pronto, casa Beethoven?

Standard

NO NO NO NOOOOOOOOOO, si rispondeva a questa gag intonando l’attacco della Quinta Sinfonia. Il siparietto – siamo a metà anni settanta e alla scuola che allora si chiamava ancora elementare, per darvi delle coordinate – continuava analogamente con “Pronto, casa Mozart?”, a cui l’altro confermava la simmetria nello scambio intonando il tema della Sinfonia N. 40 del compositore austriaco, a cui qualcuno aveva adattato dei versi che più o meno facevano “signorina non rompa la palle, ma consulti le pagine gialle”.


Come è facile intuire, erano i tempi dei Siemens S62 o, per i più temerari, dei Pulsar, gli apparecchi telefonici fissi domestici che servivano tutto il nucleo famigliare. L’etichetta imponeva al chiamante questa procedura:

  1. ci si accertava di aver composto correttamente il numero chiedendo se l’utenza corrispondesse al cognome
  2. quindi ci si presentava e si chiedeva di parlare con l’interessato/a.

La causa scatenante che ha permesso a questa madeleine di fare capolino nei ricordi è stata una telefonata, ricevuta ben tre volte, da un call center purtroppo non intercettato come presunto spammer dal mio smartphone. Saprete meglio di me che le chiamate commerciali possono essere classificate in quattro tipologie a seconda di cosa sentite dall’altra parte:

  1. l’operatore che chiede se siete voi appena rispondete con pronto o, come faccio io, dicendo sì;
  2. i rumori di vario genere all’altro capo della chiamata senza che qualcuno proferisca parola, segno evidente che l’importante per le aziende di call center è dimostrare la quantità di telefonate a cui qualcuno ha risposto;
  3. gli squilli di rimando che dimostrano che le telefonate agli operatori partono solo se il potenziale cliente risponde
  4. e, infine, il messaggio preregistrato, un’entità che nessuno ha mai ascoltato fino alla fine perché talmente irritante da indurre a chiudere all’istante.

La variante che circola in questi giorni, ma non saprei a quale servizio o prodotto o brand ricondurla, è una comunicazione automatica che parte alla risposta proprio con

Se vi è già capitato di riceverla, mi sapete dire cosa succede dopo?

xl

Standard

La tipa denutrita della pubblicità Borghetti che gioca a calcio balilla dice una battuta, anzi una sola parola, che poi è il brand, e la pronuncia malissimo. E se hanno scelto quel take, chissà quanti ne hanno scartati tra quelli registrati prima e, soprattutto, com’erano. Ci ho pensato all’uscita dal cinema dopo aver assistito a “Anatomia di una caduta”, uno dei migliori film di tutti i tempi per numerosi aspetti, a partire dalla bravura degli interpreti. Persino il cane recita in modo straordinario – non voglio spoilerare nulla ma la scena finale è straordinaria – ed è molto più convincente di qualunque attore italiano, anche i migliori, quelli del cinema, quelli della tv, per non parlare di quelli delle pubblicità. Per recitare così male nei consigli sugli acquisti, anche se gli unici che non cambiano canale quando trasmettono gli spot siamo solo noi studiosi di comunicazione, ci vuole davvero del talento. E quello che colpisce di lei non è solo la dizione, ma il fatto che ha il girovita largo quanto il mio polpaccio. La grassofobia, in Italia, è una delle peggiori attitudini che poi, con tutto quello che mangiamo e beviamo, fa sorridere. Anzi, il corto circuito è frustrante. Non riusciamo a resistere al cospetto di una porzione romanesca di cacio e pepe e poi trascorriamo giorni dilaniati dal senso di colpa, fino alla carbonara del fine settimana successivo. La dieta mediterranea è una disdetta. Ho un’alunna di origini senegalesi, ampiamente oltre il suo peso forma, che non ha mai usufruito della mensa scolastica prima di quest’anno. Riconducevamo la scelta dei genitori a motivi religiosi – la carne di maiale eccetera eccetera – ma ad assistere alla voracità con cui chiede i bis di tutto abbiamo compreso che, tenerla a casa a pranzo, era una forma di controllo e tutela della sua salute. Se sostenete che a scuola non si mangi bene siete in malafede. Al limite, posso darvi ragione solo per il distributore automatico dedicato a insegnanti e ATA. Costa tutto molto poco, ma la qualità è vergognosa. Dicono che in certi licei privati del centro ci siano addirittura i cesti di frutta e le macchinette per prepararsi centrifughe e spremute come nelle filiali delle multinazionali che frequentavo prima di immolarmi alla scuola. Da noi è sotto soglia anche il caffè, una brodaglia seconda solo alla bevanda al sapore di the (o di te, come biasciava Young Signorino) ma dopo il pasto della mensa è un appuntamento a cui non so resistere. Il distributore si trova al secondo piano, uno sopra la mia classe, e prima di scendere in giardino è un tappa obbligata. Alcuni dei miei alunni si mettono davanti ai dolciumi come quelle storie di una volta in cui i bambini poveri, durante i giorni di festa, trascorrevano il tempo sospirando di fronte alle vetrine delle pasticcerie. Sanno che, oltre al caffè, talvolta mi concedo anche il dessert. Quando succede, insistono perché sperano che il Kinder Bueno o gli Oreo o il Kit Kat al caramello salato, dopo la selezione, restino incastrati negli ingranaggi. Quando succede, infatti, scuoto con forza il distributore per far cadere lo snack e, siccome il costo del prodotto non viene accreditato nella chiavetta in caso di mancata erogazione, ne prendo un secondo. Avrete capito che, a botte di junk food, la larghezza dei miei fianchi è di almeno tre volte la tipa del Borghetti, ma chi se ne importa, ho quasi sessant’anni. Metto i bambini in fila, soffio sul caffè, scarto la prima delle due merendine con cui concluderò il pranzo, e come se vivessi in una pubblicità televisiva, quelle con i maestri fighi e magri, mi avvio in giardino con il codazzo di discepoli, orgoglioso del pessimo esempio mostrato.

la bandiera del mondo

Standard

Il modo da divano più efficace per schierarsi tra l’una o l’altra fazione delle svariate guerre che funestano ormai irrimediabilmente la quotidianità è quello di sfoggiare la bandiera del cuore (Ucraina o Russia, Palestina o Israele) a corredo del proprio profilo social. Un vero e proprio biglietto da visita pensato affinché i beniamini della parte avversa sappiano già in partenza che è meglio evitare certe discussioni e i cosiddetti leoni da tastiera non corrano il rischio di esporre sotto il fuoco amico i proprio compagni di branco. Ho letto da qualche parte qualcuno che si chiedeva quale fosse la bandiera del mondo, al netto di quella delle Nazioni Unite così tanto vituperata, l’unico vessillo in grado di superare qualunque dualismo (a meno di un’invasione aliena a seguito della quale, sono certo, ci divideremmo di nuovo).

Nell’attuale corsa ai nazionalismi e a chi ce l’ha più sovranista anche noi ci siamo scoperti primatisti europei soprattutto grazie ai meloniani e ai fratellisti d’italia che hanno gettato sul fuoco della nostra deprivazione culturale il combustibile più efficace per rinvigorire la fiamma tricolore dell’italianità. A me tutta questa agiografia del made in Italy mi dà così fastidio da rendermi invise persino le nostre nazionali di pallavolo, unico sport che suscita il mio interesse. Si è appena conclusa una per noi fortunatamente fallimentare stagione di competizioni continentali e mondiali che ho seguito a stento a causa della retorica dei commentatori televisivi. Meno male che abbiamo perso tutto quello che c’era da perdere. Non mi interessa il calcio o, peggio, il rugby, ma sono certo che, malgrado anche da quelle parti siamo scarsi come la merda, sia tutto un elogio della nostra resilienza che, a onor del vero, ha rotto ampiamente il cazzo. Io vorrei essere così tanto ricco da pagare gli organismi internazionali per abolire tutti i tipi di competizioni sportive in cui gli atleti rappresentano una bandiera, con ammende salatissime per i campioni che suggellano i loro successi circondando con un close-up tra pollici e indici a formare un cuore i colori che rappresentano. Sono certo che sarebbe già un passo in avanti. Basta haka, basta inni stonati a inizio partita, basta hooligan da una parte e dall’altra.

Un terreno altrettanto fertile per la narrazione del paese più bello del mondo è la comunicazione pubblicitaria. Il marketing italiano, approfittando della recente recrudescenza del trittico dio-patria-famiglia, ci dà dentro per propinarci i peggiori messaggi motivazionali sul posto in cui cui viviamo. Il risultato è che le centinaia di programmi televisivi sui nostri borghi più suggestivi al mondo o sulla nostra cucina migliore al mondo o sulla nostra forza lavoro più infaticabile al mondo o sul nostro genio più geniale al mondo o sulla nostra sregolatezza più sregolata al mondo sono interrotti da spot sui prodotti realizzati in Italia, paese dalla qualità suprema. Come se noi italiani non fossimo in grado di osservare, assaggiare, leggere, valutare e riflettere. Lo so, è vero, sicuramente sempre meno. E l’aspetto ridicolo è che tutti i popoli del mondo raccontano di essere i più bravi, i più belli, i più forti, i più intelligenti, alla fine anche il più idiota dei marziani si renderebbe conto che c’è qualcosa che non va. Poi, voglio dire, con quale faccia tosta ci paragoniamo a francesi, inglesi e tedeschi, tanto per citare i primi che mi vengono in mente? Ne abbiamo anche per gli svizzeri, che non so se avete mai varcato il confine.

E, a proposito, la pubblicità del cioccolato Novi ha un copy in cui le parole Italia e italiano si ripetono cinque volte in trenta secondi: “L’Italia è il paese più bello del mondo? Probabilmente si. Ma sicuramente è il paese più Novi che c’è. Perché Novi è il cioccolato che gli italiani amano. La poesia italiana del cioccolato. Il trionfo delle nocciole italiane del nocciolato. I raffinati abbinamenti di Novi nero nero. E anche chi non è italiano impara presto ad amarlo. Svizzero? No! Novi.” Che poi, voglio dire, Novi Ligure è un posto veramente di merda – attenzione a non confonderla con il cioccolato – e non è nemmeno in Liguria.

A PIEDI NUDI NEL BAGNO/2

Standard

Anche nello spot Ambipur bagno c’è una tizia che entra in bagno con le scarpe e cammina sul tappeto, proprio come la sua amica del Viakal.

la rivincita del senso figurato

Standard

Pensate se un giorno all’improvviso si avverassero tutti i modi di dire, per un sortilegio o magari perché ti svegli la mattina e ti trovi in un episodio di “Ai confini della realtà”, o “Black Mirror” se siete giovani d’oggi. Mandi affanculo qualcuno e costui si precipita a consumare una sessione di sodomia passiva con il primo che passa. Quelli che stanno sulle spine è perché sono adagiati su uno schieramento di istrici mentre i manipolatori offrono concreti momenti di piacere, mi accontenterei anche senza tante lusinghe. Per chi casca dalle nuvole meglio munirsi di un paracadute o, meglio, di una tuta alare, molto più di moda, mentre è difficile pagare un conto salato dal pasticciere, tantomeno che una borsa piaccia un sacco. Solo in prossimità delle Dolomiti ci si può lamentare della montagna di cose da fare in ufficio, e, per rimanere in tema, un cuore di pietra solo se si è membri dei Fantastici 4. Una lavata di capo te la può fare solo un parrucchiere incavolato, mentre se hai bisogno di supporto psicologico puoi rivolgerti a unobravo.

a piedi nudi nel bagno

Standard

Da ragazzino non stavo mai in casa. Ero sempre fuori e, quel poco tempo che trascorrevo in famiglia, tenevo addosso le scarpe per essere pronto a uscire di nuovo, non appena mi avesse telefonato qualcuno. Un comportamento che reputo imperdonabile e non capisco come i miei genitori non si siano mai imposti per farmi osservare quella che è la regola base della convivenza e dell’ospitalità, togliersi le scarpe prima di entrare. Riconduco questo mio atteggiamento incivile a diversi fattori, a partire dalla graniglia di colore scuro dei pavimenti alla genovese che non restituiva un adeguato senso di pulizia e non invogliava a camminare scalzi, per non parlare dell’attenzione al look: praticavo la new wave e non esisteva un abbigliamento casalingo corrispondente a quello ostentato in pubblico, a partire dalle pantofole nere dalla foggia Creeper. Oggi, però, è cambiato tutto. A casa mia, se mai vi inviterò, ricordatevi di lasciare le calzature nello sgabuzzino all’ingresso. A vostra discrezione la scelta se rimanere in calzini oppure indossare le pattine degli ospiti. Sono talmente ossessionato che controllo nei programmi tv come si comportano gli attori. Mi capita di notare gente che si sdraia sul letto, con le scarpe, che è una cosa che mi fa orrore. C’è uno spot che mi irrita particolarmente e che è quello del Viakal. La protagonista pulisce il bagno con le sneakers, e non se le toglie nemmeno per lavare la cabina della doccia. Immagino che il piatto sotto sarà bagnato e quindi, uscendo da lì, inevitabilmente sporcherà le piastrelle del pavimento con il sudiciume umidiccio delle suole. Fino alla danza finale con le scarpe sul tappetino, lo stesso su cui ci posiamo i piedi nudi dopo il bagno. Che orrore, non trovate?

senti chi parla

Standard

I bambini dicono un mucchio di stronzate. Si avvicinano alla cattedra e condividono i loro aneddoti sgrammaticati lunghi ore, senza capo né coda, e il fatto che molto spesso non si capisca una parola – il massimo è quando si voltano verso i compagni per parlare con me, dimenticando che sono vecchio e sordo e , soprattutto, che mi trovo dalla parte opposta rispetto quella a cui si stanno rivolgendo – è il minore dei problemi. Poi però suona la campanella, torno nel mondo degli adulti, e mi rendo conto che tutto sommato quelle conversazioni surreali che sono una componente fondamentale del mio lavoro sono decisamente più avvincenti dei dialoghi a cui mi trovo esposto. Il fatto è che nutrirsi di letteratura e di cinema/fiction ti trasporta in un mondo delle idee popolato da batti e ribatti che hanno avuto tutto il tempo di essere scritti e rimaneggiati per filare lisci e limare ogni ridondanza. Ne abbiamo parlato al corso di scrittura creativa che sto seguendo e che, anzi, ormai è agli sgoccioli. Abbiamo imparato che il dialogo fa andare avanti la storia, aiuta a veicolare le informazioni, descrive i personaggi e ne descrive le relazioni e i rapporti di forza. La vita, lo saprete meglio di me, è invece un’altra cosa. Un buon esercizio per acquisire questa consapevolezza consiste nel registrarvi mentre discorrete con il vicino avviandovi dai box all’ascensore quando rientrate dal supermercato con le borse piene di spesa, le chiacchiere di circostanza con cui vi intrattenete con la mamma con i due bambini al seguito alla fermata della 60 che non passa da venti minuti e la pensilina non è sufficiente a tenere al riparo dal diluvio universale tutte le persone in attesa, la duecentesima volta in cui il parente ottuagenario vi racconta di quella volta che ha attraversato il Mincio mentre emigrava a Milano dopo la guerra ma i ponti erano stati tutti bombardati. Se questa vi sembra una pratica oltre le vostre possibilità, reperite da qualche parte la finale di X Factor, trascrivete i commenti dei giudici alle esibizioni dei concorrenti e traete voi delle conclusioni, sempre che l’enfasi superflua esondata dallo schermo non vi abbia nel frattempo allagato la casa e mandato in corto circuito l’impianto elettrico. C’è anche lo spot dell’apparecchio tv di Sky che imperversa tra i programmi da qualche settimana che rende perfettamente l’idea di quello che è bene non dirsi tra persone normali, o almeno se si vuole risultare minimamente interessanti al resto dell’umanità. Ecco, a me basterebbe essere abbastanza ricco da pagare i protagonisti di quella pubblicità per imporre il ritiro e l’oblio di una tale performance che, ogni volta che passa, mi fa vergognare per loro. Sono piccole cose, ma anche un grande passo per il genere umano.

papillon

Standard

Da bambini guardavamo la pubblicità perché c’era Carosello e gli spot erano scenette con attori di un certo calibro. Poi hanno inventato le tv commerciali, le reclame sono diventate noiose e piene di stereotipi ma l’introduzione del telecomando ci ha regalato il potere di cambiare canale durante i consigli per gli acquisti. Quindi siamo diventati studiosi di pubblicità all’università, questo ci ha imposto di fermarci a seguirle per trovare ispirazioni dalle migliori e capire gli errori di quelle sbagliate. Dopo abbiamo trovato lavoro in quel campo lì e l’obiettivo dello studio degli spot degli altri si è invertito: era obbligatorio pensare a qualcosa di diverso.

Infine ci siamo rotti e abbiamo cambiato lavoro, vincendo concorsi nella scuola e prediligendo l’impiego pubblico visti i tempi. Nel frattempo siamo diventati anziani e abbiamo perso interesse per gli spot. Ci sono quelli belli e quelli brutti, quelli delle auto e delle medicine e dei reggiseni e del cibo e poco più perché gli altri settori non hanno soldi da buttare via. Abbiamo introdotto routine nella nostra vita, sicuramente più sedentaria. Ed è per questo che chi gestisce il sistema pubblicitario dovrebbe capire che passare quattro o cinque volte la stessa pubblicità nel giro di sessanta minuti, gli stessi ogni sera, è controproducente e induce all’odio per il brand presentato.

Per questioni di orari e impegni famigliari a casa mia teniamo la tv accesa su La7 dalle otto meno dieci fino alle nove circa ogni sera per seguire il tg – malgrado Mentana – e gli approfondimenti del programma successivo – malgrado Scanzi e Travaglio. Poco più di un’ora con un’infinità di interruzioni pubblicitarie che ci mancherebbe, è chiaro che permettono di tirare avanti la baracca.

Il punto è che gli spot che passano sono sempre gli stessi, ripetuti più volte. Non sono solo io a dire che la sovraesposizione rompe i maroni, e secondo me la gente ne ha le scatole piene. In questi giorni il massimo del fastidio me lo dà la pubblicità della pasta De Cecco con quella trovata – del tutto immotivata – della parodia di “Vecchio frac”. Non si capisce cosa c’entri la canzone e poi gli amici a casa Gerini fanno gli spaghetti quando, invece, avrebbero potuto cucinare delle farfalle visto che il bellone palestrato cita la canzone (almeno credo) indossando appunto il papillon, anche se non ho fatto caso se sia di seta blu. A onor del vero non ho contato quante volte passa ogni sera, ma sicuramente sono troppe e sufficienti a farmi evitare la pasta De Cecco come la peste.

pelandrone

Standard

Passiamo tutto l’anno a farci affascinare da documentari sui borghi più belli d’Italia realizzati con riprese effettuate con il drone e montate con musiche epiche e poi, quando li visiti affrontando dal basso impervie scalinate che portano a castelli diroccati con percentuali di inclinazione e dislivelli da paura, il tutto mentre ci sono quaranta gradi e lungo il dedalo di viuzze del centro storico non c’è nemmeno un bar aperto, l’effetto è controproducente. Le riprese con il drone costituiscono la nuova frontiera dell’iperrealtà, in cui quello che viene mostrato in tv è rappresentato in una forma ultra simbolica: il castello in alto sin troppo in alto, con le sue case medievali abbarbicate sulla roccia come un’emanazione dal potere che rappresenta, attraverso voli radenti che, sul divano di una qualunque domenica pomeriggio d’inverno, ti inducono alla scelta della meta delle prossime vacanze estive.

La colonna sonora risulta altrettanto stucchevole: i soliti quattro accordi mozzafiato, con le alternanze tra accordi maggiori e minori studiate a tavolino, in un tripudio di archi sintetici che vanno bene su qualsiasi scena pensata con l’obiettivo di convincere lo spettatore che qualcuno ha compiuto un’opera mirabile vincendo le sue stesse sfide con il coraggio e la fierezza di essere ricordato nei secoli a venire. Il tutto dopo la consueta orgia di carboidrati innaffiati dal prosecco del dì di festa per una condizione di ebbrezza – pronta a trasformarsi in pennichella – che contribuisce al pathos del messaggio trasmesso.

I nodi vengono al pettine solo qualche mese più tardi: il castello è lassù in cima, l’estate è quella più calda della storia dell’umanità, gli orari delle informazioni turistiche e delle attrazioni a cui sei diretto non coincidono con la roadmap della vacanza, in cui le stanze devono essere liberate entro le dieci del mattino e fino al pomeriggio inoltrato non c’è verso di fare un check-in come si deve. Non resta che concentrare la visita in quella parte del giorno in cui, specialmente nel centro e sud Italia, la gente normale giustamente rifugge la canicola e si gode la frescura delle abitazioni storiche di proprietà ereditate dai bisnonni che si spaccavano la schiena nei campi. Le rampe sono importanti e di una categoria che noi turisti di pianura le vediamo solo nelle illustrazioni di Escher, con l’aggravante di non essere per nulla attrezzati per quel tipo di esperienza in cui si mescolano botteghe di artigiani con scalate ai borghi in quota che imporrebbero scarpe tecniche e abbigliamento almeno del Decathlon.

Il risultato è l’umiliazione delle aspettative. Nessuno suona la musica che ci motiverebbe a superare i nostri limiti per conquistare la torre più alta e la vista da sotto non è certo la stessa che ricordavamo dal documentario, quando una telecamera si librava come un nibbio sulle più alte pendici del maniero normanno. Le riprese con il drone vanno a colpire una zona vergine della nostra emotività limitrofa alla sensazione di vertigine, in quell’istante a ridosso dello sconfinamento nella paura dell’altitudine, in cui la finzione televisiva ci lascia credere di essere altrettanto audaci. Ci dimentichiamo che i documentari sono marketing allo stato puro e che poi, il prodotto, è ben altra cosa dalla foto che lo ritrae sulla confezione. È una moda. Si sgonfierà, prima o poi.

sticazzi

Standard

Quando qualcuno ti dice quanti anni ha senza che tu l’abbia chiesto questa è l’espressione giusta di rimando. E anche se non lo dici e lo pensi soltanto, te lo si legge sulla faccia il disinteresse e l’ironico stupore. In una parola: