hotel opel

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Prima ho chiesto alla signora che abita nella Opel Insigna qui nel parcheggio dietro casa mia se preferisse occupare lei, con la sua vettura, il posto all’ombra sotto gli alberi dell’aiuola centrale. Non ho ricondotto il suo rifiuto al fatto che, in estate, lasciare una macchina alla mercé di certe piante in piena fioritura è un rischio che non tutti amano correre. Il confort dell’ombra in queste giornate dal clima surreale lascia il retrogusto appiccicoso di quel polline che concia la carrozzeria da sbattere via. Lei si era messa di sbieco ed era ferma ma col motore acceso. Ho indugiato qualche istante e poi, non vedendo reazioni, mi ci sono infilato io. Sono sceso e mi sono rivolto a lei come se non l’avessi mai notata cenare con junk food e dormire in auto, da un mese a questa parte. Ogni tanto scende a fumare una sigaretta con grande dignità – non sembra nemmeno vestita male – ma state sicuri che quando la macchina è ferma con i finestrini giù lei è dentro l’abitacolo, anche se non si vede. Le ho parlato come se si trattasse di un vicino di casa come tutti gli altri, facendo finta di non sapere che, a differenza degli abitanti del quartiere, non è associata a un domicilio raggiungibile da un corriere Amazon. Non è sembrata sorpresa della mia offerta, so benissimo che sa chi sono da tutte le volte in cui scendo o per correre o per mettermi al volante. Potrei avvisare la polizia locale, in modo che la segnalazione giunga ai servizi sociali. Potrei darle una mano anche se giocare a carte scoperte abbatterebbe un muro di riservatezza che non è alla mia portata. Si sposta con la sua Opel da un posto all’altro del parcheggio per sfuggire il più possibile all’afa. Capita che l’auto sia vuota, qualcuno sostiene che si rechi al lavoro e che faccia la badante, durante il giorno. Nel frattempo la temperatura sale. Le ho chiesto se volesse lei il posto all’ombra ma mi ha dato una risposta distratta, come se non l’avesse per nulla notato ma, al contrario, stesse guidando per scorgere la giusta direzione in una metropoli sconosciuta malgrado ci trovassimo tra quattro fila di posti, in quel parcheggio striminzito. Forse attende il primo stipendio per cercarsi una sistemazione stabile. Vi tengo aggiornati.

acqua

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C’è un panettiere proprio sotto casa, l’edicola è poco più avanti. Gli alti edifici sono stati costruiti in modo così ravvicinato da chi ha fondato questo borgo seguendo una logica di isola di calore al contrario. Il sole non batte mai e l’aria che si incanala lungo le vie cala di temperatura come nei corridoi freddi dei data center di ultima generazione. Ho indossato una camicia con le maniche corte che porto fuori dai calzoni. Per godere di un senso di maggiore libertà lascio volutamente aperto l’ultimo bottone. Il vento si insinua da lì sotto e l’effetto sulla pelle è formidabile. La gente si affretta, come me, a sbrigare il minimo indispensabile delle faccende in quelle indefinite ore del mattino, prima che il caldo ci sorprenda in tutta la sua intransigenza. Riecheggiano un po’ ovunque i rumori della vita che riprende all’alba. Vecchi portoni in legno che sbattono chiudendosi dietro a chi si riversa nelle strade, altri che cigolano spalancandosi dopo lo scatto della serratura, spinti da chi già rientra. Tormentoni estivi trasmessi dalle radio accese nei bar prima che l’avviamento dell’aria condizionata imponga agli esercizi di isolarsi dall’esterno. Bambini che rivendicano senza successo la necessità dei giochi da mare esposti dal tabaccaio sulla piazzetta più avanti. E poi le infradito strascicate sulla pavimentazione ancora grondante delle secchiate d’acqua dei negozianti che se ne prendono cura. Approssimandomi al fondo della via, superato l’inconfondibile odore dei banchi della pescheria già assediata dai turisti, si sente il vociare dei primi bagnanti, qualche gommone a motore che prende il largo, qualcuno che intima a qualcun altro di fare attenzione, le onde cortissime che si abbattono, con il loro ciclo eterno, sul bagnasciuga. Per abitudine faccio un veloce controllo per non dover tornare indietro. Il libro, il telefono, gli auricolari, una rivista, l’acqua, la focaccia, il telo, il portafogli. Ancora un passo e sarò investito dal sole. Un altro e sarò arrivato.

a misura duomo

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Mia moglie è così ossessionata dalle cavallette che riesce a localizzare un esemplare anche a decine di metri di distanza. Si tratta di un superpotere che si manifesta solo con le cavallette. Sarebbe bello, per dire, che ci riuscisse anche con le banconote smarrite per strada. Qualche giorno fa è riuscita a distinguere da lontano una cornacchia dalle centinaia di altre – se ne vedono a bizzeffe, qui in pianura – solo perché nel becco teneva una cavalletta e ci giocava come fanno i predatori con le prede. Le concedeva l’illusione della libertà per poi riafferrarla e sbatacchiarla in giro con quella crudeltà che solo chi è in alto nella catena alimentare può permettersi. A mia moglie capita di percepire anche le cavallette immobili che stazionano mimetizzandosi sui muri esterni dei palazzi. Il suo terrore è talmente fuori controllo che probabilmente sublima in capacità divinatoria e paranormale.

A me succede la stessa cosa ma con gli ingenui tentativi – provenienti da fonti riconducibili a tutti gli orientamenti partitici – di screditare Milano e l’operato di Beppe Sala. I casi sono due: o ce ne sono veramente tanti e non c’è tg o sito o social network che ne parli, oppure è la stessa dinamica che risveglia l’istinto di mia moglie di sopravvivenza alle cavallette e mi è impossibile evitarli.

O, meglio, è una cosa che mi fa talmente rabbia che vedo malafede ovunque. Credo sia difficile trovare, in Italia ma anche fuori da qui, una cosa che funzioni bene come Milano e i milanesi. E ve lo dice un ligure, uno che quando torna nella città di origine nel weekend non può permettersi di farsi un giretto in auto in riviera per non rischiare di rimanere imbottigliato tra i milioni di lombardi che vengono a farsi un bagno. Uno che ha trascorso un pranzo di Pasqua di qualche anno fa da solo in auto perché, in tutta Varazze, non c’era un parcheggio libero che gli consentisse di raggiungere il resto della famiglia che aveva lasciato al ristorante poco prima con le ultime parole famose: “il tempo di lasciare la macchina da qualche parte e vi raggiungo”.

Sarà una combinazione o il frutto del mio superpotere, ma ogni sera mi imbatto in improbabili reporter aggirarsi tra i clochard di via Pisani, riprese semi-occultate di risse a colpi di machete o bottiglie rotte in Stazione Centrale, video amatoriali di borseggiatrici malmenate in metropolitana, parchetti adibiti a supermarket di droghe di ogni tipo. Per non parlare delle lamentele sulle piste ciclabili che sottraggono parcheggi alle vie dello shopping, sui prezzi delle case private e dell’incuria dei quartieri popolari, sulla gentrificazione delle periferie, sulla movida, sull’attitudine ingiustificata alla grandeur, sul rebranding dei quartieri a partire dai nomignoli che qualche esperto di marketing applicato all’urbanistica ha coniato. Poco fa ho letto addirittura che Tortu va più veloce dei treni della linea rossa. Un gioco il cui obiettivo è facilmente smascherabile: i fratellisti d’italia e i leghisti rosicano per un modello organizzativo che ci invidiano in tutto il mondo e che loro sono solo capaci di mettere in pratica con le ronde nazi-padane e a cucchiaiate di olio di ricino. E, dalla parte opposta, non va giù il fatto che a sinistra possa affermarsi un sistema che coniuga, in modo efficace, sostenibilità e imprenditoria. Non so in quale città italiana abitino, tutti questi detrattori. Non so in quale posto più pulito, più civile, più ricco di servizi, più curato e più organizzato vivano, e sono contento per loro. Perché per me, che vengo dal terzo mondo, Milano resta tutt’ora una meraviglia, grazie anche alla gestione di Sala. Qui ho costruito la mia famiglia, qui ho avuto opportunità professionali, qui spero di invecchiare serenamente.

maltempo

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Io sono fatto così. Appena sveglio clicco sulla lente di ingrandimento e, alla voce documenti, avvio la ricerca di una preoccupazione che mi sovrasti. La trovo e, come si fa con i croissant surgelati nel microonde, la tengo al caldo durante le operazioni di routine – la doccia, la barba, la colazione – in modo da assaporarne la fragranza quando salgo in macchina per andare al lavoro. Per fortuna si tratta di piccole cose. Devo chiamare Tizio, devo rispondere alla mail di Caio, mi tocca sollecitare Sempronio e via così. E quando non individuo nulla o la preoccupazione, nella sua fase di scongelamento, si è sgonfiata rivelando la sua inconsistenza – diamine, ero sicuro di averle prese ripiene al cioccolato – seguo le ramificazioni di qualche nota che mi sono appuntato per le giornate in cui il palinsesto di ansie è vuoto. Martedì scorso però qualcosa è cambiato e i più superstiziosi di voi penseranno che me la sono tirata o che c’entra qualcosa o il karma perché, al risveglio, ho trovato un bel po’ d’acqua sul pavimento del salotto. Durante la notte c’era stato un discreto temporale con piogge torrenziali. In più, il mio condominio è nel pieno dei lavori di ristrutturazione – il famoso 110% – e con un tempismo perfetto si trova al massimo della vulnerabilità per alcuni interventi strutturali. Al quarto piano ci sono state vistose infiltrazioni, e così, una volta accertato che per fortuna non avevo subito danni agli arredi, mi sono guardato un po’ in giro per rintracciare sui muri l’origine della perdita senza trovare alcunché. Ho pensato immediatamente alle immagini delle vittime delle alluvioni che passano al TG ogni autunno da quando il clima, in Italia, è radicalmente cambiato mostrando l’inadeguatezza del nostro territorio alle conseguenze del surriscaldamento del pianeta. Gente che, munita di secchi, stracci e badili, svuota i propri ambienti sommersi dai fiumi esondati. Il mio umore, in verità, non è più lo stesso da quando il palazzo in cui si trova il mio appartamento è oggetto dei lavori di riqualificazione energetica. Quando mi appresto a rientrare lo vedo sventrato, infermo, quasi privato della sua anima, e credo che qualunque specie animale provi lo stesso sgomento osservando la propria tana violata. Sono molto affezionato alla casa che ho acquistato insieme a mia moglie perché da vent’anni mi offre riparo. Non credo che me ne andrò mai, che mi sposterò in centro come piacerebbe a mia figlia per poter vivere più in prossimità dei suoi amici, che un giorno cercherò qualcosa di più piccolo o di più grande. Dopo aver asciugato la pozza che si era inspiegabilmente formata tra divano e libreria senza però bagnare nulla – forse nella notte si è allagato il balcone ed è entrata dell’acqua dalla porta finestra, non saprei dare altre spiegazioni – mi sono recato come sempre al lavoro, consapevole di ciò su cui avrei riflettuto ascoltando la radio, lungo il tragitto. È stato sufficiente adocchiare i manifesti elettorali al primo semaforo, lungo il percorso, per ottenere una rielaborazione della scala delle priorità. È subentrata, infatti, una preoccupazione ancora più grande della casa in cui vivo, esposta a rischio allagamento. Quella di appartenere a uno stato e a un tempo guidato da una premier e da una maggioranza post fascisti. Il mio pensiero è andato immediatamente al regime, alla guerra, agli appartamenti delle persone come me bombardati e alle peggiori condizioni di vita che mai avrei pensato si potessero verificare.

amaro

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Un collega della secondaria ha confessato di seguirmi su Instagram e di aver riconosciuto tra le mie recenti foto il paesino natio di suo nonno, scenario di indimenticabili estati di quando era bambino e destinazione iniziale delle mie ultime vacanze. Ho cercato così di riassumergli il viaggio itinerante di agosto ma mi sono visto costretto a fermarmi al primo bed&breakfast e, a questo giro, senza nemmeno poter prenotare una camera. Il blocco pensavo fosse dovuto in parte alla difficoltà dei nomi di certi borghi lucani, però poi mi sono ricordato delle stranezze della toponomastica lombarda e di quanta ilarità mi inducessero, quando ero ancora un giovanissimo cittadino ligure, certe forzature geografiche del calibro di Paderno Dugnano o, peggio, Bulgarograsso. Ne deduco che riusciamo, anzi, parlo per me, riesco a conservare in memoria stranezze linguistiche facilmente individuabili nelle query mentali perché indubbiamente originali ma solo se archiviate da ragazzo. I nomi bizzarri dei posti visitati quest’estate e di quelle degli ultimi dieci anni, senza la consultazione di una mappa stradale, mi mettono in forte difficoltà. Non ditelo ai miei alunni. La paternale con cui li gravo l’ultimo giorno di scuola è di rientrare a settembre con gli occhi pieni di cose belle viste in vacanza e la testa in grado di completare con efficaci didascalie i racconti del primo giorno di ripresa. Mi viene la tentazione, mentre scrivo, di consultare Google e farvi un bel resoconto di viaggio ma non mi sembra corretto nei loro confronti.

Per i nomi, mi limito a Venosa, Pietrapertosa (la desinenza comune aiuta) e Muro Lucano, ma ne mancano almeno una ventina. Per la gente è più facile: posso associare ogni borgo della Basilicata visitato a una persona incredibile conosciuta al momento, sul posto. Anziani al bar, guide turistiche, proprietari di strutture ricettive, artigiani, emigrati ritornati in Italia dopo il Covid, ex sindaci eletti da meno di cento residenti, salumieri, ciascuno con una storia fuori dal comune da raccontare. E poi la cornice, a dir poco straordinaria. Si fa presto a trovare la bellezza nei luoghi più semplici da raggiungere. Vi sfido quindi a scovarli, questi ammassi di case arroccate sulla cima di rocce impervie in cui ho soggiornato quest’estate, dopo strenue lotte con Maps che mi ha indicato strade che voi umani non potete nemmeno immaginare e che fanno capire che, davvero, Cristo si è fermato a Eboli anche solo per fare benzina, considerato il rischio di rimanere a secco – vista la totale assenza di infrastrutture – che nell’interno della Lucania non è così remoto, a differenza di quei paesi lì.

in quota

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Mi trovo all’aeroporto e vedo tutti altissimi. Se qualcuno si prendesse la briga di rilevare la statura media della gente il dato sarebbe sorprendente, a occhio supererebbe il metro e ottantacinque. Gente altissima di tutte le età, di tutti i generi e di tutte le tipologie di persone. Un giovane punk-metallaro con i capelli mossi medio lunghi, un look che sembra uscito dall’ultima stagione di Stranger Things, indossa un collare da cane con le borchie al collo e si è fatto tatuare – come una specie di trompe-l’oeil – del sangue che esce dalle ferite provocate dagli spuntoni. Mi passa davanti e mi sovrasta di due spanne. Al tavolino del bar c’è una famiglia di afroamericani con le treccine, sarà un pregiudizio ma danno l’idea di essere tutti giocatori di pallacanestro. C’è anche un enorme autista che parla al telefono mentre attende qualche uomo d’affari con un tablet in mano con su scritto il suo cognome e un omone tedesco vestito in un modo che in Italia nessuno si vestirebbe così e che è il più alto di tutti, almeno due metri e dieci. Poi in ordine di altezza c’è un altro papà che, come me, attende il ritorno della figlia da New York ma credo sia più giovane della mia perché nasconde dietro la schiena, oltre all’immancabile borsello, una di quelle confezioni giganti di Chupa Chups fatte a forma di Chupa Chups che vendono solo negli Autogrill. Gente normale desiderosa di riabbracciare i propri congiunti, tutti delle pertiche mai viste. Persino le suore sono fuori media. Io sono uno e ottantasei e quando ero alle superiori ero il terzo più alto della classe. Oggi, qui a Linate, mi sento piccolissimo ma forse è perché, nella fretta, stamattina ho dimenticato di prendere la pastiglia della pressione. Vorrei chiamare a casa e avvisare che ho le traveggole o che forse ho un attacco di panico incrociato con una di quelle fobie che ti mettono ko quando ti trovi al cospetto di un’opera di eccelso valore artistico oppure una costruzione gigantesca. Non stavo così male da quando mi sono trovato su un gozzo al largo della Tavolara a pochi metri da una nave da crociera. Anche la TV è proporzionata a questo standard, non so quanti pollici di risoluzione possa vantare ma di sicuro in casa mia occuperebbe l’intera parete del salotto. Si vede nitidamente anche dal fondo del settore degli arrivi. Non ci crederete ma è sintonizzata su un canale mai sentito che si chiama Telesia e sta trasmettendo l’oroscopo. Mi viene da controllare che sia davvero il 2022 e non il medioevo. Poi comincia un notiziario approssimativo spacciato per notizie flash che ci ricorda che si stanno avvicinando le elezioni più pericolose della nostra storia, così comprendo che il fatto di sentirmi così è sicuramente dovuto a quello.

milano

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Cascina Merlata è un quartiere decisamente suggestivo. Ricorda uno di quei rendering che gli studi fighi di architettura pubblicano sui social e sulla cartellonistica presso gli uffici vendita per commercializzare i loro progetti, con gli omini finti che stanziano negli spazi comuni. Tra aspettative e realtà c’è spesso un margine di differenza dovuto a svariati fattori ambientali che condizionano poi la fase costruttiva e l’effettivo utilizzo dei complessi. In questo caso, invece, il risultato – in quanto a virtualità – è addirittura superiore alla più realistica delle anteprime digitali. Ho già sentito più persone definirla scherzosamente Hong Kong e non vi biasimo. L’alternanza di grattacieli progettati con tutti i crismi in chiave green a spazi verdi per la socialità ricorda i paesaggi di certi quartieri dormitorio delle megalopoli orientali, quelle che abbiamo visto deserte nei servizi dei tg a ridosso dell’esplosione della pandemia. La fredda perfezione degli agglomerati urbani ecosostenibili trasmette infatti una modernità priva di anima. Manca infatti ancora la componente umana che poi dovrebbe funzionare da collante tra l’ambiente come è stato pensato sulla carta (anzi, sul modello BIM) e la quotidianità.

Transito nei pressi del nuovo quartiere di Cascina Merlata ogni giorno in auto per andare a scuola, anche se lo attraverso da sotto, e l’effetto della skyline multicolore prima di inabissarmi nella galleria sotto la rotonda non è per niente male. Poi ho trascorso una serata al Mare Culturale Urbano, qualche giorno fa – abbiamo festeggiato il 92 di mia figlia alla maturità classica – e ho avuto la conferma di tutte le emozioni che il posto mi ha suscitato a distanza. C’era davvero un sacco di gente a cena, famiglie e comitive con pargoli al seguito che consumavano la pizza d’asporto sulle panchine del parco e giovani che approfittavano della vasta offerta di birre, il tutto con il contrasto che ci si aspetta in un sobborgo due punto zero di periferia, ovvero le strade intorno – ancora in fase di cantiere – deserte.

Ho parcheggiato su un ampio marciapiede in prossimità di un edificio in costruzione e, in risposta, ho trovato un volantino di un comitato di quartiere sul parabrezza in cui venivo giustamente redarguito circa lo scarso senso civico del gesto. A Milano è la (pessima) norma. Per questo ho apprezzato l’iniziativa. Ho immaginato la ronda di proprietari dei nuovi appartamenti che, con l’obiettivo di prevenire abitudini selvagge in una zona che si prospetta ad altissima densità abitativa e di fruizione nel prossimo futuro, scoraggia in partenza gli analoghi fenomeni di degrado urbano provocati dal popolo degli apericena che già hanno reso infernale la vita del centro e delle altre zone afflitte dalla gentrificazione. Chiamatela come volete, ma a me la delocalizzazione del divertimento di massa mi sembra tutto sommato un modello vincente per abbattere la pressione in centro. Fatevi un giro in zona Bicocca. Nonostante l’università e gli uffici, è un mortorio. Cascina Merlata è altrettanto periferica e il rischio di dimenticarsene è reale. La differenza è che è stata oggetto di pianificazione più attenta (e più attuale) e per mantenere un equilibrio tra vivacità e movida le iniziative di prevenzione possono risultare efficaci.

La sera successiva ho partecipato a uno spettacolo di “Estate al Castello” e, al termine della formidabile pièce di Corrado d’Elia su Beethoven, ho avuto l’opportunità di valutare l’esperienza di Cascina Merlata mettendola in confronto con il centro, i milanesi doc, i turisti e tutto il resto. Ogni metropoli è fatta così, con parti che non si somigliano tra loro e quartieri nuovi di pacca che invece sembrano tali e quali a zone che abbiamo fotografato in altre città in Europa e nel mondo. Territori di mezzo che fanno da tramite ad altre aree inglobate nei comuni del circondario per poi assottigliarsi per confondersi con un centro diverso. Piccoli paesi che ingenuamente rivendicano una loro identità ma dei quali ormai, già oggi, resta quasi nulla, impigliati senza ritorno nella tela della metropoli che segue il suo corso naturale. Tutti aspetti che, però, rendono Milano ancora più affascinante. Io, da qui, spero di non andarmene mai più. E, se avessi saputo, sarei arrivato prima.

l’assedio

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Peggio di un trasloco c’è solo la combinazione estate più calda di sempre più lavori del 110%. Dal balcone di casa mia osservo avanzare inesorabilmente i ponteggi che, nel giro di due giorni, raggiungeranno il mio piano, lo fagociteranno e lo oltrepasseranno sino a ricoprire l’intera superficie esterna del condominio in cui si trova il mio appartamento come in un film dell’orrore, anche se potrebbero sembrare di più le riprese dell’assedio di un castello dell’antichità.

Un’installazione che, una volta impacchettata con i teli anti-polvere, anti-calcinacci e anti-tutto, sarà degna di un’opera d’arte di Christo. Vista in quest’ottica, ci sono città che sembrano veri e propri musei outdoor di arte contemporanea, considerando il proliferare dei cantieri. Ho un amico architetto, per il quale il superbonus è più che una manna dal cielo, che mi ha fatto riflettere sull’iniziativa da un punto di vista a cui non ero arrivato, da solo. Sostiene che, malgrado possano apparire come opere unicamente a vantaggio dei proprietari di immobili, in realtà le riqualificazioni dei condomini privati sono a beneficio di tutti. Dei risparmi energetici che consentiranno ne raccoglierà i frutti l’intera collettività e, soprattutto, i nostri figli. E lo so, fa un po’ ridere ma ve la riporto as is.

Il fatto è che se vivete dentro a una di queste performance edilizie sono certo che, come me, avrete la sensazione di trovarvi in un cerchio dantesco. I lavori del 110% nell’estate più calda di sempre significa smantellare i condizionatori e tapparsi in casa. Chi pratica il telelavoro scoprirà che trapani e martelli non rendono certo smart l’esperienza di produttività domestica e si precipiterà a gambe levate ad affrontare i ritardi dei mezzi per raggiungere a tutta birra l’ufficio.

Il balcone, che in estate è la zona di casa mia più frequentata, a breve sarà impraticabile. Abbiamo già sgomberato le piante e il tavolo su cui pasteggiamo nella speranza di trovare un po’ di ristoro dall’afa. La lettiera della gatta è tornata dentro e la libertà di girare conciati come si vuole o nudi per casa ora è fortemente limitata dal continuo passaggio dei carpentieri.

Ma ci sono conseguenze molto più serie. Gli interventi cosiddetti trainati ci costringeranno a disallestire intere pareti per permettere la realizzazione di tracce e impianti, a partire dal muro del salotto su cui poggia il mobile – il mio regno – che contiene l’impianto stereo e la mia collezione di ellepì. Questo significa che, a valle di tutto, ci sarà un terzo tempo in cui saremo costretti a pulire casa da cima a fondo e tinteggiare i vani.

Per questo vorrei chiudere gli occhi e svegliarmi tra sei mesi, quando si prevede che sarà tutto finito. Io, vi confesso, non mi sarei mai imbarcato in un’impresa di così vasta entità. Passo moltissimo tempo in casa e non poterne usufruire mi comporta un disagio senza confronti. Non so davvero che pesci pigliare. Vedere una delle cose a cui tengo di più oggetto di una ristrutturazione che la debiliterà per così tanto tempo (e che sono certo ne migliorerà il valore ma a quale prezzo) mi fa star male.

alla spina

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«Era meglio se le riempivi di birra», mi ha detto quello del terzo piano. Ci siamo incrociati sotto casa. Io avevo appena fatto il pieno alla casa dell’acqua, due cestelli per dodici bottiglie in tutto, metà frizzante e metà naturale. Con questo caldo, la scorta sufficiente per nemmeno un paio di giorni. Lui non lo so dove fosse diretto ma tanto lo incontro sempre, ogni volta che scendo. Tutti lo incontrano sempre qui intorno, e non sono l’unico che ha smesso di parlare di coincidenze – tenete conto che, malgrado abbia pochi anni più di me, è già in pensione da un po’. E il fatto che sia stato arrestato per essersi messo a sparare con il fucile ad aria compressa in mutande sul balcone della cucina può anche non essere un caso.

Al mio dirimpettaio, quello del terzo piano stava poco simpatico anche prima di quella specie di mix tra una versione cosplay delle stragi USA e del trailer di Gomorra. Mi aveva mandato il link a un video contenuto in un articolo di un quotidiano locale, una di quelle testate su cui scrivono laureati in comunicazione o in lettere pagati a confezioni di patatine e cornetti industriali. In quel minuto scarso di riprese amatoriali così mosse da mettere alla prova anche lo stomaco di un appassionato di rafting l’ho visto anch’io, in piedi tra i convenuti, annuire con il mento al comizio di un pezzo grosso della Lega in occasione della chiusura della campagna elettorale delle ultime comunali. A onor del vero c’erano altre persone riconoscibilissime, a partire da due compagne delle medie di mia figlia proprio sotto il palco, due ragazze con cui, per fortuna, si sono perse di vista. Ma quello del terzo piano era fin troppo evidente, alto com’è, a sovrastare il resto della folla nel centro della piazzetta.

Chi è stato intervistato dopo il suo arresto (prima di essere portato via si era messo un paio di bermuda con i tasconi), però, non ha potuto far altro che testimoniare di non aver mai notato comportamenti sospetti e che, come dicono i testimoni della cronaca nera nei servizi dei veri telegiornali, salutava sempre. Nessuno ha raccontato di come riuscisse a rigare di nascosto le automobili di chi non gli andava a genio con la sola forza del pensiero. Ci sono prove?, chiederete voi. Eccome. Quello del terzo piano, in linea con la sua visione distorta di come funziona la vita di società, ha installato alla finestre una webcam puntata sul parcheggio condominiale per controllare il suo camper, senza avvisare nessuno ma vantandosene con tutti. Quando mi ha chiesto di sistemargli il driver del lettore DVD esterno del suo pc desktop ho dato un’occhiata all’hard disk e sono riuscito a sbirciare qualche file tra gli svariati giga di girato. In uno lo si vede chiaramente, in piedi nel parcheggio, ruotare la faccia come se avesse in bocca un pennarello e stesse scrivendo forza Milan da qualche parte, la stessa incisione che si è ritrovato il suo principale avversario del palazzo, il vecchietto del secondo piano, sulla portiera della Yaris.

Loro due hanno una storia di rivalità degna dei battibecchi tra Paperino e Anacleto Mitraglia e che risale a quando il vecchietto del secondo piano svuotava la cassetta della posta condominiale di tutti i volantini dei supermercati e lui, quello del terzo piano, tornava a riempirla con la scorta di cartaccia che conserva nel box e che riesce a spostare – dal box alla cassetta della posta – proprio grazie a questa specie di superpotere. Di questo, però non c’è traccia nei video, almeno non in quelli che sono riuscito a guardare, ma non sono l’unico a sospettare che sia opera sua.

Io poi, lo sapete, sono uno che sta alla larga dai guai e cerco di mantenere buoni rapporti con tutti. Mi ha colpito però la sua necessità di relazionarsi con persone di sesso maschile usando le solite battute trite e ritrite sulle donne: il modo in cui conducono l’automobile, i luoghi comuni sulla gestione domestica, cose così. Oppure quando torno con la spesa e mi dice di lasciargli le buste davanti alla sua porta d’ingresso. Stessa cosa quando scendo per ritirare del cibo d’asporto: che pizza mi hai preso?, mi chiede. Ripeto: sono rarissime le volte in cui non lo si incontra. Spesso lo vedi fare finta di chiamare qualcuno e usare lo smartphone come un escamotage per evitare le conversazioni. Un sistema che, se devo essere sincero, uso anch’io e che mi ha messo al riparo più di una volta da situazioni sconvenienti.

Comunque, quando mi ha fatto intendere che sarebbe stato decisamente più utile avere un distributore gratuito comunale di birra alla spina piuttosto che di acqua, non avrei mai pensato che sarebbe stato capace di un miracolo di tale entità. E anche se non si hanno prove che sia stato lui, la notizia è rimbalzata ed è stata condivisa su tutti i social a partire dalla pagina Facebook della comunità del mio paese. Una casa dell’acqua che, di colpo, si è trasformata in casa della birra, la birra del sindaco. Ci siamo precipitati in bici, io e il mio dirimpettaio. Il distributore è a poche centinaia di metri da qui. Ma quando è stato il nostro turno usciva solo della schiuma, proprio come quando nei pub il fusto è agli sgoccioli.

tutto intorno

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Milano dà il meglio di sé in estate e in quello che forse erroneamente chiamiamo hinterland, inteso come l’insieme di comuni dell’area metropolitana privi di un’identità locale in quanto nell’orbita del lavoro, delle scuole, degli ospedali e dei servizi culturali della città e che, se vogliamo usare il termine non in lingua italiana più appropriato, dovremmo tradurre con outskirt, i sobborghi. Il paradosso è proprio questo: nel posto dove vivo non c’è niente, ma mi basta spostarmi a Dergano – quartiere periferico a nord-ovest e a cinque minuti da qui – per trovare un’animata comunità e iniziative e ambienti gremiti di gente che vive al meglio il posto in cui abita. Nelle settimane che precedono il consueto esodo agostano, soprattutto nelle sere prefestive e festive, una categoria di persone a sé degna di venire immortalata con foto o scritti come questi è composta da quelli che camminano nei non-luoghi come il mio paese con la stessa noncuranza come se si trovassero a Sestri Levante, a Cervia, a Senigallia o ad Alghero. Sabato sera ho raggiunto un rinomato ristorante greco d’asporto a qualche km da casa mia e, lungo il tragitto, ho notato coppie a spasso, famiglie precedute da bimbe in monopattino, e addirittura un bar aperto su una strada anonima di quartiere dormitorio che aveva allestito un vero e proprio apericena trionfale con un buffet gremito e musica tanto quanto i locali del centro. Mi piace questa reazione allo stare in casa a vedere la nuova stagione di Stranger Things. Ero in auto con mia figlia e ci siamo confrontati su quella realtà ai margini dell’idea che si ha di una metropoli come Milano. A lei piacerebbe fotografare quel genere di circostanze e di umanità, e io non mi sono tirato indietro dal tentativo di spronarla per provarci.