frutta di stagione

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Il nonno Gigetto è il parente prossimo che mi sono goduto di meno perché è morto quando avevo cinque anni. Nonostante questo conservo alcuni ricordi sorprendentemente nitidi del poco tempo passato con lui. Vivevamo tutti insieme nella stessa casa, ci dava dentro con il vino – era un contadino poi riciclatosi dopo la guerra carpentiere di città per sfuggire alla povertà della campagna – e a cena me ne versava un goccio nell’acqua effervescente fatta con le bustine dell’idrolitina, che in famiglia ci arrogavamo immeritatamente il diritto di chiamare, in modo pretenzioso, acqua di vichy. Ho una vaga reminiscenza anche di quella volta in cui accontentò un mio capriccio comprandomi al mercato un gioco che poi, mezzo secolo dopo, ho adocchiato a un prezzo esorbitante sulla bancarella di un rigattiere: era una pista a forma di otto su una base metallica rettangolare, un nastro a cui bisognava dare la corda e che trasportava automobiline e camioncini lungo una strada fuori e dentro una galleria, dove per me resta tutt’ora un mistero cosa succedesse là sotto dove le due direttrici del percorso si incrociavano. Su tutti, però, lo vedo ancora oggi gustare l’uva con il pane, a fine pasto, abitudine che poi ho fatto mia da adulto, con grande soddisfazione. Ma vivevamo in Liguria, c’erano i besagnini sotto casa – per non parlare degli alberi e dell’orto della nostra cascina in campagna – e frutta e verdura non erano certo un problema. Anzi. Mia nonna ci sfiniva con tanta di quella marmellata di pesche, albicocche, ciliegie e mele che le mie sorelle ed io gettavamo i panini della merenda alle galline, a fine estate, tanto eravamo stufi di mangiare sempre la stessa cosa.

Non so poi cosa sia successo, probabilmente il cambiamento climatico o lo stesso processo per cui l’acidità degli yogurt della mia infanzia è stata soppiantata dalla panna per conquistare nuovi target, fatto sta che qui a Milano e dintorni la frutta costituisce un problema. I negozi dei fruttivendoli sono secondi solo alle gioiellerie e la frutta dei supermercati è insapore (e nemmeno così abbordabile). Nel migliore dei casi sa di acqua e zucchero. Quest’anno, poi, è stato particolarmente nefasto per l’agricoltura e, negazionisti meloniani a parte, tutti dicono che sarà sempre peggio.

Noi comunque ci riforniamo dal Marco. Il Marco è un marcantonio che si sposta con un camioncino tra i paesi dell’hinterland – con tutte le licenze necessarie – e si parcheggia a vendere i suoi prodotti. Prezzi e qualità sono a metà tra grande distribuzione e botteghe bio, tutto sommato un buon compromesso e lo ha ammesso anche lui che quest’estate la frutta non è stata niente di che. Nonostante l’agglomerato di periferia in cui vivo abbia tre o quattro punti di sosta fissi dove noi clienti lo raggiungiamo e ce ne sia uno praticamente sotto casa mia, io mi servo di lui ogni martedì alle 18 nel cortile del quartiere di case a proprietà indivisa in cui abita mia suocera ultranovantenne, perché per me risulta l’orario più comodo. Prendo la bici, faccio la spesa, metto le sportine nel cestino e, facendo attenzione alle uova, torno a casa.

Mi risulta che il Marco non si sia mai sposato. Me lo ha confermato la scorsa settimana, pochi giorni prima che uscisse lo spot dell’Esselunga con la pesca e i genitori divorziati. Mi prende sempre in giro perché nell’immaginario popolare gli uomini che si occupano della spesa sono telecomandati dalle mogli e mi fa le battute, ogni volta, invitandomi ad acquistare la frutta non di stagione o le primizie a prezzi esorbitanti e le conseguenze che possono generare nella vita di coppia. Però mi avvisa se le pesche sono troppo care, o non sanno di niente, o se è meglio prendere le prugne perché oramai la stagione delle albicocche è finita. Non ha nemmeno figli, quindi la cosa finisce lì e, a differenza della frutta dei supermercati, non c’è il rischio di polemizzare su nulla. Canzona amorevolmente tutti: le vecchine, compresa mia suocera ultranovantenne, i vedovi che comprano lo stretto necessario. Per le giovani mamme con i bimbi nel passeggino ha un tono diverso, com’è facile immaginare.

Mi piace anche il fatto che si rivolga a me in milanese quando io, savonese con trascorsi genovesi, il dialetto di qui non lo capisco. Credo sia anche più giovane di me ma appartiene a quel mondo di paese senza tempo, dove gli anziani sembrano anziani da sempre, quando invece un ottantenne del 2023 ha avuto quarant’anni nel 1983 e deve aver per forza ascoltato i Depeche Mode come me, ma invece sembrano tutti usciti da una balera di liscio come gli ottantenni del 1983, spero di essermi spiegato. Il Marco è un marelot, come dicono quelli come lui a proposito di quelli come lui, e me lo immagino alla sera con gli amici al bar a giocare a biliardo o la domenica mattina a bere bianchi macchiati in attesa di ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”. Quando mi vede mi dice “ciao bagai”, ma lo dice a tutti, e così mi fa sentire un po’ uno di qui.

A PIEDI NUDI NEL BAGNO/2

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Anche nello spot Ambipur bagno c’è una tizia che entra in bagno con le scarpe e cammina sul tappeto, proprio come la sua amica del Viakal.

flixbus

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Con l’introduzione dell’orario definitivo ho ripreso a fare musica in classe. Ieri – è stata la prima lezione dell’anno – per partire con il piede giusto ho creato insieme ai bambini, che a dir la verità sono quasi ragazzi, siamo in quinta, una playlist di classe su Spotify. L’iniziativa fa parte di una serie di attività che vorrei portare a termine quest’anno finalizzate a cose che mi piacerebbe che i miei alunni portassero con sé lungo il percorso che li aspetta da giugno in poi. Qualcosa che, da grandi, guardandolo o ascoltandolo o leggendolo possano ricordarsi della nostra esperienza comune, quello che abbiamo fatto, il tempo trascorso insieme, le esperienze condivise, l’amicizia con i compagni.

Il rischio è che sia uno sforzo inutile, un progetto fine a se stesso. Non c’è passaggio di crescita come quello tra l’infanzia e l’adolescenza in cui ci si vergogna e si gettano via le cose del passato e, giustamente, si guarda al futuro, senza contare che, diventando grandi, è facile dimenticarsi di reminiscenze così remote. Non solo. Molti dei manufatti – fisici o virtuali – che si realizzano a scuola sono costruiti con materiali che si guastano nel giro di poco tempo. Anche se fossero fabbricati in acciaio o in qualsiasi altra lega metaforica, guardiamo i prodotti dell’educazione dei nostri figli alla primaria sicuramente con nostalgia ma consapevoli che non c’è spazio – se non volatilissimo, per esempio sotto il piatto del pranzo di Natale – nella vita e negli ambienti degli adulti per le cose da bambini. Pensate se avessimo conservato gli scarabocchi o le statuine in das di tutti i figli degli esseri umani dagli uomini primitivi in poi. Provate a sbirciare con occhio più responsabile nelle vostre cantine, nei vostri vecchi hard disk o anche nelle vostre coscienze. Noi insegnanti, per primi, siamo consapevoli che i bambini dicano e facciano e scrivano e propongano e pensino un mucchio di stronzate che per la vita e il mondo e la storia e l’economia e la politica sono superflue, peraltro sprecando una quantità di energie e di risorse con le quali potremmo risolvere come minimo il problema della fame nel mondo. Pensate quanti dischi potreste comprare con i soldi che spendete per giochi dei vostri figli, ecomostri in plasticaccia con tempi di degradabilità calcolati in ere geologiche, costruiti in Cina e progettati con un ciclo di vita inferiore alle 24 ore. Potremmo imparare qualcosa, se ascoltassimo i nostri figli, è quello che ci diciamo sempre. Ma poi qualcuno ci ruba il parcheggio, ci passa davanti in fila alla cassa dell’Esselunga, ci chiama per cambiare gestore del gas, prendiamo una multa e siamo daccapo.

La playlist di classe, i brani li scelgono loro, com’è facile immaginare è una scaletta vergognosa. Vi dico solo che l’unica canzone che si salva è il tormentone di Bruno Mars, per il resto c’è da mettersi le mani nei capelli. Forse il percorso evolutivo degli esseri umani è stato pensato così proprio per evitare, una volta grandi, di provare vergogna per i gusti di merda che abbiamo da piccoli. E, in questo periodo storico, con il pop puberale abbiamo davvero toccato il fondo ed è un peccato, perché non ricordo di aver ascoltato novità musicali interessanti come negli ultimi dieci anni a questa parte. Ieri sera, per dire, ho seguito la prima puntata in chiaro delle audizioni di Xfactor e la cultura musicale che c’è in giro è talmente disarmante che ho spento la tv, dopo la sigla finale, con un fortissimo senso di colpa per aver sprecato così tanto tempo in un’attività inutile. Che mi serva da lezione, mercoledì prossimo metterò su un ellepì della mia collezione, guarderò un film, leggerò un libro, andrò a prendere un gelato con la mia famiglia, ci sono tante cose più interessanti della deriva della società contemporanea ai tempi della meloni.

Qualche barlume di speranza sul futuro me la restituisce mia figlia, anche se so che sono di parte. Non avendo nulla da insegnarle, perché sostanzialmente non so combinare granché, però sono riuscito almeno a trasmetterle un po’ di amore per la musica, credo lo stesso che mi hanno trasmesso i miei genitori che, a loro volta, hanno ricevuto dai loro e così via, chissà fino a quante generazioni a ritroso nella mia famiglia. Oggi l’amore per la musica nei giovani non è così scontato, lo so di scrivere una banalità ma è così. La musica è un aspetto a corollario di altre cose, meme, videogame, balletti su TikTok ed esibizionismi di questo tipo, ma non ci si concentra più sull’atto artistico che sottende ai sottofondi della nostra vita, del nostro divertimento, dei nostri momenti romantici, di quando ci sfoghiamo o balliamo o ci viene nostalgia perché una combinazione di note ha fatto vibrare chissà quale cellula del nostro corpo. La musica deve vedersi in video, altrimenti è palpabile poco più del gas di scarico di un’auto.

Mia figlia ha il mio stesso approccio ossessivo alla musica, forse non è bello ma cosa ci volete fare. Nel giro di qualche mese è andata poco più che in giornata a Viareggio a vedere Lana Del Rey, a Monaco di Baviera per il concerto di The Weekend (“papà all’Ippodromo di San Siro c’è un’acustica pessima e poi c’è troppa polvere”), nei dintorni di Firenze per un happening di techno che è durato dodici e ore e a Napoli per vedere Liberato in piazza del Plebiscito. È partita di notte con un Flixbus da Milano, si è ricongiunta all’arrivo la mattina dopo con alcuni ex compagni di liceo che erano già lì, ha visto il concerto la sera, ha dormito da un’amica e la mattina dopo è rientrata in treno. Mi ha condiviso un po’ di foto e di video che mi hanno confermato che, per me, la stagione dei concerti è finita. Un mare di smartphone puntati verso il palco a riprendere pezzi di esperienze a cazzo che poi nessuno rivedrà mai più, come le letterine per la festa del papà o i lavoretti di pasqua e tutte quelle cose che si preparano a scuola e che nessuno ha ancora capito che fine facciano.

la rivincita del senso figurato

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Pensate se un giorno all’improvviso si avverassero tutti i modi di dire, per un sortilegio o magari perché ti svegli la mattina e ti trovi in un episodio di “Ai confini della realtà”, o “Black Mirror” se siete giovani d’oggi. Mandi affanculo qualcuno e costui si precipita a consumare una sessione di sodomia passiva con il primo che passa. Quelli che stanno sulle spine è perché sono adagiati su uno schieramento di istrici mentre i manipolatori offrono concreti momenti di piacere, mi accontenterei anche senza tante lusinghe. Per chi casca dalle nuvole meglio munirsi di un paracadute o, meglio, di una tuta alare, molto più di moda, mentre è difficile pagare un conto salato dal pasticciere, tantomeno che una borsa piaccia un sacco. Solo in prossimità delle Dolomiti ci si può lamentare della montagna di cose da fare in ufficio, e, per rimanere in tema, un cuore di pietra solo se si è membri dei Fantastici 4. Una lavata di capo te la può fare solo un parrucchiere incavolato, mentre se hai bisogno di supporto psicologico puoi rivolgerti a unobravo.

il budino senza la carne

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Another Brick In The Wall è un po’ l’Attimo Fuggente della musica, un prodotto culturale pensato per scardinare i paradigmi della scuola borghese e gentiliana in favore di una didattica più moderna e inclusiva, per non dire meno bacchettona. Sarà per questo che il contact center telefonico dell’azienda tutta italiana (è bene specificarlo per allinearsi alla narrazione meloniana del nostro paese) che produce uno dei servizi di registro elettronico e scuola digitale più diffuso in Italia – di certo il meno caro e di sicuro quello sviluppato peggio – lo ha impostato come musichetta di attesa.

Se frequentate le segreterie scolastiche in questo periodo vi capiterà di sentire Another Brick In The Wall come sottofondo musicale agli sfoghi di rabbia, agli screzi, agli improperi e agli sbotti isterici del personale amministrativo spesso sottodimensionato che, in una manciata di giorni, si fa in quattro per rimettere in moto una delle macchine organizzative più complesse del mondo e che, a fronte di funzionalità dimenticate o bug nativi dei programmi utilizzati, necessita di supporto. Non c’è tempo per smanettare o andare per tentativi. Questo induce all’assistenza che, sotto il tiro simultaneo di migliaia di scuole, lascia in attesa senza tanti complimenti il personale bisognoso e Another Brick In The Wall, trasmesso in viva voce, va avanti per ore. Il perché della scelta di questo brano non ve lo sto nemmeno a dire. Il mondo va così: si parla di vittorie e mettiamo “We Are The Champions”, si parla di finanza e mettiamo “Money”, si parla di scuola e mettiamo “Another Brick In The Wall”.

Il punto è che i servizi di centralino spesso non prevedono la possibilità di impostare un brano musicale dall’inizio alla fine, e l’edit a cui siamo esposti, focalizzato sui versi più significativi del celebre concept dei Pink Floyd – non abbiamo bisogno di istruzione! Hei, maestro, lascia in pace i bambini! – ci sottrae a uno dei soli di chitarra più riconoscibili del mondo, restituendo un’esperienza parziale di ascolto attraverso un loop che non rende giustizia alla sua portata dirompente. La musichetta di attesa arriva a un punto, poco dopo il primo ritornello, e poi riparte da capo, “We don’t need no education” eccetera eccetera, con una vocina beffarda che avvisa che sarai il prossimo a essere servito secondo però una cognizione del tempo ampiamente arbitraria.

La qualità della vita della prima settimana di scuola dopo i cinque mesi di vacanza di cui beneficiamo potrebbe essere quindi soggetta a una maggiore cura, e non mi riferisco solo all’effetto audio da scatoletta dei telefoni fissi di una segreteria di una scuola nell’Italia meloniana. Gli uffici sono rigorosamente privi dell’aria condizionata, alla faccia della ripresa e della resilienza, e i docenti che danno una mano ai pochi amministrativi sopravvissuti alle nomine ancora da fare e ai colleghi che si danno malati per evitare l’onda d’urto dei primi giorni si spartiscono pizze consegnate a domicilio nel cartone unto (la mia rigorosamente salsiccia e friarielli) e lattine mignon di bevande gassate acquistate a pochi centesimi al distributore in sala docenti. Il tutto a scapito della didattica: configurare le piattaforme digitali, sistemare i danni che i precedenti impiegati hanno procurato prima di beneficiare del trasferimento a Pozzuoli o altri borghi meloniani del sud che ci invidia tutto il mondo, spostare monumentali armadi stipati di materiale obsoleto e aggiornare firmware a dispositivi digitali sottrae energie al nostro core business, che è l’educazione dei vostri figli.

Nonostante questo, il nostro continua a essere il lavoro più bello del mondo e, anzi, la varietà di attività – dai metodi innovativi per l’insegnamento della matematica alla sostituzione dei toner – lo rende ogni anno sempre più avvincente. Non dovreste infatti mai perdere di vista il fattore umano, della scuola. Il mio collega di sostegno che comunica in calabrese ai genitori cinesi del mio alunno ACD è stato assegnato ad altre vittime, quest’anno, ed è una bella notizia. Mi sono fatto fidelizzare dal parrucchiere che ha la bottega proprio di fronte alla primaria in cui sono in servizio, mi ha già tagliato i capelli tre volte, e mi capita spesso di incrociarlo, in questi giorni di preparazione, quando esco pezzato dal cancello della scuola per rientrare a casa. La mia è una scuola di paese, con la p minuscola ma comunque sempre nell’accezione meloniana, anzi di frazione di paese, che forse è ancora più meloniano. Se incontro qualcuno nei paraggi sorrido e saluto sempre perché è facile che abbiano figli o nipoti che studiano da me. Ieri mi sono imbattuto in una donna musulmana tutta imbacuccata con due figlie al seguito. La più grande mi ha sorriso, piena di riccioli e di vitalità, probabilmente mi ha riconosciuto ma io no, mica posso ricordarmi tutte le facce, e di rimando – per non sbagliare – ho ricambiato. La mamma si è voltata dall’altra parte, coprendosi immediatamente il viso con il velo, forse fraintendendo il mio interessamento.

per giove

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Ho preso in biblioteca un dizionario della mitologia e dell’antichità classica ma non è proprio quello che cercavo. Avevo un bellissimo libro di epica alle medie che riportava nomi e avvenimenti ma in ordine di successione, sempre che sia possibile trattare la materia così. Il risultato era una vera e propria storia romanzata dell’immaginazione di greci e romani, con il valore aggiunto di testi letterari, come è facile immaginare. Invece l’ordine alfabetico viene in aiuto solo durante le parole crociate o poco più, ma un testo come piace a me non saprei come cercarlo. Tutto questo perché al bookstore del museo archeologico di Napoli ho notato un volume dal titolo “Infografica della Roma antica” il cui contenuto mi ha intrigato moltissimo. Ho ideato decine di infografiche nel lavoro che svolgevo prima ed è una passione che coltivo ancora a differenza della mitologia che adoro ma di cui, ormai, ricordo ben poco.

le dieci cose migliori da fare a partire da dopodomani

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Se ne riparla a settembre? Bene, allora tenetevi pronti perché è iniziato il conto alla rovescia. Il collegio docenti, che è il nostro vero e proprio kick off, quest’anno capita di lunedì 4 e, credetemi, non c’è inizio migliore di un inizio procrastinato, soprattutto in un ambiente come la scuola in cui si procrastina qualunque cosa. Se qualcuno dei vostri dirigenti l’ha piazzato venerdì 1 è chiaro che non gli hanno voluto bene da piccolo e, di conseguenza, non vuole certo bene a voi. La brutta novità, quest’anno, è che mi hanno proposto anche un accesso admin al registro elettronico, e chi sono io per dire di no. Ho ricevuto anche la richiesta di consultare l’oracolo di ChatGPT per tentare la divinazione dell’orario della secondaria. Ho interpellato un esperto che ha tenuto un corso di formazione a cui ho partecipato qualche giorno fa e l’ha messa giù facile. Compila un foglio Google con tutti i dati e prova a darglielo in pasto, mi ha suggerito. Ma c’è una novità ancora peggiore. Mi trovo in mezzo a riunioni organizzative in cui capisco sempre meno. Probabilmente è l’età o forse ho lasciato il cervello in macchina sotto il sole e c’è più poco da fare. In più rientra una collega amministrativa molto molto stressata che, quando va nel panico, quindi piuttosto spesso, mi chiama per chiedermi come fare ma parla solo lei e non riesco mai a fermarla per darle le risposte che potrebbero tranquillizzarla. Chiudo questa veloce lista di cose negative con quello a cui mi piacerebbe dedicarmi quest’anno, a partire quindi da lunedì, e che, come sempre, non inizierò nemmeno, smetterò alla seconda volta, rinuncerò alla terza, mi dimenticherò, rimanderò a più avanti tanto, ormai, se ne riparla dopo natale:

  • registrare e pubblicare tanti podcast
  • fare il DJ in qualche circolo di anziani
  • leggere tanto
  • andare a correre in posti diversi anziché farlo sempre sotto casa per la pigrizia di non prendere l’auto e non impestarla sudato come un maiale per tornare a casa a corsa finita
  • andare più spesso a teatro
  • andare più spesso al cinema
  • sperimentare di più in classe

Tenete d’occhio la lista perché sarà in costante aggiornamento.

in toto

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Nel frattempo ho capito due cose. La prima è che i lavori del 110 si chiamano così perché ci mettono 110 mesi per completarli. La seconda è che l’usanza di postare qualcosa inserendo il link nel primo commento su Facebook e specificando l’intenzione nel post principale non serve a nulla se non a far perdere tempo agli utenti. In realtà ce ne sarebbe una terza, la scrivo di seguito senza correggere il numero su perché fa troppo caldo: fa troppo caldo e non si finisce mai di sudare, questo dimostra l’elevata percentuale di acqua di cui è composto il nostro organismo, quindi il numero che spariamo per impressionare i nostri alunni non fa una grinza. Nella settimana che si avvia alla conclusione, e che verosimilmente decreta la fine di tutte le vacanze e delle vacanze di tutti, ho già ricevuto tre mail della mia dirigente, due di colleghi e altrettante dalla segreteria. Lunedì possiamo dare inizio ufficialmente alle danze. Parteciperò a una specie di meeting dedicato all’intelligenza artificiale per scopi didattici. Non vorrei sembrarvi il solito detrattore, ma tutte le cose che ho provato sull’impatto di ChatGPT , Dall-E e compagnia bella nella scuola non promettono niente di buono. Il punto è che in uno scenario in cui si fatica a usare Excel – uno strumento che risolverebbe almeno i tre quarti dei problemi organizzativi della scuola italiana – l’inserimento di una tecnologia di prossima generazione manderà un intero sistema in tilt. Anch’io mi sto dedicando alle creazioni artistiche sfruttando questa tecnologia. Quella che vedete qui sopra è “Toto Cutugno ma di spalle”. Quella che segue è una di quelle che preferisco e si intitola “una rock band che suona strumenti preistorici impugnati al contrario”.

incustodito

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I miei genitori ed io abbiamo condiviso lo stesso approccio cialtronesco alla musica suonata, che consiste nel fatto che nessuno dei tre è mai stato in grado di eseguire al piano un pezzo per intero, dall’inizio alla fine. Un approccio per cui al massimo ci riusciamo ma in svariati tentativi. Ci fermiamo e riprendiamo dal passaggio in cui ci siamo sbagliati, o che è venuto male – di solito ce n’è più di uno nello stesso brano – e molto spesso, per evitare di giungere penosamente alla fine, ricorriamo al primo modo che ci viene in mente per sottrarci all’esecuzione completa, sia in presenza di terzi – che è decisamente più facile, una scusa la si trova sempre senza grossi problemi – che da soli al cospetto della propria coscienza, operazione molto più complessa perché ci mette di fronte al fatto, ancora una volta, che siamo dei buoni a nulla davanti allo strumento, che non siamo stati costanti nello studio, che abbiamo buttato via degli anni, che la musica (classica, principalmente) non è alla nostra portata, insomma che siamo dei cazzoni. Io più di tutti, sia chiaro. Credo peraltro sia un’ottima metafora di qualcosa, ma è meglio evitare.

Comunque il paradosso è che dei tre mia mamma, che ha studiato solo qualche anno quando era bambina e si è dedicata – vittima del patriarcato – alla pratica pianistica molto di meno di mio papà e di me, era quella che ci andava più vicino. Sapeva suonare a memoria un solo pezzo – la struggente aria de “Le petit montagnard” di Francesco Paolo Frontini che, ogni volta che la sento nella pubblicità per la quale è stata scelta come jingle, mi viene da piangere – ma di riffa o di raffa lo trascinava fino all’ultima misura.

Io di brani ne sapevo tanti, tutti quelli che preparavo a fatica per il quinto di pianoforte mai sostenuto, ma sono certo di non essere mai riuscito in vita mia a suonarne uno senza interruzione e senza errori, e sempre rigorosamente con lo spartito aperto davanti.

Mio papà, invece, aveva un’ossessione per la celeberrima sonata per pianoforte n. 14 in Do diesis minore, più comunemente nota come “Sonata al Chiaro di Luna”, del Ludovico Van. Dopo cena, mentre in sala andavano in onda i programmi tv della fascia preserale, si piazzava al piano nella mia cameretta e, con la sordina premuta, ci provava con costanza, come una sorta di digestivo. E, malgrado le migliaia di dischi stipati nella sua collezione, c’era sempre la copertina di una registrazione del “Chiaro di Luna” in giro che indicava che o nel piatto o nel lettore cd aveva ascoltato da poco la sua musica preferita, quella che non sarebbe mai riuscito a imparare del tutto. Non abitavamo più insieme, ma non faccio fatica a immaginare che, travolto dalla demenza senile degli ultimi anni e dall’accelerata dell’Alzheimer che ha messo fine alla sua vita, chiedesse a mia mamma di ascoltare il “Chiaro di Luna” a ripetizione, come fanno gli anziani quando tornano bambini.

Poi è morto, sono già nove anni, e il suo impianto hi-fi è rimasto pressoché inutilizzato a casa dei miei da allora. La scorsa primavera ne ho cannibalizzato una parte perché l’ampli e il lettore cd del mio hanno iniziato a dare problemi, dopo aver ottenuto da mia mamma il permesso di servirmene. Una volta rientrato a casa mia ho allestito tutto. Ho provato un vinile prima, per verificare di aver collegato per bene i cavi e la terra, e poi sono passato lettore CD. Ho aperto il cassettino e dentro era rimasto un disco. Ho schiacciato play e indovinate che brano è partito.

mercurio

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L’effetto del vapore che sale dall’asfalto quando le temperature sono insopportabili ha un nome che non ricordo più. I vecchi da noi non sono adatti al caldo che fa e se fossero un po’ più giovani e un po’ più ricchi farebbero armi e bagagli e raggiungerebbero i paesi del nord dove vanno i detrattori dell’estate più recidivi, quelli che la menano con l’Irlanda e restano candidi per scelta, per intenderci. La narrazione dell’attuale governo impone però l’Italia a tutti i costi, con le sue bellezze, il suo cibo, i suoi litorali a pagamento e i suoi borghi tutti uguali. Persino i cani randagi non si vedono più, vittime della sostituzione etnica ordita da cinghiali, orsi e lupi. I telegiornali sono zeppi di cronaca nera e intrisi di violenza e morte. Il dibattito politico è ridotto alle provocazioni di sempre, insomma ci siamo capiti. Sono aumentati gli sbarchi, il patriarcato è fuori controllo malgrado Barbie e la benzina è un lusso. Oggi e domani saranno i giorni peggiori, così dicono, e chi ha anticipato le ferie ed è già rientrato si morde le mani e poi lo scrive sui social. Pensavamo di averla scampata, questa volta, ma il tempo, anche nel senso del tempo che fa, è tiranno.

Alla tele passa spesso lo spot dei libri in miniatura, avete visto? Come fai a leggerli mi chiedo, il prossimo step sarà quello dei romanzi in ceramica che non si possono nemmeno aprire ma fanno la loro figura nella vetrinetta in soggiorno. Il bello di fare l’insegnante non è tanto nei cinque mesi di ferie ma nel fatto che il rientro non è niente male. Massima solidarietà a chi torna in ufficio alla mercé di colleghi, fornitori, clienti. Poche ore dopo ferragosto sono arrivate le prime e-mail della dirigente, il collegio docenti di settembre – quello che voi chiamate il kick-off ma noi lo facciamo in aule magne senza aria condizionata mentre voi a Las Vegas o chissà dove – è dietro l’angolo con tutte le sue scartoffie. Per restare in tema con la scuola, ho visitato diversi musei e siti archeologici gratuitamente anche quest’estate, grazie alla mia professione. Ti presenti in biglietteria e mostri sul telefono un PDF che potrebbe avere una qualsiasi intestazione inventata tanto quanto la firma in calce del preside e che attesta che sei un docente. Non c’è nessun controllo. Pensate che bello, invece, se fossimo provvisti di un badge con un codice a barre o un QR code che riporta un numero di matricola univoco – che poi sul cedolino esiste, questo numero – collegato a un data base nazionale a disposizione di tutte le strutture culturali al cui ingresso a zero costi abbiamo diritto. Ho visto cose bellissime ma è inutile raccontarle. Sono partito presto, quest’anno, e già in giro non si vedeva nessuno. A dirla tutta, anche oggi non c’è anima viva. L’impressione è che si stiano squagliando tutti, altrimenti non si spiegherebbe questo vuoto di persone, di parole, di pensieri e di gesti.