termocoppia

Standard

Il video tutorial sul taglio dell’ananas a barchetta ha funzionato alla grande. C’era però una forte motivazione di partenza. Ci tenevo a vincere il complesso di inferioritĆ  verso i maschi alfa che la impiattano e la servono, a fine grigliata, con un’invidiabile coreografia. Quello sulla riparazione fai da te dei fornelli invece no. L’ho trovato inappropriato per la mia risibile dimestichezza con le attivitĆ  manuali, ma a mia discolpa vi assicuro che ci vogliono competenze non comuni, a partire dalla perizia nel togliere tutte le viti intorno ai fuochi per sollevare il piano cottura e verificare se si tratta di un problema di magnete o di termocoppia. Se i fornelli sono vecchi ĆØ facile che le viti si disintegrino mentre provate a svitarle, anche con lo Svitol. Come faccio a saperlo? Ho mandato affanculo i tutorial e chiesto a un tecnico specializzato che mi ha consigliato, con quattro fuochi difettosi su quattro e a valle di vent’anni di onorato servizio, di sostituire il piano cottura senza pensarci su. Il tutto per trenta euro – il costo dell’uscita – pagato con un POS portatile. Tanto di cappello.

Il punto ĆØ che farsi insegnare le cose dagli altri, pratica che funziona da centinaia di migliaia di anni, ĆØ una strategia efficace, tanto per iniziare. L’apprendistato, poi, ĆØ vecchio quanto l’uomo ed ĆØ un processo di conservazione della specie che vanta innumerevoli tentativi di imitazione. La diffusione di insegnamenti punto-multipunto, infine, ĆØ il principio base della scuola. Il mix di queste tre tecniche più l’invenzione di Youtube ha compiuto un miracolo senza precedenti, tanto che chiunque può imparare in quattro e quattr’otto a fare qualsiasi cosa in qualsiasi momento apprendendone e mettendo in pratica gli algoritmi in qualunque parte del mondo erogati da qualunque parte del mondo.

Persino io che quando vivevo da solo mi nutrivo come un uomo delle caverne, grazie ai blog di ricette (prima) e i social network (dopo) posso considerarmi oggi un cuoco decisamente sopra alla media. A quasi sessant’anni posso tirare finalmente le somme di tutti i fallimentari tentativi di dedicarmi alla musica suonata, alla scrittura, all’informatica, alla corsa e persino a tutti i mestieri che ho praticato e in cui non mi sono mai trovato perfettamente a mio agio. PerchĆ© dietro ai fornelli – quando funzionano, sia chiaro – mi coglie un mix di sicurezza di quello che faccio, di coraggio di improvvisazione, di piacere per quello che preparo, di desiderio di portare a termine ogni procedura seguendo tutti i passaggi necessari senza mollare prima, il tutto senza annoiarmi mai, anche se devo impiegare ore per preparare piatti un po’ più elaborati. Oggi sono arrivato a quel livello in cui dedico tempo a cucinare anche quando mi trovo a mangiare da solo, ora che mia figlia ĆØ in Spagna per l’Erasmus e mia moglie difficilmente riesce a trascorrere a casa la pausa pranzo.

Quale migliore prova per sostenere che il cibo e la sua preparazione si sono evoluti in fenomeno di culto, se mi sono fatto coinvolgere anch’io. Ma ancora più messianico ĆØ il processo per cui anche la realizzazione di un panino con insalata, pomodoro e salsa di basilico (una specie di pesto ma senza i pinoli) come quello che mi sono preparato oggi a pranzo, ripresa e montata in un video divulgativo pubblicato come story su Facebook per insegnare a quelli come me come si fa (dalla grigliatura del pane in padella alla colatura dei residui del condimento per impregnare la mollica) diventa un rito religioso, con tutti suoi i gesti e il suo cerimoniale.

Non so però se avete notato una cosa. La liturgia della preparazione di questo o quel piatto, fateci caso, si conclude con lo stesso ite missa est. Lo chef assaggia – con un mix tra il sollievo di chi ha sperimentato la salvezza e la goduria di un orgasmo – ciò che ha cucinato, chiudendo gli occhi. Poi li riapre, masticando lentamente. Quindi emette il verso a bocca chiusa del piacere, o masticando ne amplifica a voce la portata e fa un gesto con le mani, avete capito quale, per sottolineare la bontĆ  del risultato e la riuscita dell’esperimento proposto nella ricetta, anche se si tratta di panino con insalata, pomodoro e salsa di basilico.

Si chiudono tutti cosƬ, i video delle ricette. Vi sfido a trovarne uno differente. Un morso, un sospiro, un aggettivo di stupore a corredo, un gesto di piacere. I video sulle termocoppie o anche quello con cui ho imparato a tagliare l’ananas non si congedano dagli spettatori in questo modo.

Ma la mia ĆØ tutt’altro che una critica. Ai milioni di chef di tutti i tipi che pubblicano le loro ricette di tutti i tipi, io devo dire solo grazie, perchĆ© non hanno solo salvato la mia famiglia dalla routine, insegnando a me a cucinare e mettendo me in condizione di sfamare i miei cari con una certa qualitĆ  e varietĆ . Essi mi hanno offerto – come a milioni di maschi in tutto il mondo – un nuovo ambito in cui esercitare il mio potere maschile di spiegare qualcosa al prossimo. Una nuova competenza che trascende il modo di tagliare l’ananas o di sostituire la termocoppia del fornello e di cui mi sento competente più di ogni altra cosa che più o meno so fare.

Ma se farò anch’io un giorno delle story sui social in cui vi spiegherò come si prepara un panino con insalata e pomodoro e salsa di basilico, vi prometto che, una volta pronto, alla fine lo addenterò – lasciandomi sbrodolare il condimento sul mio grembiule degli Idles – emetterò un grugnito enfatico di totale soddisfazione, guarderò in camera e esclamerò “mmmm, che merda”.

medioevo splatter

Standard

Alla Electricness non se la passano molto bene e Claudio, Product Manager e responsabile Digital Marketing dell’area South Europe, si sente il fiato sul collo dell’intero board. Il letto digitale si sta rivelando un flop ma lui, alla casa madre, lo aveva detto subito. L’idea di materassi e cuscini in TFT, o Thin Film Transistor, lo stesso materiale dei più moderni schermi LCD, si vedeva lontano un miglio che non avrebbe funzionato. Le cosiddette soluzioni relax hanno diverse prioritĆ , a partire dal confort. FunzionalitĆ  come variare lo sfondo su cui addormentarsi per migliorare l’esperienza di riposo sono più che secondarie, e possono avere un perchĆ© ma solo se integrate nei tessuti standard con cui si realizzano federe e lenzuola. Voglio dire, intervenendo solo sulla copertura consentirebbe di mantenere il memory foam e le piume come riempitivi nelle parti strutturali. Certo, coricarsi sull’acqua cristallina della Sardegna o su una nuvola – questi sono gli scenari che ho provato quando ho potuto beneficiare dei prodotti in prova in cambio di una recensione su uno speciale della rivista “Italia Innovazione” – ĆØ oltremodo suggestivo. Peraltro i diffusori audio integrati ai lati dei cuscini favoriscono l’atmosfera di realtĆ  immersiva e completano la fruizione sinestesica. Dettò ciò, oggettivamente, ĆØ una trovata che non sta nĆ© in cielo nĆ© in terra. Sembra di dormire su una lastra di vetro – perchĆ© in fondo ĆØ una lastra di vetro – e non ci azzecca proprio niente con la funzione principale di un letto, che ĆØ quella di accompagnarci il più sofficemente possibile lungo le agognate ore di riposo.

Quando mi ha raccontato della perdita vertiginosa dell’azienda in cui lavora abbiamo riflettuto sul nuovo trend di costruire cose con materiali inadeguati ed entrambi abbiamo convenuto che, assieme ai balletti su Internet, all’AI e alla crisi della socialdemocrazia, costituirĆ  la principale causa dell’estinzione della societĆ  occidentale come la conosciamo. Ci siamo ricordati di quando il pettine senza denti per calvi senza capelli era solo una battuta di una storia di Paperino ma giĆ  allora – eravamo entrambi bambini – avremmo dovuto cogliere il presagio di ciò che stava per succedere. Senza scomodare i fanatici della decrescita, il fatto che non si sappia più che cosa inventare oggi che c’ĆØ tutto e che occorre comunque garantire lo sviluppo per evitare il collasso economico globale non deve giustificare lo spreco di lavoro, risorse e denaro per la costruzione di prodotti non solo inutili ma anche dannosi per l’umanitĆ  e l’ambiente. Ve lo immaginate cosa potrebbe pensare un alieno, capitando dalle nostre parti, alle prese con cose tipo le poltrone di zucchero (la mia si ĆØ riempita di formiche, avrei dovuto darvi retta e non acquistarla) o gli infissi in carta riciclata (ne parliamo alla prima grandinata)?

Ma, tornando all’inutile letto digitale, ogni volta in cui ne visualizzo la pubblicitĆ  sul web – che decuplicherĆ  non appena pubblicherò questo pezzo, giĆ  me lo sento, sapete come funziona sull’Internet – ripenso alle lenzuola che avevamo quando ero piccolo, a casa dei miei genitori. C’erano le lenzuola di flanella che usavamo d’inverno ed erano fantastiche. Tenete conto che – erano gli anni 70 – faceva molto più freddo di ora e i riscaldamenti domestici, soprattutto in certi appartamenti come il mio un po’ datati, erano tutt’altro che performanti e privi di qualunque criterio di rispetto dell’ambiente, per non parlare di sicurezza.

I modelli delle lenzuola di flanella che avevamo erano in tinta unita dai colori tenui. Rosino, giallino, celeste, color pesca. Le lenzuola di cotone, invece, quelle destinate alle altre stagioni, mia mamma le comprava con le fantasie più vivaci e sfarzose, chissĆ  perchĆ©, e non solo per il mio letto singolo e quello delle mie sorelle – certi pattern assurdi sono al limite comprensibili in una cameretta per ragazzi – ma anche per il suo matrimoniale.

Rammento in particolare un set di lenzuola con delle lettere maiuscole colorate – posizionate casualmente, senza nessun intento di comporre alcuna parola o frase di senso logico – che accompagnavano illustrazioni di personaggi buffi, una fantasia che cinquant’anni dopo dall’ultima volta in cui le ho viste posso solamente ricondurre alle iniziali miniate dei codici medievali, avete presente? Almeno questo ĆØ come li ricordo. Potrei sbagliarmi sulla disposizione degli elementi grafici e sul concept, diciamo cosƬ, ma non sui componenti. Lettere maiuscole e personaggi buffi. I miei genitori avevano però declassato le lenzuola miniate a biancheria da casa di campagna, ad un certo punto della loro vita, quando mio papĆ  aveva iniziato a soffrire di demenza senile. La fantasia con cui erano decorate stava diventando fonte di incubi o sogni comunque decisamente impegnativi e inopportuni. Diventati anziani, ci volevano ben altri spunti da cogliere, prima di addormentarsi, da rivivere poi durante il sonno. Storie meno fantasy, situazioni più accomodanti, nulla in grado di generare confusione. Scene da raccontarsi, la mattina dopo, senza destare preoccupazione a nessuno.

io so i nomi

Standard

Io so i nomi. Ma non solo quelli strambi e quelli che fanno ridere. Io so i nomi di tutti ed ĆØ un vero peccato che non si possano dire o che uno debba ricorrere a pseudonimi o iniziali puntate in osservanza della privacy.

So il nome di quello arrivato qui in adozione a metĆ  anno inserito in una classe inferiore rispetto all’etĆ  per le difficoltĆ  linguistiche. Viene dall’America latina e in qualche settimana si sapeva giĆ  esprimere in italiano come i più grandi, i suoi coetanei della quinta, e qualcuno poteva pensarci prima. So anche il nome di quella che vive in una specie di comunitĆ , i genitori non li vedi mai perchĆ© lavorano e basta, e ai ricevimenti si presenta una specie di capo che ĆØ l’unico che mastica l’italiano e fa le veci di tutti i figli perchĆ© agli adulti ĆØ vietato staccare dal lavoro in laboratorio. La bambina giustifica le reiterate assenze di papĆ  e mamma agli incontri con le docenti parlando di debiti da restituire ma, un po’ per la lingua e un po’ perchĆ© non comprende la situazione, preferisce non scendere nei dettagli. So il nome di quella la cui la mamma l’ha avuta a quindici anni e il papĆ , che ne ha abusato da piccola, ĆØ dentro. E poi di quello che mena compagni e maestre – e meno male che fa solo la prima – e di quell’altro che ha il padre che fa il buttafuori e dice al figlio che se qualcuno lo mena deve menare pure lui. E ancora di quello che in famiglia sono quattordici figli più la madre, vivono in una roulotte e non gli riconoscono la residenza, ma a scuola i bambini possono mandarli lo stesso.

So i nomi perchĆ© ad assistere agli scrutini di tutte le classi, che ĆØ un’operazione lunghissima e faticosa che si svolge in stanze rigorosamente senza aria condizionata, si imparano i nomi dei casi “da attenzionare”, espressione che mette i brividi ma oggi va di moda, e ci si rende conto della passione e dell’abnegazione che colleghe e colleghi riversano nel loro lavoro, ogni giorno. Anche mia mamma sapeva i nomi. Mia madre ha trascorso la vita in una segreteria scolastica prima dell’avvento dell’office automation e compilava i registri a mano. Copiava gli elenchi delle classi e scriveva i voti sui cartelloni che poi i bidelli esponevano all’ingresso e gli studenti andavano a controllare i voti e le materie da studiare in estate. Un liceo da dieci sezioni per cinque classi, circa 1200 nomi che di anno in anno si trascinavano da un foglio all’altro messi nero su bianco dalla sua calligrafia da diplomata alle commerciali. Fino a poco tempo fa bastava chiederle di qualcuno e lei ti diceva se avesse frequentato quella scuola oppure no. Io non ho avuto bisogno di scriverli, li ho tutti nella piattaforma che gestisco e mi ĆØ stato sufficiente selezionarli uno ad uno ed esportarli in un foglio Google. Mia mamma aveva un ventilatore acceso, in ufficio. Qui nemmeno quello.

A operazioni finite, congedato l’ultimo team – quello della quarta B – la scuola torna nel silenzio innaturale in cui piomba ogni edificio scolastico in estate. Si percepiscono le rotelle dei carrelli per le pulizie e qualche moneta, ogni tanto, che precipita giù lungo le condutture dei distributori automatici, seguita dal ronzio di una bevanda inadeguatamente calda al gusto terrificante di qualcosa che riempie un bicchiere di plastica. Vorrei farmi una foto, seduto qui da solo in sala insegnanti, a descrivere una sensazione ma ĆØ una situazione che non ha un nome. So solo questo.

Tunde Adebimpe – Thee Black Boltz

Standard

I Tv On The Radio sono stati i veri precursori di quel poliedrico stile indie electro/pop/rock che oggi ci suona cosƬ familiare. Un primato merito del loro eclettismo fuori del comune, a sua volta frutto principalmente dell’incontro tra tre talentuosissimi artisti (Dave Sitek, Kyp Malone e Tunde Adebimpe) senza nulla togliere alla sezione ritmica, il compianto bassista/polistrumentista Gerard Smith, scomparso nel 2011, e il batterista Jaleel Bunton.

Non c’è testimonianza più adatta a descrivere il loro approccio e il modo in cui la band newyorkese (di Brooklyn) ha fatto tesoro di esperienze anche agli antipodi tra di loro – blues, post-punk, dance, soul, indie-rock e funk – diĀ questa versione live di ā€œBela Lugosi’d Deadā€Ā dei Bauhaus eseguita con Peter Murphy e i Nine Inch Nails. Cose che, appunto, a nessuno verrebbe mai in mente di mettere insieme e che invece solo un modo di intendere la musica realmente fluido eĀ openĀ ĆØ in grado di concepire.

Ed ĆØ un peccato che, dopo l’uscita dell’albumĀ SeedsĀ del 2014, l’esperienza dei TVOTR si sia messa in stand-by, modalitĆ  pronta a riattivarsi in circostanze eccezionali (come i vent’anni diĀ Desperate Youth, Blood Thirsty Babes) ma, nel lungo periodo, a tutti gli effetti rinviata a data da destinarsi.

Un peccato perchĆ© mai come la decade successiva alla loro eclissi artistica – gli anni che abbiamo la sfortuna di vivere da comparse oggi – meriterebbe di essere sonorizzata da un collettivo di intellettuali cosƬ versatili, arguti e intelligenti come loro, un’entitĆ  artistica in cui il meglio della musica black e quella bianca coesistono per generare bellezza, nella splendida cornice di uno dei quartieri da sempre più all’avanguardia del pianeta.

Da questo punto di vista, un incipit celebrativo dei TV On The Radio risulta doveroso per un disco solista di Tunde Adebimpe. Non certo perchĆ© lui, da solo, non possa ritagliarsi una sua dignitĆ  – non dimentichiamo le sue collaborazioni con artisti del calibro di Massive Attack e Tinariwen e i suoi cameo cinematografici. Il punto ĆØ che quando si beneficia di un timbro cosƬ particolare e riconoscibile come il suo – la prima volta che ho ascoltato ā€œStaring At The Sunā€, era il 2004, senza sapere di chi si trattasse ho frainteso il brano addirittura per un inedito di Peter Gabriel – credo risulti impossibile non ripercorrere il passato, non tanto per fare paragoni ma per riconoscere il giusto merito.

Per questo non ci sarebbe nulla di male a sostenere cheĀ Thee Black BoltzĀ potrebbe essere tranquillamente il settimo album della sua band di origine, se non risaltassero l’assenza delle iconiche armonizzazioni in falsetto di Kyp Malone e certe geniali produzioni destrutturanti di Dave Sitek. Una considerazione calzante – vi sfido a sostenere il contrario – ma che risulterebbe riduttiva al cospetto di un ottimo disco come questo.

La genesi stessa diĀ Thee Black Boltz,Ā una sorta di traslitterazione di ā€œThe black boltsā€, i fulmini neri, meriterebbe una riflessione a sĆ©. Dopo un periodo cupissimo per Tunde Adebimpe, durante il quale esperienze personali come la pausa artistica della band, il lutto per la perdita dell’adorata sorella e l’isolamento da pandemia hanno gettato il cantante negli abissi della depressione, l’impeto di mettersi in gioco lavorando su vecchio materiale ĆØ stato stroncato sul nascere dal furto di svariati hard disk con spunti e demo che custodiva nel garage.

Una tragica fatalitĆ , in grado di scoraggiare il più temerario dei musicisti e indurre chiunque a cercare rifugio nell’autocommiserazione: ĆØ il destino che si mette di traverso per impedire che io riprenda a fare musica. Ma siamo in piena resilienza, e la caparbietĆ  ha avuto la meglio. Scovato un archivio, ancora precedente, di idee rese su nastri realizzati con un registratore multipista a cassette – non c’è nulla di più evocativo del concetto di vintage, ai tempi dell’AI, di cose come il caro vecchio Tascam PortaOne – Tunde Adebimpe si ĆØ messo al lavoro partendo proprio da lƬ. Ancora il destino, ma questa volta con le sembianze di chi tratteggia la strada migliore per tornare a galla, grazie al ricongiungimento con le radici creative.

La produzione di Wilder Zoby (collaboratore di lunga data di Run The Jewels) ha chiuso il cerchio, conferendo profonditĆ  e coerenza a materiale grezzo ed eterogeneo con una produzione ad hoc e intuizioni sonore che spaziano dalla pedal steel liquida di “God Knows” alle sonoritĆ  atonali e asettiche dell’insonorizzazione audiovisiva.

InĀ Thee Black BoltzĀ i testi oscillano tra la chiusura per l’elaborazione della perdita al suo apparente opposto, la ricerca dell’esposizione emotiva, rivelando una poetica che oscilla tra lo sconforto esistenziale e una rabbiosa speranza, tra fragilitĆ  e resistenza. Un disorientamento in cui ha giocato un ruolo decisivo l’improvvisa ed estemporanea (ce lo auguriamo in tanti) condizione di solitudine artistica, soprattutto a valle di un’esperienza cosƬ marcata, identitaria e totalizzante come quella dei TV On The Radio.

Ma se nella band l’alchimia collettiva e l’apporto di personalitĆ  ingombranti offriva un contrappunto alle intuizioni individuali, la paura del vuoto ha comportato un approccio autonomo. Si ĆØ sempre soli nei momenti più difficili. Le undici tracce del disco suonano più vulnerabili ma, sotto il profilo della fruibilitĆ , trasmettono un indubbio senso di libertĆ . Le pause, i groove, le transizioni sussurrate diventano parte della narrazione, restituendo un senso di umanitĆ  imperfetta ma vera.

Thee Black Boltz è un disco che, come tutti gli album a cui Adebimpe ha prestato la sua straordinaria voce solista, risulta non facilissimo e che non nasconde la presunzione di sottrarsi a un consenso immediato. Semmai è un lavoro destinato a convincere con il tempo, singolo dopo singolo, e pensato per trasmettere la sua autenticità. Una confessione privata e genuina condivisa al pubblico dei fan storici e non, e a chiunque abbia percepito i TV On The Radio come un fattore decisivo di svolta musicale a cui non è stato interamente riconosciuto il giusto valore e la reale portata di rottura. Ora è Tunde Adebimpe che torna a parlare, momentaneamente solo, ma più che mai necessario.

Mei Semones – Animaru

Standard

Poche cose mi mandano in brodo di giuggiole come i ragazzini che si interessano al jazz o ai suoi derivati. Mei Semones di anni ne ha 24, e appartiene alla stessa generazione di Domi Louna e JD Beck, una fascia di età in cui trovare qualcuno con la voglia di studiare o anche solo approfondire una lingua quasi più morta del latino e, nel caso, comunque ostica da padroneggiare, è davvero trovare un tesoro.

Passatemi la metafora: ĆØ un linguaggio imbattibile se devi descrivere campagne contro i Galli o la fondazione di cittĆ  eterne o visioni epicuree del mondo (l’equivalente degli standard e del Real Book della societĆ  dei nostri nonni) ma con un vocabolario inadeguato e privo di una sintassi all’altezza se ti devi cimentare con la modernitĆ . Nel nostro caso, mi riferisco a gente che suona da paura, probabilmente ex bambini prodigio diventati veri e propri mostri di tecnica che ostentano senza pudore – ma anche senza alcuna presunzione – l’estrazione colta da cui provengono. Un manierismo per fortuna non fine a se stesso, semmai con il valore aggiunto del buon gusto e delle contaminazioni con cui i giovani millennials approcciano il sacro in modo profano e con la perdonabile diffidenza con cui si scartabella nelle bancarelle dei rigattieri.

E mentre il duo autore di un pezzo, anzi un album intero da novanta come Not Tight, uscito nel 2022, ha mescolato con intelligenza il nu jazz e certe atmosfere breakbeat e drum’n’bass di fine secolo scorso, Mei Semones, accompagnata da un band di giovanissimi ma ottimi musicisti, lancia una nuova sfida accostando alla fusion generi come bossanova, j-pop e (addirittura) indie rock, talvolta anche nello stesso brano, come se fosse la cosa più naturale del mondo, senza soluzione di continuitĆ .

Intendiamoci. Alla pari del look e dell’immaginario alla Sailor Moon di Domi Louna, anche la cantautrice newyorkese sembra uscita da un cartone animato, con l’aggravante dei tratti orientali che sottolineano maggiormente i rimandi al mondo di Hayao Miyazaki. Della sua origine ha mantenuto anche la madrelingua, che sfoggia in alcune delle tracce del suo disco d’esordio, Animaru, una sorta di traslitterazione del modo in cui in giapponese si pronuncia la parola “animale”.

Più idiomi per raccontare la sua vita di giovane donna e artista nella grande mela, con i pro e i contro, i sogni e la realtĆ , il passato e il futuro, la famiglia (la sorella gemella ĆØ la protagonista del brano ā€œZariganiā€), l’amicizia e l’amore. Non solo. La voce di Mei Semones ĆØ convincente anche quando supera l’inglese con il linguaggio universale dello scat, uno stile (il vero e proprio esperanto jazzistico) che brilla nei momenti in cui il cantato doppia gli elaborati temi strumentali, riuscendo a impressionare l’ascoltatore anche nelle – non poche – melodie senza parole.

Cercate quindi di non lasciarvi ingannare da tutta la tenerezza che le sue pose e il suo sound irradiano senza pietĆ . Intanto perchĆ© la sua sorprendente bravura, al servizio di una rara creativitĆ , ĆØ più che certificata da una laurea conseguita presso l’autorevolissimo Berklee College of Music di Boston e da un’invidiabile (considerata l’etĆ ) esperienza di chitarrista session woman in gruppi jazz ai tempi delle superiori.

Il risultato ĆØ una tracklist di composizioni eseguite con una tecnica sopraffina. Mei Semones ĆØ accompagnata da una band di coetanei di dichiarata matrice acustica: la viola di Noah Leong e il violino di Claudius Agrippa, protagonisti di azzeccatissime sezioni di archi e di intricate linee soliste, ovunque accompagnati da una solida sezione ritmica composta da Noam Tanzer al basso e Ransom McCafferty alla batteria. Un ensemble dalla resa superlativa, in studio e live.

In Animaru (sempre che non siate allergici al genere) non sentirete mai nulla di eccessivo, di pretenzioso o qualcosa sopra le righe. Non bisogna infatti perdere di vista la matrice di songwriting alla base del progetto di Mei Semones, aspetto che, nonostante la varietĆ  stilistica, non scende mai in secondo piano. Le strutture dei brani non lasciano dubbi e la ricchezza sonora non penalizza per nulla la sostanza del disco: un album d’esordio in cui la giovane artista condivide il suo mondo, una dimensione in cui il dominio del proprio strumento va completamente al servizio della sensibilitĆ  musicale. Nel suo jazz ibrido i virtuosismi sono solo un di cui, un design di interni di ambienti compositivi dalle solide fondamenta, strutture frutto di una giĆ  matura personalitĆ  artistica. Animaru ĆØ un disco quasi perfetto, un’opera prima in cui troviamo una Mei Semones giĆ  incredibilmente a proprio agio nel mondo della musica da grandi.

microflor adulti più

Standard

Mi ero dimenticato il nome dell’integratore che il mio amico Fulvio mi aveva consigliato per migliorare le prestazioni della memoria e di tutto il contenuto della scatola cranica tout court, che detta cosƬ sembra proprio una battuta di quelle che non fanno ridere. Allora, per sdrammatizzare, glielo ho chiesto nuovamente tramite whatsapp e proprio in questo modo. Nei momenti di stress o di particolare affaticamento quelli che io chiamo inappropriatamente svarioni, e che nel mio lessico meno che famigliare indicano cose che si fanno o si dicono al posto di un’altra, si manifestano tutt’altro che di rado. A fine anno scolastico sono cosƬ stanco che inverto l’ordine delle parole mentre spiego alla LIM, oppure squilla il telefono in macchina e non ricordo cosa devo fare, qual ĆØ la sequenza delle azioni, per non parlare della settimana scorsa quando ho messo in bocca l’accendino e ho tentato di generare il fuoco con la sigaretta e tenete conto che non fumo nemmeno.

Ieri, ultimo giorno di scuola, alla mamma di Alex che ĆØ venuta a prendersi la sacca delle scarpe di motoria nonostante avessimo raccomandato ai bambini di ricordarsi di riportarle a casa – chissĆ  a settembre che piedi avranno – ho detto che erano rimaste in classe delle scarpe ma che erano di Alex, come se Alex – che era lƬ insieme alla mamma – fosse un altro bambino, non so se mi sono spiegato. Una cosa strana perchĆ© so di sapere i nomi di tutti anche se, in classe, li sbaglio continuamente. Dovrei rallentare come fa Corrado Augias, con cui da un po’ condivido il colore e lo stile dell’acconciatura e di cui invidio fortemente la luciditĆ , quando spiega le cose in tv.

D’altronde ĆØ un dato di fatto che la dimensione più adeguata ai riflessi della terza etĆ  sia proprio questa in cui mi sto cimentando ora, cioĆØ la scrittura. Ogni parola necessita di un tempo ragionevole per essere messa nero su bianco e, al netto dei typo, c’ĆØ sempre il margine giusto tra pensiero e azione. Nelle conversazioni noi vecchi di merda dovremmo mantenere proprio questo ritmo qui, quello che sto seguendo io anche se voi non mi vedete e sempre che voi non siate come certi miei colleghi che non utilizzano più di un solo dito di una sola mano per scrivere sulla tastiera, e fare gli scrutini con loro al registro elettronico ĆØ sempre un bagno di sangue.

Io scrivo al pc con una certa regolaritĆ  oramai da trent’anni e non solo non riesco più a usare penne e matite – non vi dico le figuracce con i bambini a scuola – ma sono in grado di digitare sui tasti con entrambe le mani e guardando di lato, proprio come faceva la mia ex datrice di lavoro che scriveva le email da mandare ai clienti guardando la persona che le suggeriva il contenuto anzichĆ© lo schermo con un’inclinazione del collo da bambina protagonista de “L’esorcista”. Parlavo di lei giusto ieri con mia moglie. Mi chiedevo quanti anni abbia ora la mia ex datrice di lavoro e perchĆ© non sia ancora andata in pensione. Ma di cosa stavamo parlando? Non ricordo più. Ah, giusto, la memoria.

prova a dire cioppi cioppi

Standard

Il motivo per cui la scuola prevede tre mesi di vacanza per studenti e insegnanti principalmente ĆØ dovuto al fatto che, se non vi fosse soluzione di continuitĆ , studenti e insegnanti si metterebbero le mani addosso. Anzi, coinvolgerebbero il personale amministrativo, i collaboratori ai piani (giĆ  bidelli) e persino i presidi – e ci aggiungerei pure i genitori e i rappresentati dei libri – in una rissa globale in cui darsele di santa ragione. Ragazzi, che fantastico sfogo che sarebbe. Sogni a parte, le avvisaglie di questo decorso interrotto sagacemente, per fortuna, dal suono dell’ultima campanella dell’ultimo giorno di scuola, sono giĆ  nell’aria a partire dal rientro dal ponte delle vacanze di pasqua la cui durata ĆØ direttamente proporzionale alla profonditĆ  della consapevolezza che si stia molto meglio a casa con l’educazione parentale – lato utente finale – e con lo smart-working – lato operatore di settore.

Io lo so il perchĆ©: a fine maggio i bambini puzzano di bambino esagitato e sono fuori da ogni grazia di dio, fattori che, uniti alla stanchezza diffusa e incontrollata dell’intero ecosistema pedagogico, rendono l’esperienza didattica decisamente faticosa. I docenti non sono meno nervosi, e lo scontro ĆØ inevitabile. Fino a quando si consuma un miracolo, lo stesso che si ripete dalla notte dei tempi. C’ĆØ una data di fine anno scolastico che sancisce la vittoria sulle barbarie e sull’oscuritĆ  e il ritorno a un umanesimo sociale e conseguente rinascimento relazionale in cui tutti, al sicuro dalle proprie vacanze effettive o presunte (quelle degli insegnanti sono presunte, quelle degli studenti lo sono solo nel caso di debiti didattici) tornano a ricoprire il proprio ruolo, almeno fino al ponte di pasqua dell’anno scolastico successivo. I docenti, a preparare il materiale in vista della ripresa e a ricostruire la propria dimensione auto-percettiva con aspettative che nemmeno un prof de “L’attimo fuggente”. Gli studenti, a fare il pieno di buoni propositi come ringraziamento per “averla scampata bella ancora una volta e il prossimo anno si comincerĆ  a studiare e riordinare gli appunti presi in classe sin dal primo giorno”, proposito la cui bontĆ  viaggia con una data di scadenza inferiore a quella di un cartone di latte fresco.

Io non sono da meno. Da qualche settimana rispondo ai miei bambini come fa quel cabarettista specializzato nell’interpretazione degli stereotipi umani che popolano le scuole italiane. Sono ormai dipendente dalle sue gag, in cui mi ritrovo moltissimo, e oramai, privo per ragioni anagrafiche di ogni inibizione, non riesco a trattenermi. Una sorta di incontinenza di sarcasmo che prima o poi, lo so, mi si ritorcerĆ  contro. Stamattina Alex ĆØ venuto a dirmi che Nathan aveva detto una parolaccia. Ho chiesto ad Alex che parolaccia avesse detto Nathan – una richiesta pericolosa, lo so, ma i bambini sono solitamente molto pudichi nel ripetere volgaritĆ  al cospetto di un insegnante, diventano subito rossi e a malapena si spingono a pronunciare le iniziali oppure danno suggerimenti da gioco a quiz su raiuno, cose tipo “ha detto quella parolaccia con le due zeta” – e invece Alex, che ĆØ esonerato da religione, ha riportato fedelmente, letteralmente e senza peli sulla lingua una bestemmia da competizione. E siamo solo in prima elementare.

Io non sono riuscito a trattenermi e gli sono scoppiato a ridere in faccia. So di non aver dato un bell’esempio, peraltro in quell’istante tutti mi stavano guardando – c’era l’intervallo – deducendo cosa fosse accaduto perchĆ© nel frattempo la notizia si era diffusa. Ora andranno a casa a dire ai genitori che “il maestro ride quando bestemmiamo”, ma non ĆØ quello il punto. Alex, lo dovreste vedere. Ha due guance cosƬ carnose che ora che siamo a fine anno e vale tutto gliele stringo – delicatamente – con una mano in modo che le labbra si concentrino estrudendosi dallo spazio dedicato e poi gli chiedo di dire cioppi cioppi, che ĆØ un gioco che faceva mia figlia quando aveva l’etĆ  di Alex, fa sembrare i bambini dei pesci e mi dĆ  molta soddisfazione.

E comunque alle colleghe più maestre degli altri, le ipermaestre, in questo periodo si accentua quel tono cantilenato con cui – per deformazione professionale – si rivolgono anche ai colleghi (farei un podcast audio solo per farvi capire a cosa mi sto riferendo, ma se siete insegnanti della primaria come me avete capito bene) e che lo sforzo di tenere a freno il nervosismo per la fine dell’anno e tutto quello che abbiamo detto prima, porta la cantilena all’eccesso, una roba da non credere, quasi da film horror.

E io, al cospetto di cosƬ tanta stupidera in classe, di coltri atmosferiche gravide di entusiasmo e ormoni prepuberali cosƬ fitte da tagliare con il coltello, avrei tanta voglia di smettere di fare lezione all’improvviso e imbastire, seduta stante, un dj set di musica deprimente come so io dedicato proprio a loro, ai miei bambini, cosƬ carini le prime settimane di scuola, cosƬ diabolici a maggio. Io me ne intendo di musica deprimente. Sono cintura nera di musica deprimente. Potrei soffocare quella supponenza e quella boria tipica di chi ha tutta la vita davanti in un istante, con versi come quelli di “Endsong” dei Cure, quando Robert Smith verso la fine della canzone canta che

ĆØ tutto finito, ĆØ tutto finito
mi perderò nel tempo, non ci vorrà molto
ĆØ tutto finito, ĆØ tutto finito, ĆØ tutto finito
lasciato solo senza niente alla fine di ogni canzone
lasciato solo senza niente alla fine di ogni canzone
lasciato solo senza niente
niente
niente
niente

Preoccupations – Ill at Ease

Standard

Secondo un efficace criterio di catalogazione del materiale relativo alle numerosissime band post-punk del decennio in corso, il timbro di Matt Flegel, cantante e bassista dei Preoccupations, va archiviato sotto la cartellaĀ Richard Butler. E se per i primi quattro dischi del gruppo di Calgary si poteva anche minimizzare, tirando in ballo solo una vaga reminiscenza dei Psychedelic Furs, peraltro smaccatamente soggettiva, vi sfido ad ascoltare (questa volta un po’ più prevenuti, o anche solo incuriositi da queste mie considerazioni) la title track diĀ Ill at Ease, il loro nuovo album, e a immaginare i Preoccupations suonare quella stessa canzone sotto un acquazzone, senza ombrello, proprio come nel video di ā€œHeavenā€, sempre che, anche per voi, non ci sia nulla di sbagliato nel potere evocativo della musica. Anzi.

E la prova che gli anni ’80 dei Preoccupations sono solo presunti, e per nulla rigorosi, va rintracciata nelle tematiche dei testi e nel retrogusto sonoro che lasciano i loro brani nell’ascoltatore, sin dai tempi dell’incompreso quanto cupo esordio a nome Viet Cong. Un disagio (Ill at Ease, appunto) dichiarato e per certi tratti ingenuo che proviene sin dalle origini e che – disco dopo disco – ĆØ cresciuto sino a contaminare tutte le trame di uno stile sempre più elaborato. Un tratto caratteristico che manifesta al massimo, proprio nell’album appena pubblicato, la sua perfetta espressione, la sua identitĆ  più definita, la sua piena maturitĆ , la sua straordinaria eleganza.

Dei Preoccupations, inĀ Ill at EaseĀ troverete ancora l’estetica e la ritmica new wave nella variante più elettro-crepuscolare con il valore aggiunto delle chitarre post-punk (pulite e distorte) in strutture compositive spesso a blocchi dispari, d’altronde farci contare fino a quattro per tre volte ĆØ il loro vero marchio di fabbrica.

Ma con i Preoccupations non c’è da preoccuparsi. In ogni brano diĀ Ill at EaseĀ troverete sempre una backdoor ad attendervi, una voluta distrazione pop che vi permetterĆ  di scavalcare dall’altro lato della canzone per percepirla all’opposto rispetto alla piacevolezza trasmessa durante un qualsiasi ascolto radiofonico e approssimativo, una svincolo in grado di farvi invertire il senso di marcia, a ritroso finalmente fino al cuore dello spleen. L’esempio più calzante ĆØ l’improvvisa variazione di mood che prende la prima traccia del disco, ā€œFocusā€. Nel bel mezzo di una sequenza armonica da manuale, la band azzarda un cambio con una successione di accordi apparentemente a casaccio e fuori da ogni logica, una serie cosƬ destabilizzante ed estemporanea che coglie di sorpresa, assieme all’intreccio di cori sgraziati che vi si inerpica intorno, per un risultato in grado di mettere a tappeto i più assidui frequentatori della regolaritĆ .

Musiche diversamente orecchiabili come basi per testi senza speranza, nati da riflessioni sul contesto socio-politico attuale, agli antipodi dall’ebbrezza edonistica dell’era duraniana con cui, al cospetto dei Preoccupations, ci si spertica a sfoggiare le più ardite comparazioni. Parole chiave che non lasciano dubbi: estinzioni collettive da asteroidi, galassie in collisione, apocalisse, gente seppellita viva, terremoti, autodistruzione, cieli che crollano, eclissi permanenti, panico, ma anche semplici e innocui suicidi.

Nell’insieme,Ā Ill at EaseĀ ĆØ un disco che parte in una direzione per concludersi completamente fuori rotta. Appena otto canzoni con un punto di svolta nel mezzo che non poteva che intitolarsi ā€œRetrogradeā€, una non-ballad che sembra rispedire al mittente i primi tre accomodanti brani, non a caso due dei quali (i giĆ  citati ā€œIll at Easeā€ e ā€œFocusā€) pubblicati nei mesi scorsi come singoli per confondere le idee nell’anticipazione del trentatrĆØ giri. Da quel punto, oltrepassata la metĆ  del disco, i Preoccupations cambiano registro e lo portano agli antipodi con il nervoso e liberatorio riff di chitarra di ā€œAndromedaā€, il dark di ā€œPanicā€, il math-industrial di ā€œSkenā€ e l’apoteosi finale di ā€œKrem2ā€, probabilmente la traccia più sorprendente di tutto il disco, con il suo alternarsi di emozioni indotte dal vortice ipnotico dell’arpeggio e dall’incursione nel solenne chorus che ne prende il posto.

Ill at Ease è sicuramente ad oggi il disco più raffinato dei Preoccupations, una band che dimostra di crescere ed evolvere il proprio suono pur mantenendo inalterato e riconoscibilissimo lo stile. Un lavoro in costante equilibrio tra consonanze e dissonanze, per una tensione piacevole e sgradevole allo stesso tempo che non sempre, come è prassi per la loro musica, fortunatamente finisce bene e si risolve in quello che ci piacerebbe sentire. Un approccio che, a un ascolto meno attento, può essere riduttivamente travisato per un compromesso con la commercialità. Che poi, se può essere funzionale per apprezzare i Preoccupations al di fuori del loro fedele seguito off, per me va benissimo così.

non spot

Standard

Io le chiamo “le non pubblicitĆ ”, ma anche “non spot” rende l’idea se non fosse che ci si concentra di più sul gioco di parole con “non stop”, e si perde in efficacia, perchĆ© ĆØ sulla sulla sostanza che, come in pubblicitĆ , dovremmo focalizzarci. Adoro le non pubblicitĆ  perchĆ© mi sono rotto i maroni delle pubblicitĆ  e delle narrazioni in cui si parte da qualunque punto del cosmo e si arriva al prodotto in un tripudio di dialoghi e immagini didascalici, modelli o finti tali, o – come usa di questi tempi – ingenue provocazioni. Oramai si ĆØ detto tutto ed ĆØ un bene stravolgere i paradigmi. Un velato esempio di non pubblicitĆ  ĆØ lo spot di Prima Assicurazioni, con Derek Shepherd boicottato dagli eventi in diversi modi, a seconda del soggetto. Ma le mie non pubblicitĆ  preferite sono quelle di MV Line, produttore di infissi, tende e zanzariere. Lo spiega bene Virginia Dara su Insidemarketing:

Da inesperta della pubblicitĆ , cioĆØ, sembra proprio che MV Line provi a smascherare con ironia e in maniera divertente gli espedienti più spesso usati per vendere. Lo fa cogliendo gli spettatori sulla soglia dell’inaspettato e sorprendendoli in un contesto, quello della comunicazione pubblicitaria in TV

Qui trovate i tre soggetti: barrette


bucato (si può vedere solo su youtube)
https://www.youtube.com/watch?v=sQjP56jseYc
e influenza
https://www.youtube.com/watch?v=5guIGcGyE5Q

Valerie June – Owls, Omens and Oracles

Standard

In un momento storico dominato dall’ansia globalizzata e da un inarrestabile stillicidio di pessime notizie (a corollario di altrettante tragedie) Valerie June dĆ  alle stampe un disco concepito in una dimensione parallela, che per una songwriter del Tennessee non può non coincidere con uno scenario privo di Donald Trump.

Un’opera in cui la resistenza al pessimismo cosmico torna a essere protagonista, a scapito della resilienza e dei suoi compromessi (probabilmente abbiamo esaurito le scorte, o semplicemente ne abbiamo i coglioni pieni) e con il valore aggiunto di un approccio spirituale.Ā Owls, Omens and OraclesĀ ĆØ un gospel collettivo che agevola il ricongiungimento dell’ascoltatore con se stesso e risplende flebile come una di quelle lampadine che gli scout indossano sulla fronte per raccapezzarsi nelle tende di notte, facile metafora della riconnessione con la propria luce interiore ai tempi di uno dei black-out più longevi nella storia della civiltĆ  come la conosciamo.

Per questo, se come me ritenete fuori da ogni senso logico l’ascolto di musica che non sia deprimente, il sesto disco di Valerie June lasciatelo stare, non fa per voi. La potente forza salvifica che scaturisce sin dalla prima traccia del disco farĆ  brandelli del vostro spleen. Quell’inconfondibile timbro agrodolce che evocava ancestrali storie di dolore e fatica nei blues di donne costrette a lavorare come i maschi, oggi canta la gioia come non l’avete mai sentita, come impeto di opposizione estrema alla sofferenza. In un modello sociale che promuove rabbia e rassegnazione,Ā Owls, Omens and OraclesĀ ĆØ un cantico della felicitĆ  come atto di coraggio, la torcia accesa del fuoco che vince l’oscuritĆ .

Quattordici tracce dai titoli che lasciano poco spazio alla sicurezza di una corroborante disperazione: ā€œJoy, Joy!ā€, ā€œAll I Really Wanna Doā€, ā€œEndless Treeā€ e la sua coda da musical, ā€œInside Meā€, dai tratti da road song, ā€œTrust The Pathā€, con un giro su cui ci si può divertire a contro-cantare una qualunque strofa di De Gregori, l’originale incedere terzinato di ā€œLove Me Any Ole Wayā€, ā€œChangedā€, che vede il featuring dei The Blind Boys of Alabama, ā€œSuperpowerā€ – su tutti il brano più intrigante, merito anche del pattern di batteria che richiama la trap, ā€œSweet Things Just for Youā€, un preludio country alla raffinatissima ā€œI Am In Loveā€ (cosa di cui, a giudicare da tutta questa euforia, non avevamo dubbi), la suggestiva ā€œCalling My Spiritā€, un’orazione corale di più tracce tutte registrate con la sua voce, e le conclusive ā€œMy Life Is A Country Songā€, ā€œMissin’ You (Yeah, Yeah)ā€ e ā€œLove And Let Goā€, brano impreziosito da una coinvolgente sezione fiati a contorno della linea vocale. Singoli momenti di riflessione per un tratto narrativo che esorta a prendere consapevolezza del potere unico di cui siamo stati provvisti. La nostra missione: cambiare le cose con l’amore e la gentilezza, anche quando sembrano fuori luogo.

Ed ĆØ Valerie June in persona ad accompagnarci lungo questa rivoluzione tutta interiore con il suo stile, il suo modo di suonare chitarre e banjo, e il suo approccio al canto secondo i canoni più appropriati, di volta in volta. Una costante alternanza tra blues, soul, folk, gospel e country, un ritorno alle radici della comunitĆ  afroamericana incrociate con la musica dei bianchi, un richiamo all’ereditĆ  spirituale e culturale tramandata dalla tradizione a stelle e strisce in un messaggio universale: c’è qualcosa più grande di noi che ci lega con trame di amore – anche se non sembra -, di dolore – giĆ  più plausibile -, e di opportunitĆ  di riscatto, che non sempre sappiamo cogliere.

Temi classici e schemi narrativi consolidati, uno specifico del genere ma esposto con un gusto raro e uno sguardo di originalità, frutto anche della produzione di M. Ward. La debolezza si trasforma in arma, uno strumento devastante in grado di condurre alla vittoria. Aprite i vostri cuori, la sentiamo cantare tra le righe, soprattutto quando il rischio di esporsi al prossimo può fare la differenza tra esseri umani.

Owls, Omens and OraclesĀ ĆØ una seduta di meditazione, un invito a concentrarci sul respiro per ritrovare l’anima e la sua essenza. Un album che va oltre la musica, in grado di trasmettere riti collettivi e odi alla vita, in tutte le sue accezioni. Un disco tra paura e speranza che risuona proprio in quel frammento e in quell’istanteĀ tra esse compreso eĀ da cui si sprigiona la gioia, sentimento allo stato puro, da rendere in melodia.