e che oggi accoglie i clienti – uno dei due è Fiorello – in un finto negozio Wind. Ha un modo di pronunciare la parola “gratis” così epico e teatrale da oscurare tutto il resto della narrazione. Quando passa lo spot del 5G Wind mi metto in posizione di ascolto fino a quando inquadrano Camilla in primo piano e lei libera la battuta centrale della storia. Gratis. Non chiedo altro.

Matt Berninger – Get Sunk

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Quella di fare a un certo punto della carriera il cantante solista dovrebbe essere una cosa da sconsigliare fortemente, agli artisti. Nel manuale di istruzioni di qualunque gruppo musicale dovrebbe esserci una sezione a sé con tutte le controindicazioni di questo vezzo messe nero su bianco, un bugiardino con gli effetti collaterali. Certo, mollare il resto della band, magari sul più bello, è il male assoluto. Ma anche nei casi di pause programmate dall’attività principale, o estemporanee velleità di auto-affermazione senza il proprio team di riferimento nei tempi morti, la voce di un gruppo è destinata a restare per sempre la voce del suo gruppo.

Nel caso di Matt Berninger, poi, le aggravanti le conosciamo tutti: il suo timbro baritonale, il suo fascino da intellettuale per sad dad – proprio come la sua musica, il contrasto tra l’eleganza del suo look e l’improbabile scompostezza sul palcoscenico, i toni dark e malinconici delle sue liriche.

E non è che a suonare con i The National non si stia con le mani in mano. Nel 2023 hanno pubblicato 23 canzoni nuove di zecca in ben due dischi e si sono imbarcati persino in un lungo tour mondiale. Avere il tempo e le energie per un album solista, immersi in un’esperienza totalizzante come quella, non è davvero da tutti.

Per Matt Berninger, come sappiamo, non è però la prima volta. Return to the Moon, l’album del progetto El Vy realizzato a quattro mani con Brent Knopf dei Ramona Falls, risale a dieci anni fa, mentre il vero esordio in perfetta solitudine, Serpentine Prison, è del 2020. Un disco figlio del lockdown, nell’accezione positiva e negativa di questa definizione. Uno spin-off della discografia dei The National, una variante del genere a cui ci hanno abituati, piacevolmente depotenziata grazie all’assenza degli ingombranti gemelli Dessner e della particolare ritmica dei fratelli Devendorf, il vero marchio di fabbrica del quintetto indie più influente di Brooklyn.

Una combo che spinge, con la sua drammaticità compositiva ed esecutiva, le canzoni a una potenza espressiva piacevolmente estenuante, aspetto la cui assenza in Get Sunk, proprio come nel suo esordio da solista, risalta sin dal primo ascolto. Una versione dei The National per principianti, senza pretese, strutturalmente più cantautorale e meno intensa (quindi più diretta) in cui il timbro di Matt Berninger va a ricoprire una dimensione differente e inusuale.

Un’impressione che colpisce sin dall’incipit, la chitarra che introduce “Inland Ocean”, una versione di “Terrible Love” (gli accordi sono quelli) dai toni meno high violet e più pastello, un mare che poi è un grande lago metaforico in cui immergersi sino a sparire (è il titolo dell’album a intimarlo agli ascoltatori) crogiolati dalla depressione e dalla nostalgia. Un mood che persiste nel brano successivo, “No Love”, dove almeno è la musica a lasciarci fluttuare nella speranza.

La successiva “Bonnet Of Pins”, insieme a “Little By Little”, richiama con decisione l’occupazione principale di Matt Berninger, come i riuscitissimi duetti con le voci femminili, veri alter ego nei toni acuti della profondità della sua voce. Nel delicato indie-folk di “Breaking into Acting” l’ospite d’onore è Meg Duffy degli Hand Habits, mentre la controvoce particolarmente cool di “Silver Jeep” (eccezionale quanto la parte affidata alla sezione fiati) è Ronboy, due brani che non sfigurerebbero in quel tripudio di collaborazioni e duetti che è I Am Easy To Find. La stessa “Junk”, canzone poco più che acustica, data in pasto ai The National, ne uscirebbe rivoltata come un calzino. C’è un altro varco con il passato che è “Nowhere Special” e il suo provocante recitato confidenziale, già sentito e apprezzato in “Smoke Detector” di Laugh Track.

Ma sarebbe riduttivo relegare Get Sunk a una serie cadetta in cui militano gli scarti dei The National, una tracklist di canzoni di riserva messe da parte perché non si sa mai. Matt Berninger da solo sa colmare ogni lacuna strutturale (e strumentale) con le sue parole e i suoi consigli, a partire dal messaggio finale, l’ultima traccia, non una title track ma il vero senso di tutto il disco in cui la sua non-filosofia riesce a trovare un antidoto per tutto, perché in certi casi, davvero, non si può fare altro: bere e tanto per non sentire il dolore, sprofondare se ti viene da piangere, dimenticare nei momenti di vergogna, bagnarsi se piove, e soprattutto stare a casa quando ci si sente soli, perché le persone ti fanno sentire ancora più solo. In attesa del prossimo disco dei The National, noi sad dad non chiediamo altro.

Goddess – Goddess

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Uscite in una fase di risacca tra le due ondate del post-post punk (la prima, quella di Turn On The Bright Lights, e la seconda e decisiva, vent’anni dopo, quella di cui ci troviamo nel pieno) le Savages forse non hanno avuto il riconoscimento e il successo meritato. Probabilmente quello non era il momento più adatto, ma di un disco come Adore Life, pubblicato nel 2025, ora saremmo qui a chiederci quale posizione attribuirgli nella classifica degli album dell’anno.

Un quarto di quella forza propulsiva e quell’ardore sperimentale era dovuto a Fay Milton e al suo drumming trascinante, essenziale e primitivo, perfetto per il sound apocalittico della band.

Messa in stand-by la batteria, la musicista londinese si è votata con passione alla causa ecologista, dando vita al movimento Music Declares Emergency e alla campagna No Music On A Dead Planet, un’iniziativa che ha riunito artisti e professionisti dell’industria musicale per ottenere risposte immediate dei governi all’emergenza climatica. Le canzonette hanno tutto il potere necessario per promuovere un cambiamento culturale e salvare dall’estinzione noi e tutti gli esseri viventi. O almeno a idealizzare la propedeuticità e la parvenza di una rivoluzione.

Nel suo progetto Goddess, e nel suo esordio omonimo, troviamo per la terza volta lo stesso ardimento volto a raccogliere energia intorno a un’idea. Questa volta non è uno scontato tentativo post-punk a guidare un’operazione modaiola per meri fini di profitto. Piuttosto, ci troviamo al cospetto di una ricerca più ampia, inclusiva e trasformativa che mette al centro il desiderio, il dolore, il corpo e qualche suggerimento per affrontare tutto questo. Goddess è anche il titolo omonimo di un concept costruito attraverso collaborazioni all’interno di un pantheon indie, esclusivamente femminile e non binario, che alterna urgenza politica, visioni dark, riflessioni esistenziali e abbandoni sensoriali, il tutto sostenuto da una produzione che mette in discussione l’industrial grazie al trip hop, e l’alternative attraverso il songwriting più viscerale.

L’idea di Goddess è nata già pronta all’uso e con un obiettivo preciso: onorare la sorellanza e l’energia comunitaria che si crea quando musiciste indipendenti collaborano mosse dall’impeto della ricerca senza compromessi. Fay Milton ha trovato in questo approccio una libertà nuova, priva dei vincoli e delle convenzioni dell’industria musicale, a partire dall’ossessione di quel circo itinerante che è l’esibizione live. Il disco, così, si attesta a organismo collettivo e modulare. Non una band, non un progetto solista, ma un’entità dinamica in grado di crescere e cambiare forma. Un movimento a cui aderire per mettere al centro la comunione di intenti, un non-luogo in cui la metodicità messa a click e arricchita dai campionatori dei Massive Attack incontra l’anarchia guitar based delle Desert Sessions di Josh Homme.

Il disco si apre con “Little Dark”, una ballad magnetica cantata da Shingai (ex Noisettes) e che centellina emozioni senza ritorno di una Londra post-pandemica attraversata a piedi. È un brano crepuscolare, dolente e allo stesso tempo rivolto verso una nuova alba in cui un timbro cristallino risuona dominando i rumori inquieti di sottofondo. Un traccia che lascia graffi sulla pelle (provate a rialzarvi illesi dopo il vortice che, a metà della canzone, inghiotte qualunque cosa senza lasciare superstiti) e che mette subito le cose in chiaro: Goddess non è un disco per poser.

“Shadows”, seconda traccia e primo estratto pubblicato come singolo, è già un inno a sé. L’interpretazione solenne e vulnerabile dell’amica Elena Tonra (l’anima dei Daughter) vibra sospesa tra il basso ingombrante di Ayse Hassan (anche lei ex Savages, la prova che all’interno delle sezioni ritmiche nascono e crescono sodalizi indissolubili) e le linee di pianoforte dell’artista Hinako Omori. Ci troviamo di fronte a una delle vette del disco, un brano che implode su un ritmo la cui fragilità è fin troppo evidente, dominato dalla voce che si irradia dalle macerie sonore.

Tra gli episodi più viscerali troviamo anche “Animal”, cantata da Delilah Holliday, icona underground delle autoproduzioni londinesi. Un’ode sensuale e minacciosa diretta alla componente più istintiva dell’essere umano. È lei a decidere il gioco quando ci intima, con tono velenoso, “scusate il mio comportamento, non sono altro che un animale”, accompagnata da una ritmica e da sequenze di synth che risuonano come una minaccia. E ancora più brutale è l’esplicita “Fuckboy”, un bombardamento industrial diretto da una linea di basso ostinato che evoca i fasti di “Army Of Me”, con la performer Salvia a incarnare tutto il fastidio e la freddezza che il titolo promette in una combinazione che va a ferire i sentimenti con precisione chirurgica.

Ma Goddess sa offrire ben altri registri di tensione. In “Golden”, versione in inglese di “Grande” degli Afterhours, la voce di Stevie Parker è accompagnata da una toccante melodia di pianoforte che si apre in un abbraccio orchestrale. Un omaggio intimo all’amicizia di Fay Milton con Manuel Agnelli, e un raro esempio di remake che riesce ad aggiungere valore al brano originale.

Di “Bad Child” colpisce l’attenzione alle parti di batteria, con un pattern che tradisce una piacevole ingerenza dovuta a una più che giustificata deformazione professionale. Il featuring dell’amica Isabel Muñoz-Newsome contribuisce a rendere indelebile l’amarezza delle parole mentre si parla di relazioni mai abbastanza archiviate.

A Bess Atwell e la sua “Darling Boulevard” il merito di riportarci nelle tonalità più cupe del disco, una sorta di proemio all’atmosfera in cui Izzy Bee Phillips intona la suadente melodia di “Diamond Dust”, quasi una nemesi acustica del brano precedente. Con “Bounce” è la producer Grove a riportarci – con il suo quattro quarti serrato – a forza nella dancehall. Fino alla traccia finale, quella “22nd Century”, brano di Exuma reso celebre da Nina Simone, qui reinterpretata con devastante sincerità da Harriet Rock. La sua voce scava e brucia in un crescendo cannibale, un racconto di un mondo al collasso con le stesse parole scritte nel 1970 e oggi amaramente profetiche. “Non c’è ossigeno nell’aria”, questa è l’ironia della sorte. Più che una visione distopica, siamo nei pressi di una cronaca del quotidiano.

Ma non è un saltare di palo in frasca. C’è una coerenza sorprendente in Goddess, proprio grazie alla sua natura composita. Ogni brano è una storia (e un’interprete) a sé, ed è la direzione artistica di Fay Milton a tenere tutto insieme con una sensibilità rara. Un destino nel nome: Goddess incarna davvero la potenza di manovrare le cose e rimanere pienamente se stessi, senza compromessi, per restituire al mondo (sotto forma di tributo musicale) quanto si è assorbito dalle personalità artistiche più influenti della propria vita.

L’impressione è che Goddess non sia solo uno dei dischi più ispirati dell’anno, ma anche una nuova accezione della musica d’insieme, in tempi in cui tra i solchi dei dischi si è detto quasi tutto: un suono collaborativo, sostenibile, sensibile ma radicale. È un invito a creare comunità, a mettersi a nudo, a non chiedere il permesso. Un album di rinascita e affermazione, un rituale collettivo e sonoro che affronta l’incertezza del presente. La portata di Fay Milton si conferma invincibile anche senza la sua batteria. Un’energia che costruisce ponti, scatena incendi e raccoglie anime intorno a sé. Forse qualcosa sta davvero cambiando, e questo disco è un segnale, se non addirittura la strada maestra da prendere.

TVOD – Party Time

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La lotteria degli algoritmi, che è la funzionalità più interessante delle piattaforme di musica liquida, questa volta ha incrociato i miei ascolti di routine con “Car Wreck”, seconda traccia del convincente esordio discografico dei Television Overdose, band post-punk di Brooklyn dal nome decisamente più accattivante dell’abbreviazione TVOD con cui hanno la pretesa di affermarsi al pubblico.

Ci mancavano giusto gli emuli dei The Sound e di Adrian Borland, in questa affollatissima offerta di musica per nostalgici come me, ho subito pensato. Anche se più lenta di una manciata di bpm, “Car Wreck” ricalca perfettamente l’anima di “I Can’t Escape Myself”, il brano iniziale di Jeopardy. Ho ritrovato la chitarra timidamente abrasiva che gioca con il giro ipnotico di basso, i bicordi dissonanti di gocce di sintetizzatore, l’esplosione vocale dei ritornelli come nemesi della remissività della strofa. Finalmente, mi sono detto. Dopo anni di monopolio dei Joy Division, qualcuno ci è arrivato.

Ma poi, ad ascoltarlo con attenzione, dei The Sound nell’LP Party Time c’è poco altro, se non qualche rimando del timbro di voce e di certi vezzi melodici (tributo inconsapevole) del cantante Tyler Wright, un link nemmeno tanto forzato tra la traccia “Take It All Away” e la struggente “Unwritten Law” e l’idea generale di fondo, quella di proporre un punk con curvatura post per nulla di posa, indiscutibilmente essenziale ma con una imprescindibile presenza di sintetizzatori suonati, in grado di sfoggiare solo il necessario strettamente sufficiente a coinvolgere, far riflettere, e, perché no, divertire.

Anche se, a dispetto del titolo, c’è ben poco da festeggiare. Nella sostanza, i TVOD sono ottimi autori e interpreti di un sound introspettivo e fintamente scanzonato, frutto di quel derivato dell’ironia che nasce dal disagio, dalle dipendenze, dai contrasti con se stessi, dalla disillusione verso le relazioni tra esseri umani. Un moderno post-punk per disadattati nella New York del nuovo millennio e nella dicotomia tra l’epopea delle sue narrazioni e la vita quotidiana di chi la vive, giorno e notte.

I TVOD si sono nutriti delle energie dei circuiti off di Brooklyn, incuriosendo il pubblico dei club e conquistando i fan grazie a trascinanti esibizioni live. Una band di giovani musicisti, perfetti per suonare esattamente la musica su cui hanno deciso di puntare. Insieme a Wright, hanno condiviso il palco e i solchi di Party Time Jenna Mark alla seconda voce e ai synth, la bassista Micki Piccirillo, i chitarristi Serge Zbrizher e Denim Casimir, e Michael Pahl alla batteria.

Party Time, opera rumorosa, eclettica, inafferrabile e inaspettatamente originale, comincia con una specie di rigurgito di synth, e anche solo per questo dimostra di avere tutte le carte in regola per lasciare il segno. La veloce e serrata “Uniform” – brano iniziale della tracklist – è già un inno di resa all’omologazione, quando canta “Throw me in the microwave, Wrap me up in cellophane, Civilizations crumbling, I put on my uniform”. “Pool House” e “Super Spy” sono moderne creazioni di vecchia e orecchiabile new wave, basate su incalzanti intrecci riff di chitarra e arrangiamenti di synth, per un gioco di parti altamente caratterizzante.

In “Empty Boy” la voce di Tyler Wright, fino a quel punto quasi sempre lineare e molto poco sopra le righe, trova un improvviso impeto e supera se stessa con un improbabile ritornello da crooner. Le cose si fanno un po’ più spinte in brani come “MUD” e “Wells Fargo”, in cui i distorsori diventano protagonisti e l’atmosfera si tinge di cattiveria post-grunge e stoner. Con “Alcohol” e “Bend” si torna nella no-wave, con mood taglienti e spigolosi e pattern ripetitivi, mentre “Party Time”, brano conclusivo, manifesto e title track del disco, trasmette tutta la sua potenza live con un botta e risposta tra la band (“What time is it?) e il pubblico in delirio (“Party Time!”), a prescindere dall’urgenza di quello che accade fuori, ad amplificatori spenti.

E infatti non è solo il tempo di fare festa. È anche il momento dei TVOD, un gruppo che esce con un disco giusto al momento giusto e con una proposta fortemente determinata e personale. Ma non dovete fermarvi alle apparenze. Il loro è un sound sincero, grintoso e senza compromessi, tutt’altro che un’offerta modaiola e commerciale in un’epoca di forte domanda del genere professato. Party Time è un album genuino e diretto, in grado di trasmettere tutta l’energia e la freschezza di un’opera prima.

termocoppia

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Il video tutorial sul taglio dell’ananas a barchetta ha funzionato alla grande. C’era però una forte motivazione di partenza. Ci tenevo a vincere il complesso di inferiorità verso i maschi alfa che la impiattano e la servono, a fine grigliata, con un’invidiabile coreografia. Quello sulla riparazione fai da te dei fornelli invece no. L’ho trovato inappropriato per la mia risibile dimestichezza con le attività manuali, ma a mia discolpa vi assicuro che ci vogliono competenze non comuni, a partire dalla perizia nel togliere tutte le viti intorno ai fuochi per sollevare il piano cottura e verificare se si tratta di un problema di magnete o di termocoppia. Se i fornelli sono vecchi è facile che le viti si disintegrino mentre provate a svitarle, anche con lo Svitol. Come faccio a saperlo? Ho mandato affanculo i tutorial e chiesto a un tecnico specializzato che mi ha consigliato, con quattro fuochi difettosi su quattro e a valle di vent’anni di onorato servizio, di sostituire il piano cottura senza pensarci su. Il tutto per trenta euro – il costo dell’uscita – pagato con un POS portatile. Tanto di cappello.

Il punto è che farsi insegnare le cose dagli altri, pratica che funziona da centinaia di migliaia di anni, è una strategia efficace, tanto per iniziare. L’apprendistato, poi, è vecchio quanto l’uomo ed è un processo di conservazione della specie che vanta innumerevoli tentativi di imitazione. La diffusione di insegnamenti punto-multipunto, infine, è il principio base della scuola. Il mix di queste tre tecniche più l’invenzione di Youtube ha compiuto un miracolo senza precedenti, tanto che chiunque può imparare in quattro e quattr’otto a fare qualsiasi cosa in qualsiasi momento apprendendone e mettendo in pratica gli algoritmi in qualunque parte del mondo erogati da qualunque parte del mondo.

Persino io che quando vivevo da solo mi nutrivo come un uomo delle caverne, grazie ai blog di ricette (prima) e i social network (dopo) posso considerarmi oggi un cuoco decisamente sopra alla media. A quasi sessant’anni posso tirare finalmente le somme di tutti i fallimentari tentativi di dedicarmi alla musica suonata, alla scrittura, all’informatica, alla corsa e persino a tutti i mestieri che ho praticato e in cui non mi sono mai trovato perfettamente a mio agio. Perché dietro ai fornelli – quando funzionano, sia chiaro – mi coglie un mix di sicurezza di quello che faccio, di coraggio di improvvisazione, di piacere per quello che preparo, di desiderio di portare a termine ogni procedura seguendo tutti i passaggi necessari senza mollare prima, il tutto senza annoiarmi mai, anche se devo impiegare ore per preparare piatti un po’ più elaborati. Oggi sono arrivato a quel livello in cui dedico tempo a cucinare anche quando mi trovo a mangiare da solo, ora che mia figlia è in Spagna per l’Erasmus e mia moglie difficilmente riesce a trascorrere a casa la pausa pranzo.

Quale migliore prova per sostenere che il cibo e la sua preparazione si sono evoluti in fenomeno di culto, se mi sono fatto coinvolgere anch’io. Ma ancora più messianico è il processo per cui anche la realizzazione di un panino con insalata, pomodoro e salsa di basilico (una specie di pesto ma senza i pinoli) come quello che mi sono preparato oggi a pranzo, ripresa e montata in un video divulgativo pubblicato come story su Facebook per insegnare a quelli come me come si fa (dalla grigliatura del pane in padella alla colatura dei residui del condimento per impregnare la mollica) diventa un rito religioso, con tutti suoi i gesti e il suo cerimoniale.

Non so però se avete notato una cosa. La liturgia della preparazione di questo o quel piatto, fateci caso, si conclude con lo stesso ite missa est. Lo chef assaggia – con un mix tra il sollievo di chi ha sperimentato la salvezza e la goduria di un orgasmo – ciò che ha cucinato, chiudendo gli occhi. Poi li riapre, masticando lentamente. Quindi emette il verso a bocca chiusa del piacere, o masticando ne amplifica a voce la portata e fa un gesto con le mani, avete capito quale, per sottolineare la bontà del risultato e la riuscita dell’esperimento proposto nella ricetta, anche se si tratta di panino con insalata, pomodoro e salsa di basilico.

Si chiudono tutti così, i video delle ricette. Vi sfido a trovarne uno differente. Un morso, un sospiro, un aggettivo di stupore a corredo, un gesto di piacere. I video sulle termocoppie o anche quello con cui ho imparato a tagliare l’ananas non si congedano dagli spettatori in questo modo.

Ma la mia è tutt’altro che una critica. Ai milioni di chef di tutti i tipi che pubblicano le loro ricette di tutti i tipi, io devo dire solo grazie, perché non hanno solo salvato la mia famiglia dalla routine, insegnando a me a cucinare e mettendo me in condizione di sfamare i miei cari con una certa qualità e varietà. Essi mi hanno offerto – come a milioni di maschi in tutto il mondo – un nuovo ambito in cui esercitare il mio potere maschile di spiegare qualcosa al prossimo. Una nuova competenza che trascende il modo di tagliare l’ananas o di sostituire la termocoppia del fornello e di cui mi sento competente più di ogni altra cosa che più o meno so fare.

Ma se farò anch’io un giorno delle story sui social in cui vi spiegherò come si prepara un panino con insalata e pomodoro e salsa di basilico, vi prometto che, una volta pronto, alla fine lo addenterò – lasciandomi sbrodolare il condimento sul mio grembiule degli Idles – emetterò un grugnito enfatico di totale soddisfazione, guarderò in camera e esclamerò “mmmm, che merda”.