spingilo

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Il paradosso del monopolio culturale a stelle e strisce che, a partire dallo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, si è consolidato dalle nostre parti, è che alcuni registri artistici sono impossibili da localizzare per ovvie barriere linguistiche e, qualora se ne tenti l’appropriazione con l’obiettivo di sdrammatizzarne il tentativo (perfettamente riuscito) di colonizzazione, facilmente i risultati risultano correnti a sé, riconducibili all’archetipo ma tutto sommato permeate da una propria dignità. Pensate al jazz italiano (che poi non è jazz) o al rock italiano (che poi non è rock). Per non parlare del rap italiano e soprattutto della trap, la vera eccezione che conferma la regola. I trappisti locali non ci pensato due volte a troncare le parole mozzando l’ultima sillaba, con il risultato che noi boomer – qualora scendessimo dal nostro piedistallo post-punk per dedicare la giusta attenzione a questa generazione di tamarri tatuati, tossicodipendenti e depilati – non capiremmo nulla ma ci limiteremmo a percepire il feeling del groove allo stesso modo in cui ci approcciamo ai loro omologhi afro-americani, o come accadeva ai tempi in cui ascoltare l’old school faceva figo. In questo contesto, uno degli effetti più imbarazzanti (sia da un punto di vista linguistico sia sotto il profilo meramente musicale) è costituito dalle riduzioni in italiano dei rap nei film e nei telefilm.

Il punto è che, lasciato in lingua originale, lo slang dei ghetti e dei sobborghi, nessuno ci capirebbe un’acca. Mi è capitato di assistere a svariati tentativi fallimentari nel corso della storia del rap, ora mi vengono in mente solo alcune scene di “House Party”, o il tizio che propone orologi di dubbia provenienza a Auggie Wren in “Smoke”. Ma pensate alla sigla di testa di “Willy, il principe di Bel-Air”, che già l’originale, pur essendo ancora il 1990, era già una versione cosplay dell’hip hop, figuratevi la sua resa in italiano.

L’ultimo esempio dello scempio linguistico a cui purtroppo siamo condannati viene dalla campagna di spot televisivi del prodotto Sodastream che ha localizzato – a proposito di old school – “Push it” delle Salt-n-Pepa che di per sé, a parte i balletti altamente cringe, non sarebbe nemmeno un’idea campata in aria. Per farvi capire, ascoltate lo spot per il mercato tedesco:

quello francese:

ci tocca persino prendere lezioni dai polacchi:

fino all’orgoglio italiano:

Push it real good!

chi rispetta le tradizioni americane

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Ora ditemi chi, in Italia, cucina il pollo così.

cultura locale

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Non so se l’avete notato, ma questo spazio si sta trasformando in una di quelle piattaforme online dove è possibile conoscere persone con i miei stessi gusti. Una specie di tinder dove immagino poi alla fine la gente tromba ma prima fa le cose come gliele spiego io, ascolta i dischi che consiglio, insomma lettori che si lasciano influenzare evitando il rilancio con qualcosa di più trasgressivo come invece siete abituati a fare nelle conversazioni della vita reale quando, qualsiasi cosa io dica, voi già almeno cinque anni fa la praticavate prima degli altri. Ho ricevuto persino un’offerta da un noto network del digitale terrestre specializzato in programmi di taglio situazionista per adattare queste storie d’amore e di amicizia, che nascono all’insegna di quello che scrivo, in un format che ha tutte le carte in regola per sbaragliare la concorrenza.

Io ho risposto che va bene ma non credo che nulla sia in grado, in questo momento, di superare “Casa a prima vista”, la cui visione qui da me è imprescindibile e fuori discussione e ha soppiantato senza ritorno il rigattiere inglese che gira per mercatini. Non c’è storia. Intanto perché non c’è nulla di più appagante di visitare appartamenti, e poi perché c’era un secondo motivo ma in questo momento mi sfugge.

I miei episodi preferiti sono quelli ambientati a Milano, quelli con la tipa con quelle labbra che in natura non esistono altrove e che ha la stessa flessuosità nei movimenti di David Zed. Attenti, però: se non siete avvezzi al mercato immobiliare della zona potrebbe venirvi un colpo come all’attrice dello spot di Idealista, quella che non trattiene l’emozione delle case che visita e sviene mostrando ogni volta le cosce. Sicuramente conta questo aspetto, ma sono sicuro che proverei per lei la stessa smodata attrazione anche se recitasse con i pantaloni lunghi.

Ma, tornando al programma televisivo cult del momento, mi entusiasma scoprire l’esistenza di esseri umani in carne e ossa come me e voi che hanno settecentomila euro di budget da spendere per un bilocale in zona Paolo Sarpi. Perché lo so che ci sono anche ville o boschi verticali da tre o quattro milioni di euro, ma i loro acquirenti giocano un campionato diverso. Io sto parlando di gente poco più che normale, di qualche categoria superiore alla mia, un livello comunque a cui il mio ascensore sociale resta in panne almeno quattro piani sotto. Per pura captatio benevolentiae, sappiate che – al netto della mia famiglia – le due cose di cui vado più orgoglioso nella mia vita sono l’essere riuscito a comprare un appartamento (anche se non da settecentomila euro) e l’aver corso qualche volta per ventun chilometri di fila senza sosta.

Arrivo al dunque, perché mi pare di aver capito che Gianluca Torre, che dei tre conduttori di “Casa a prima vista” è forse è quello in cui mi riconosco di più, come me è un podista, spero per lui più in forma. Sarà per questo che, mentre seguivo la puntata di stasera, ho pensato che se ereditassi settecentomila euro (a proposito, valuto proposte di facoltosi genitori adottivi volontari) lo chiamerei subito e verserei immediatamente l’acconto per l’appartamento proposto da lui che i concorrenti non hanno scelto, quello in zona Scalo Farini. Anzi, Gianluca, se mi stai leggendo, bloccalo subito. Scendo a fare un bancomat e ti porto i soldi domani.

Avrete capito che sono appassionatissimo di architettura di interni e, più in generale, di urbanistica. Il mio progetto, quando sarò in pensione, è quello di girare a piedi in lungo e in largo Milano, che è la mia città preferita dopo Berlino, per scoprire e osservare da vicino i quartieri e i condomini più interessanti. Magari aprirò un nuovo blog dedicato a questo tema, chi lo sa, quindi non smettete di seguirmi.

pronto, casa Beethoven?

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NO NO NO NOOOOOOOOOO, si rispondeva a questa gag intonando l’attacco della Quinta Sinfonia. Il siparietto – siamo a metà anni settanta e alla scuola che allora si chiamava ancora elementare, per darvi delle coordinate – continuava analogamente con “Pronto, casa Mozart?”, a cui l’altro confermava la simmetria nello scambio intonando il tema della Sinfonia N. 40 del compositore austriaco, a cui qualcuno aveva adattato dei versi che più o meno facevano “signorina non rompa la palle, ma consulti le pagine gialle”.


Come è facile intuire, erano i tempi dei Siemens S62 o, per i più temerari, dei Pulsar, gli apparecchi telefonici fissi domestici che servivano tutto il nucleo famigliare. L’etichetta imponeva al chiamante questa procedura:

  1. ci si accertava di aver composto correttamente il numero chiedendo se l’utenza corrispondesse al cognome
  2. quindi ci si presentava e si chiedeva di parlare con l’interessato/a.

La causa scatenante che ha permesso a questa madeleine di fare capolino nei ricordi è stata una telefonata, ricevuta ben tre volte, da un call center purtroppo non intercettato come presunto spammer dal mio smartphone. Saprete meglio di me che le chiamate commerciali possono essere classificate in quattro tipologie a seconda di cosa sentite dall’altra parte:

  1. l’operatore che chiede se siete voi appena rispondete con pronto o, come faccio io, dicendo sì;
  2. i rumori di vario genere all’altro capo della chiamata senza che qualcuno proferisca parola, segno evidente che l’importante per le aziende di call center è dimostrare la quantità di telefonate a cui qualcuno ha risposto;
  3. gli squilli di rimando che dimostrano che le telefonate agli operatori partono solo se il potenziale cliente risponde
  4. e, infine, il messaggio preregistrato, un’entità che nessuno ha mai ascoltato fino alla fine perché talmente irritante da indurre a chiudere all’istante.

La variante che circola in questi giorni, ma non saprei a quale servizio o prodotto o brand ricondurla, è una comunicazione automatica che parte alla risposta proprio con

Se vi è già capitato di riceverla, mi sapete dire cosa succede dopo?

xl

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La tipa denutrita della pubblicità Borghetti che gioca a calcio balilla dice una battuta, anzi una sola parola, che poi è il brand, e la pronuncia malissimo. E se hanno scelto quel take, chissà quanti ne hanno scartati tra quelli registrati prima e, soprattutto, com’erano. Ci ho pensato all’uscita dal cinema dopo aver assistito a “Anatomia di una caduta”, uno dei migliori film di tutti i tempi per numerosi aspetti, a partire dalla bravura degli interpreti. Persino il cane recita in modo straordinario – non voglio spoilerare nulla ma la scena finale è straordinaria – ed è molto più convincente di qualunque attore italiano, anche i migliori, quelli del cinema, quelli della tv, per non parlare di quelli delle pubblicità. Per recitare così male nei consigli sugli acquisti, anche se gli unici che non cambiano canale quando trasmettono gli spot siamo solo noi studiosi di comunicazione, ci vuole davvero del talento. E quello che colpisce di lei non è solo la dizione, ma il fatto che ha il girovita largo quanto il mio polpaccio. La grassofobia, in Italia, è una delle peggiori attitudini che poi, con tutto quello che mangiamo e beviamo, fa sorridere. Anzi, il corto circuito è frustrante. Non riusciamo a resistere al cospetto di una porzione romanesca di cacio e pepe e poi trascorriamo giorni dilaniati dal senso di colpa, fino alla carbonara del fine settimana successivo. La dieta mediterranea è una disdetta. Ho un’alunna di origini senegalesi, ampiamente oltre il suo peso forma, che non ha mai usufruito della mensa scolastica prima di quest’anno. Riconducevamo la scelta dei genitori a motivi religiosi – la carne di maiale eccetera eccetera – ma ad assistere alla voracità con cui chiede i bis di tutto abbiamo compreso che, tenerla a casa a pranzo, era una forma di controllo e tutela della sua salute. Se sostenete che a scuola non si mangi bene siete in malafede. Al limite, posso darvi ragione solo per il distributore automatico dedicato a insegnanti e ATA. Costa tutto molto poco, ma la qualità è vergognosa. Dicono che in certi licei privati del centro ci siano addirittura i cesti di frutta e le macchinette per prepararsi centrifughe e spremute come nelle filiali delle multinazionali che frequentavo prima di immolarmi alla scuola. Da noi è sotto soglia anche il caffè, una brodaglia seconda solo alla bevanda al sapore di the (o di te, come biasciava Young Signorino) ma dopo il pasto della mensa è un appuntamento a cui non so resistere. Il distributore si trova al secondo piano, uno sopra la mia classe, e prima di scendere in giardino è un tappa obbligata. Alcuni dei miei alunni si mettono davanti ai dolciumi come quelle storie di una volta in cui i bambini poveri, durante i giorni di festa, trascorrevano il tempo sospirando di fronte alle vetrine delle pasticcerie. Sanno che, oltre al caffè, talvolta mi concedo anche il dessert. Quando succede, insistono perché sperano che il Kinder Bueno o gli Oreo o il Kit Kat al caramello salato, dopo la selezione, restino incastrati negli ingranaggi. Quando succede, infatti, scuoto con forza il distributore per far cadere lo snack e, siccome il costo del prodotto non viene accreditato nella chiavetta in caso di mancata erogazione, ne prendo un secondo. Avrete capito che, a botte di junk food, la larghezza dei miei fianchi è di almeno tre volte la tipa del Borghetti, ma chi se ne importa, ho quasi sessant’anni. Metto i bambini in fila, soffio sul caffè, scarto la prima delle due merendine con cui concluderò il pranzo, e come se vivessi in una pubblicità televisiva, quelle con i maestri fighi e magri, mi avvio in giardino con il codazzo di discepoli, orgoglioso del pessimo esempio mostrato.

la bandiera del mondo

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Il modo da divano più efficace per schierarsi tra l’una o l’altra fazione delle svariate guerre che funestano ormai irrimediabilmente la quotidianità è quello di sfoggiare la bandiera del cuore (Ucraina o Russia, Palestina o Israele) a corredo del proprio profilo social. Un vero e proprio biglietto da visita pensato affinché i beniamini della parte avversa sappiano già in partenza che è meglio evitare certe discussioni e i cosiddetti leoni da tastiera non corrano il rischio di esporre sotto il fuoco amico i proprio compagni di branco. Ho letto da qualche parte qualcuno che si chiedeva quale fosse la bandiera del mondo, al netto di quella delle Nazioni Unite così tanto vituperata, l’unico vessillo in grado di superare qualunque dualismo (a meno di un’invasione aliena a seguito della quale, sono certo, ci divideremmo di nuovo).

Nell’attuale corsa ai nazionalismi e a chi ce l’ha più sovranista anche noi ci siamo scoperti primatisti europei soprattutto grazie ai meloniani e ai fratellisti d’italia che hanno gettato sul fuoco della nostra deprivazione culturale il combustibile più efficace per rinvigorire la fiamma tricolore dell’italianità. A me tutta questa agiografia del made in Italy mi dà così fastidio da rendermi invise persino le nostre nazionali di pallavolo, unico sport che suscita il mio interesse. Si è appena conclusa una per noi fortunatamente fallimentare stagione di competizioni continentali e mondiali che ho seguito a stento a causa della retorica dei commentatori televisivi. Meno male che abbiamo perso tutto quello che c’era da perdere. Non mi interessa il calcio o, peggio, il rugby, ma sono certo che, malgrado anche da quelle parti siamo scarsi come la merda, sia tutto un elogio della nostra resilienza che, a onor del vero, ha rotto ampiamente il cazzo. Io vorrei essere così tanto ricco da pagare gli organismi internazionali per abolire tutti i tipi di competizioni sportive in cui gli atleti rappresentano una bandiera, con ammende salatissime per i campioni che suggellano i loro successi circondando con un close-up tra pollici e indici a formare un cuore i colori che rappresentano. Sono certo che sarebbe già un passo in avanti. Basta haka, basta inni stonati a inizio partita, basta hooligan da una parte e dall’altra.

Un terreno altrettanto fertile per la narrazione del paese più bello del mondo è la comunicazione pubblicitaria. Il marketing italiano, approfittando della recente recrudescenza del trittico dio-patria-famiglia, ci dà dentro per propinarci i peggiori messaggi motivazionali sul posto in cui cui viviamo. Il risultato è che le centinaia di programmi televisivi sui nostri borghi più suggestivi al mondo o sulla nostra cucina migliore al mondo o sulla nostra forza lavoro più infaticabile al mondo o sul nostro genio più geniale al mondo o sulla nostra sregolatezza più sregolata al mondo sono interrotti da spot sui prodotti realizzati in Italia, paese dalla qualità suprema. Come se noi italiani non fossimo in grado di osservare, assaggiare, leggere, valutare e riflettere. Lo so, è vero, sicuramente sempre meno. E l’aspetto ridicolo è che tutti i popoli del mondo raccontano di essere i più bravi, i più belli, i più forti, i più intelligenti, alla fine anche il più idiota dei marziani si renderebbe conto che c’è qualcosa che non va. Poi, voglio dire, con quale faccia tosta ci paragoniamo a francesi, inglesi e tedeschi, tanto per citare i primi che mi vengono in mente? Ne abbiamo anche per gli svizzeri, che non so se avete mai varcato il confine.

E, a proposito, la pubblicità del cioccolato Novi ha un copy in cui le parole Italia e italiano si ripetono cinque volte in trenta secondi: “L’Italia è il paese più bello del mondo? Probabilmente si. Ma sicuramente è il paese più Novi che c’è. Perché Novi è il cioccolato che gli italiani amano. La poesia italiana del cioccolato. Il trionfo delle nocciole italiane del nocciolato. I raffinati abbinamenti di Novi nero nero. E anche chi non è italiano impara presto ad amarlo. Svizzero? No! Novi.” Che poi, voglio dire, Novi Ligure è un posto veramente di merda – attenzione a non confonderla con il cioccolato – e non è nemmeno in Liguria.

A PIEDI NUDI NEL BAGNO/2

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Anche nello spot Ambipur bagno c’è una tizia che entra in bagno con le scarpe e cammina sul tappeto, proprio come la sua amica del Viakal.

la rivincita del senso figurato

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Pensate se un giorno all’improvviso si avverassero tutti i modi di dire, per un sortilegio o magari perché ti svegli la mattina e ti trovi in un episodio di “Ai confini della realtà”, o “Black Mirror” se siete giovani d’oggi. Mandi affanculo qualcuno e costui si precipita a consumare una sessione di sodomia passiva con il primo che passa. Quelli che stanno sulle spine è perché sono adagiati su uno schieramento di istrici mentre i manipolatori offrono concreti momenti di piacere, mi accontenterei anche senza tante lusinghe. Per chi casca dalle nuvole meglio munirsi di un paracadute o, meglio, di una tuta alare, molto più di moda, mentre è difficile pagare un conto salato dal pasticciere, tantomeno che una borsa piaccia un sacco. Solo in prossimità delle Dolomiti ci si può lamentare della montagna di cose da fare in ufficio, e, per rimanere in tema, un cuore di pietra solo se si è membri dei Fantastici 4. Una lavata di capo te la può fare solo un parrucchiere incavolato, mentre se hai bisogno di supporto psicologico puoi rivolgerti a unobravo.

a piedi nudi nel bagno

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Da ragazzino non stavo mai in casa. Ero sempre fuori e, quel poco tempo che trascorrevo in famiglia, tenevo addosso le scarpe per essere pronto a uscire di nuovo, non appena mi avesse telefonato qualcuno. Un comportamento che reputo imperdonabile e non capisco come i miei genitori non si siano mai imposti per farmi osservare quella che è la regola base della convivenza e dell’ospitalità, togliersi le scarpe prima di entrare. Riconduco questo mio atteggiamento incivile a diversi fattori, a partire dalla graniglia di colore scuro dei pavimenti alla genovese che non restituiva un adeguato senso di pulizia e non invogliava a camminare scalzi, per non parlare dell’attenzione al look: praticavo la new wave e non esisteva un abbigliamento casalingo corrispondente a quello ostentato in pubblico, a partire dalle pantofole nere dalla foggia Creeper. Oggi, però, è cambiato tutto. A casa mia, se mai vi inviterò, ricordatevi di lasciare le calzature nello sgabuzzino all’ingresso. A vostra discrezione la scelta se rimanere in calzini oppure indossare le pattine degli ospiti. Sono talmente ossessionato che controllo nei programmi tv come si comportano gli attori. Mi capita di notare gente che si sdraia sul letto, con le scarpe, che è una cosa che mi fa orrore. C’è uno spot che mi irrita particolarmente e che è quello del Viakal. La protagonista pulisce il bagno con le sneakers, e non se le toglie nemmeno per lavare la cabina della doccia. Immagino che il piatto sotto sarà bagnato e quindi, uscendo da lì, inevitabilmente sporcherà le piastrelle del pavimento con il sudiciume umidiccio delle suole. Fino alla danza finale con le scarpe sul tappetino, lo stesso su cui ci posiamo i piedi nudi dopo il bagno. Che orrore, non trovate?

senti chi parla

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I bambini dicono un mucchio di stronzate. Si avvicinano alla cattedra e condividono i loro aneddoti sgrammaticati lunghi ore, senza capo né coda, e il fatto che molto spesso non si capisca una parola – il massimo è quando si voltano verso i compagni per parlare con me, dimenticando che sono vecchio e sordo e , soprattutto, che mi trovo dalla parte opposta rispetto quella a cui si stanno rivolgendo – è il minore dei problemi. Poi però suona la campanella, torno nel mondo degli adulti, e mi rendo conto che tutto sommato quelle conversazioni surreali che sono una componente fondamentale del mio lavoro sono decisamente più avvincenti dei dialoghi a cui mi trovo esposto. Il fatto è che nutrirsi di letteratura e di cinema/fiction ti trasporta in un mondo delle idee popolato da batti e ribatti che hanno avuto tutto il tempo di essere scritti e rimaneggiati per filare lisci e limare ogni ridondanza. Ne abbiamo parlato al corso di scrittura creativa che sto seguendo e che, anzi, ormai è agli sgoccioli. Abbiamo imparato che il dialogo fa andare avanti la storia, aiuta a veicolare le informazioni, descrive i personaggi e ne descrive le relazioni e i rapporti di forza. La vita, lo saprete meglio di me, è invece un’altra cosa. Un buon esercizio per acquisire questa consapevolezza consiste nel registrarvi mentre discorrete con il vicino avviandovi dai box all’ascensore quando rientrate dal supermercato con le borse piene di spesa, le chiacchiere di circostanza con cui vi intrattenete con la mamma con i due bambini al seguito alla fermata della 60 che non passa da venti minuti e la pensilina non è sufficiente a tenere al riparo dal diluvio universale tutte le persone in attesa, la duecentesima volta in cui il parente ottuagenario vi racconta di quella volta che ha attraversato il Mincio mentre emigrava a Milano dopo la guerra ma i ponti erano stati tutti bombardati. Se questa vi sembra una pratica oltre le vostre possibilità, reperite da qualche parte la finale di X Factor, trascrivete i commenti dei giudici alle esibizioni dei concorrenti e traete voi delle conclusioni, sempre che l’enfasi superflua esondata dallo schermo non vi abbia nel frattempo allagato la casa e mandato in corto circuito l’impianto elettrico. C’è anche lo spot dell’apparecchio tv di Sky che imperversa tra i programmi da qualche settimana che rende perfettamente l’idea di quello che è bene non dirsi tra persone normali, o almeno se si vuole risultare minimamente interessanti al resto dell’umanità. Ecco, a me basterebbe essere abbastanza ricco da pagare i protagonisti di quella pubblicità per imporre il ritiro e l’oblio di una tale performance che, ogni volta che passa, mi fa vergognare per loro. Sono piccole cose, ma anche un grande passo per il genere umano.