Idles – Tangk

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Tangk è il nuovo disco degli Idles e, per me, il 2024 potrebbe anche chiudersi qui.

Tanto per cominciare, il remake del video di “Yellow” dei Coldplay, realizzato grazie all’intelligenza artificiale per la clip di “Grace”, è forse, almeno ad oggi, l’applicazione più pertinente e meglio riuscita della tecnologia deepfake. Un uso magistrale che si dovrebbe insegnare nelle scuole. Altro che capi di stato che dichiarano guerra ad altri capi di stato o personaggi famosi che straparlano a botte di corbellerie o tutte le altre stronzate che ci lasciano presagire che l’AI, dopo le tv Mediaset e i social, è l’invenzione che darà il colpo di grazia alla nostra civiltà come l’abbiamo conosciuta.

Ma è tutta la storia a essere bellissima: Joe Talbot che scrive un pezzo che parla d’amore e si sogna proprio Chris Martin nel fiore dell’età che, con la sua andatura dinoccolata sul bagnasciuga sotto la pioggia all’alba, intona tutto lo struggimento del suo omologo di ventiquattro anni dopo in sostituzione di quello (altrettanto melenso) della canzone originale di ventiquattro anni prima. E Chris Martin che, anziché sottrarsi al divertissement (o, peggio, andare per vie legali per questioni di copyright come un’isterica rockstar miliardaria qualunque, priva del senso dell’umorismo e dell’ironia con cui l’operazione è stata pensata) non solo concede il suo benestare per trasformare l’idea in realtà, ma contribuisce ad addestrare l’AI per rendere la sua performance vocale più realistica, in modo che il risultato balzi immediatamente ai vertici delle classifiche dei video musicali più iconici di tutti i tempi.

Non trovate tutto questo commovente? Il risultato è che “Grace” è una delle canzoni più significative della storia recente, un pezzo che potrebbe davvero stare nel repertorio dei Coldplay, perché no? La voce di Talbot è incredibilmente delicata e, con un arrangiamento più rassicurante, non sfigurerebbe nel repertorio di uno dei gruppi più famosi al mondo.

E poi c’è la questione dell’amore. Sembra che nei quaranta e rotti minuti di Tangk, Joe Talbot pronunci la parola love quasi trenta volte e dia sfogo, quasi senza soluzione di continuità, a buoni sentimenti come la freudenfreude, quello stato d’animo da oratorio che consiste nel provare gioia per la gioia degli altri, o la gratitudine per ogni mattino che ci viene regalato. Tenete conto che il suo approccio al prosieguo di Crawler è stato quello di rispondere a urgenze condivise, a partire dal mondo in caduta libera post-pandemia, e ad altre molto personali, e decisamente agli antipodi tra di loro, come il lutto e la passione.

Ma il britpop, le dita che si uniscono a forma di cuore e Hall&Oates non sono le sole cose che mai ti aspetteresti di trovare in un album degli Idles. Pensate alla melodia a bocca chiusa nel finale di “Idea 01”, così spiazzante da sembrare un violino interpellato a chiudere una prima traccia praticamente perfetta, un incipit che chiunque, in futuro, gli invidierà, con quell’accompagnamento di piano suonato dal chitarrista e co-produttore Mark Bowen (sporcato a opera d’arte) che accompagna una melodia straordinariamente premurosa, preludio all’amore nella dimensione paterna di “Gift Horse”.

E pensate a “Pop Pop Pop”, con quella metrica da ninna nanna a cavallo tra la conta che fanno i bambini per designare sotto a chi tocca e alla trap. Ma anche il soul di “Roy”, con un Talbot in versione Otis Redding, lo stile più adatto per farsi perdonare dalla propria amata per certe cose dette la sera prima, e una band sotto che suona un punk-blues decisamente oltre ogni aspettativa. O ancora la voce sussurrata di “A Gospel”, coda naturale della traccia precedente, tutta pianoforte e archi. Per non parlare del modo di edulcorare il brutalismo degli esordi in “Jungle”, vero capolavoro dal suono indefinibile, e del sax che si erge repentino dalle macerie negli ultimi istanti di “Monolith”, ancora un sorprendente blues scelto come improbabile chiusura di una tracklist in grado di lasciare di stucco anche gli animi più scettici.

Di certo mettono più a nostro agio le volte in cui la band manda affanculo tutto e tutti, re compreso, violenta gli strumenti con una distorsione disumana, percuote le pelli dei tamburi con la rabbia tipica dell’hardcore (“Gratitude” su tutti), urla tutto il suo disagio possibile e invita al pogo con il patrocinio e il bpm disco-punk degli LCD Soundsystem.

E sapete come andrà a finire, vero? Andrà a finire che, al cospetto di questo album monumentale, l’amore per gli Idles (e l’amore secondo gli Idles) ci dividerà di nuovo: apocalittici e integrati, o detrattori e entusiasti, insomma quella dicotomia lì. Il punto è che la band di Talbot ha bruciato le tappe. Cinque long playing in sette anni e ora si trova già in quella fase di presunta morbidezza in cui cascano tutti, quella in cui gli snob dei “mi piacevano i primi due dischi”, i più pessimisti, gli intransigenti e i disillusi del bicchiere mezzo vuoto vedono solo compromessi e decadenza, mentre i più curiosi e intelligenti, chi, in genere, approccia l’arte come naturale evoluzione della multiforme indole umana, riconosce il vero genio.

Se state dall’altra parte, quella che avrete capito essere opposta alla mia, quella sbagliata, insomma, vi lancio un’altra provocazione: provate a fare sempre uguale la cosa che vi piace di più e poi ne parleremo quando, del vostro estro, rimarrà solo un mozzicone impossibile da impugnare. Per me, un disco come Tangk è uno di quelli che, tra trenta o quarant’anni, definiremo, anzi, definirete epocale, una delle opere più influenti della vostra vita, il punto di non ritorno per una band punk sempre meno post e ormai molto radicale nel suo non esserlo come gli Idles che, sono sicuro di averlo scritto da qualche parte e di ripetermi, sta alla moda musicale del momento come i Killing Joke di “Wardance” stavano all’analogo movimento nel primissimo scorcio degli anni Ottanta.

Con Tangk gli Idles hanno ampiamente sconfinato nell’empireo degli artisti che fanno la differenza. Una scalata alla vetta già avviata con il precedente Crawler (bello come solo sa essere un’opera di passaggio) che taglia definitivamente ogni legame con la genuina ferocia degli esordi e definisce al meglio un gruppo di musicisti che hanno tutto lo spazio e il tempo per esprimersi al massimo e in ogni forma.

La speranza è che gli Idles siano diventati sin nel midollo tutto questo: cattiveria sperimentale, impeto con il valore aumentato della ricercatezza, rabbia che tracima nell’avanguardia artistica grazie alle larghe intese con tutte le cose belle con cui vale la pena mescolarsi. Il risultato è una assoluta meraviglia, la più credibile colonna sonora degli anni venti, un’opera in cui la raffinatezza di cui è pervasa stride meravigliosamente con l’idea che abbiamo maturato degli Idles, in tutto questo tempo. Le loro pose truci, il look beffardo, il suono gratuitamente aggressivo, la mancanza di grazia compositiva e quel mix di cinismo e di noncuranza come conseguenza della sfacciataggine incosciente figlia dell’insicurezza.

Sulla morale di Tangk c’è poco da dire. Come la favola di Esopo “Il Sole e il vento del Nord”, che ne ha ispirato la composizione, “No god, no king, I said, love is the fing”, pronunciato così, con la F al posto della TH come fanno i veri gentleman, ci ricorda che la gentilezza e la cortesia vincono dove la forza e la spavalderia falliscono. Un approccio che, nel punk rock, si mette in pratica con una produzione come quella di Nigel Godrich, il sesto Radiohead, per capirci. Di sicuro, Tangk è un ellepi che nessuno dovrebbe assolutamente lasciarsi sfuggire, un album intriso di suoni e parole d’amore da urlare sgomenti, il più efficace deterrente al senso di vuoto invadente di questi tempi pessimi che, detto tra noi, ci sono ottime possibilità che siano davvero gli ultimi.

The Last Dinner Party – Prelude To Ecstasy

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Altro che ultima cena: con un menu di undici portate (più aperitivo con tanto di orchestra) le The Last Dinner Party ci offrono un ricco buffet per il vernissage del loro esclusivo e divertente progetto musicale.

In un mondo in cui la trasgressione è la regola, alla fine passano per alternativi quelli che le regole le seguono. Non drogarsi, non tatuarsi, lo scoutismo, smettere di fumare, entusiasmarsi per i Promessi Sposi, preferire maglioncini e Clarks alle tute e alle sneakers: ecco i veri eccessi del nostro tempo. Faccio l’insegnante e quando incontro un ragazzino con i capelli lunghi, uno che si distingua dalla massa, senza marsupio e borsello, uno che non si rasa le righe sul cranio e non si concia come i fenomeni della trap, mi viene da fermarlo, mi viene da stringergli la mano e fargli i complimenti. Finalmente qualcosa di completamente diverso. Non fraintendetemi, non sono mica un moderato, un conservatore o un fratellista d’Italia. Soprattutto quando si parla di musica.

Dico solo che, se non fossimo sovraesposti alle più ritrite avanguardie stilistiche, liquideremmo gente che si è fatta le ossa nelle tribute band dei Queen o che armonizza ritornelli nemmeno fossero gli Abba come reazionari, esponenti di un’inutile controriforma artistica, energie e bit sprecati per melensi manierismi mainstream, retromaniaci post-classicisti epigoni di specie artistiche fortunatamente estintesi grazie ai techno-meteoriti degli anni novanta. E invece, a valle della recensione della milionesima band prog-post punk di South London, al cospetto di un disco come Prelude To Ecstasy ecco che gridiamo al miracolo e, parlo per me, ci strappiamo quei pochi capelli che ci sono rimasti.

E sono certo che ci saremmo immaginati lo stesso l’album di esordio delle The Last Dinner Party come colonna sonora di un sequel distopico di Piccole Donne anche se non le avessimo mai notate suonare negli stralci dei loro live su Youtube, testimonianze di una fervida attività marketing volta a infiammare a puntino l’hype per questo primo disco, o viste interpretare i video degli svariati singoli che l’hanno preceduto e posare per gli shooting promozionali con quegli assurdi abiti di scena d’epoca. Anche se – parlo per me – non si capisce bene quale. Costumi di uno dei soliti passati indefiniti – non per questo avvincenti – in cui si mescola tutto, da Ziggy Stardust a Emily Brontë passando per Stevie Nicks. Un’età dell’oro di cui sappiamo solo che si è perpetuata per secoli prima dell’avvento del web e dei social, anche se web e social sono proprio il pretesto romantico che ci fa rimpiangere un mondo in cui ci estingueremmo nel giro di qualche ora, senza smartphone.

L’unica certezza che ho è che il ruolo di Jo calzerebbe a pennello per Lizzie Mayland, chitarra e cori della band (statene certi) rivelazione di quest’anno che, forse a causa alla sua bisestilità, da un punto di vista strettamente musicale, grazie alle The Last Dinner Party è già cominciato col botto. Per chi potrebbe interpretare Abigail Morris, l’impertinente voce solista, ci devo pensare. Nel frattempo, a loro due e a Emily Roberts (chitarra solista, mandolino, flauto), Georgia Davies (basso) e Aurora Nishevci (tastiere, voce) chiederei come gli è venuto in mente un progetto di questo tipo.

Un nome che ci evoca un consesso di apostoli (rigorosamente uomini) al convivio di saluti finali di un profeta (rigorosamente uomo, almeno fino a prova contraria). Un’estetica un po’ gotica e a tratti rococò che, quando è stata di monopolio maschile ai tempi del glam e delle zeppe, ha spostato la lancetta della fluidità di genere verso valori e falsetti ben oltre il livello di guardia, quasi a ridosso della macchietta. Una proposta plissettata e tutta merletti, così sfrontatamente sfarzosa da emancipare le The Last Dinner Party da qualunque tendenza del momento, spiazzando la critica con un coraggio che nessun esordiente di sesso maschile avrebbe mai azzardato.

E lo so che questi discorsi non si dovrebbero fare e che guardare al genere dei musicisti è conseguenza di una società e di una cultura rock sessista e patriarcale. Il punto è che io adoro i gruppi tutti al femminile. Adoro le batteriste e la loro postura dietro ai tamburi, la fierezza con cui osservano il loro set, i piatti e le pelli. Adoro le bassiste, di cui ormai c’è una consolidata tradizione. Adoro le ragazze che manipolano i potenziometri dei sintetizzatori e persino le chitarriste che pestano con i tacchi il pedale del wah wah e l’effetto dei prodigi dell’onicotecnica mentre le loro dita corrono veloci sul manico. Adoro come si abbina agli strumenti musicali tutto ciò che è femminile (la rabbia, la passione, la grazia, l’estasi, l’ardimento, persino la gravidanza) perché alle voci femminili e alla meraviglia che suscitano siamo abituati. Il resto, condizionati dal testosterone nel rock, ci fa approcciare le band tutte al femminile con una doppia aspettativa proprio come, nel resto del mondo reale, per una donna è tutto difficile (come minimo) il doppio.

E sono altresì convinto che The Last Dinner Party siano un gruppo pazzesco proprio perché suonano e cantano come solo cinque donne possono fare. Anzi, sei, perché è importante nominare anche Rebekah Rayner, la straordinaria batterista che non risulta nella line up ufficiale del gruppo ma che si presta al gioco delle parti con velluti e corsetti tanto quanto le altre ragazze per le esibizioni live. Molto più di una semplice turnista e perfettamente allineata con il suono e l’estetica della band. Un gruppo che, se fosse stato composto da maschi, sarebbe diventato il nuovo Greta Van Fleet da tanto al mucchio.

Il bello di questo disco è che il fatto che evochi tanto Kate Bush quanto riesca a citare (con ineguagliabile intelligenza) una non-hit come “This Town Ain’t Big Enough For Both Of Us” degli Sparks come se nulla importasse, o che induca l’ascoltatore ad aspettarsi, da un momento all’altro, voci che si sovrappongono ribadendo la richiesta a Scaramouche sulla fattibilità del Fandango o qualche altra trovata kitsch degna di un Eurovision Song Contest di metà anni settanta, non risulta per nulla derivativo. C’è tutto questo, insieme a canzoni che cambiano rotta più volte per rientrare indenni al punto di partenza, inni da arena rock e ballad da meditazione. C’è tantissima musica, pensata, composta, suonata e cantata egregiamente, divertente e mai banale, sempre diversa e sempre di altissimo livello.

Per il resto, se tutto ciò che è a corollario non vi piace, potete chiudere gli occhi o aspettare cosa si inventeranno le The Last Dinner Party per il sequel di questo disco. Il sophistirock di Prelude To Ecstasy, pur con tutte le ingenuità proprie di un album di esordio che di certo non abbatteranno i nostri pregiudizi rispetto a un gruppo di giovani donne che sfidano il patriar-mercato discografico conciate come ai tempi di Emily Dickinson, è una delle cose più fresche e originali sentite finora, il preludio a un anno, si spera, il più femminile possibile, e non solo in musica.

quasi dieci minuti di quando quando quando quando di Annalisa

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almeno quattro canzoni per i vostri mash-up con i Santi Francesi

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SANTI FRANCESI – l’amore in bocca

Calcutta – Controtempo

Taylor Swift – Style

Luca Carboni – Luca lo stesso

Fabri Fibra – Stavo Pensando A Te

giorgia

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Il presentatore l’ha annunciata e tutto il pubblico si è alzato in piedi, scandendo a tempo le sillabe del suo nome. Gior-gia, Gior-gia. Gior-gia. Il sangue nelle vene si è gelato quando, dalle quinte che sovrastano la celebre scalinata del palco di Sanremo, è comparsa lei, la presidentessa del consiglio, tutta azzimata in quel suo stile vorrei-essere-percepita-come-la-Merkel-ma-non-posso che le sta da cani. Gradino dopo gradino ha raggiunto il presentatore, mentre l’orchestra e il coro accompagnavano la discesa con l’inno di quel Mameli di cui le patrie tv stanno per mandare in onda la nazifiction e a quel punto, ormai sotto choc, mi sono precipitato a cambiare canale.

La ierofania di cui ieri sera siamo stati involontari (tele)spettatori ha sancito il definitivo strappo, consumando la fase definitiva di uscita dell’Italia dal resto del mondo, almeno sul piano musicale. Per la prima volta nella storia ci siamo totalmente emancipati dal modello stilistico angloamericano raggiungendo la perfetta autarchia armonico-ritmico-melodica. Uno stadio a cui siamo approdati a seguito di un lungo e granulare processo di mutazione perpetrato simultaneamente attraverso i canali che circondano le nostre giornate. La scuola, la cultura, la tv, Internet e i social, quel che resta della carta stampata e della radio, i centri commerciali e i mercati rionali.

Ora siamo finalmente indipendenti, sotto il profilo musicale. La musica tricolore si conferma un genere a sé grazie al quale non abbiamo bisogno di nulla altro. Il pop si è fuso con la melodia tradizionale, il rap si è snaturato in una versione di sé perfetta per la nostra attitudine al melodramma e per la nostra lingua priva di parole tronche, il rock si è piegato all’impeto operettistico e l’indie si è fuso intorno al cantautorato mainstream da quattro soldi, quello che un tempo si ascoltava in playback all’Arena di Verona nella serata finale del Festivalbar. Un trend impossibile da non cogliere, soprattutto se, come me, seguite in modo ossessivo compulsivo quello che succede negli Stati Uniti e in UK, ma anche in posti meno riconducibili alle rockstar come Germania, Belgio, Francia e Australia. Ho scoperto persino una band turca, che fa musica pazzesca.

Oramai tutto questo non serve più. Il processo di isolamento musicale e della non-dipendenza da Bruxelles e, in generale, dai paesi che contano si è compiuto. Ora possiamo fare a meno delle canzoni straniere, avere meno metri di paragone, farci piacere solo quello che ci viene subdolamente imposto e percepire il regime che si è consolidato come il migliore dei mondi possibili. Trap e baby gang, quello che viene fatto passare come il massimo della devianza giovanile, consentono al sistema di incorporare perfettamente il cosplaying della trasgressione più estrema, mentre i loro fratelli di poco maggiori partecipano ai concerti sold-out dei boomer rapper. In quota mainstream, il software-pop riempie stadi e palasport per più sere di fila, malgrado il costo dei biglietti e le difficoltà di accaparrarseli sulle piattaforme di ticketing online. Il monopolio del rock è saldamente nelle mani di Damiano David e dei suoi sodali. Da questa parte del mercato, l’identificazione liquida in questa manciata di categorie stilistiche si fonde in un magma indefinito fatto di streaming, meme, gag su tik tok, talent e retromania acritica.

E comunque, avete ragione. Possiamo considerare il Festival di Sanremo il super bowl di tutto questo, il rito finalmente purificato da ciò che prima contaminava la nostra italianità, la messa di Natale della canzone, dove Amadeus, al quinto mandato, ricopre in modo esemplare il ruolo di sommo sacerdote. Meloni e melodia hanno la stessa radice, d’altronde. Baci e smorfie LGBTQIA+ e ammiccamenti alla pace nel mondo sono inclusi nel pacchetto, una famiglia che si rispetti deve pur avere un figlio un po’ ribelle o impegnato da redimere per mission e verso il quale dimostrare la propria autorevolezza con le sembianze di magnanimità.

Per questo, al compimento della gestione Amadeus, possiamo finalmente sbrigare la pratica delle pagelle del Festival di Sanremo in pochi caratteri, spazi inclusi. Le canzoni, quest’anno, fanno cagare a spruzzo. Tutte. Anche quelle più raffinate, come i Santi Francesi o Geolier, o quelle più presuntuose, come Mannoia, Ghali e D’amico. Sono tutte uguali, tutte ricordano qualcosa, tutte hanno successioni di accordi standard, accordi tricolore suonati con strumenti tricolore che danno vita a composizioni perfettamente riconducibili alla musica tricolore, come la pasta e la mafia. Un unico specifico che ci siamo scelti perché ci piace essere così, ignoranti, mascalzoni latini e diversi da tutto.

Subsonica – Realtà aumentata

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Avete presente quel giochino del genio della lampada e dei desideri impossibili da esaudire, quello da fare da soli o in compagnia? Anche se si tratta poco più di un innocuo pourparler, io non sprecherei comunque un’opportunità di questa portata con inutili velleità come vincere alla lotteria, sposare la mia attrice preferita, possedere la forza fisica di Superman, beneficiare dell’immortalità o essere investito del superpotere dell’invisibilità per fare i dispetti alle persone a casa loro. Resti tra noi, ma ho sentito persino di gente che opterebbe per un giorno da trascorrere nella Roma dei tempi di Ottaviano Augusto per assistere, dal vivo, a una conversazione in latino.

Per me, con un solo desiderio impossibile a disposizione, nulla di tutto questo. Io chiederei il dono di poter ascoltare di nuovo i Subsonica per la prima volta. Di poterli ascoltare senza averli mai sentiti prima, senza sapere chi sono.

Chiederei al genio della lampada di ricevere di nuovo la telefonata di quel cantante mio amico un po’ strambo, quello nell’entourage degli Africa Unite, che mi lancia l’idea di accompagnarlo al primissimo esordio live del nuovo progetto di Max Casacci, chitarrista appena fuoriuscito dalla band di Madaski e Bunna, e lì scoprire che si tratta della stessa band notata qualche settimana prima in un discobar del ponente ligure, in una formazione non ancora definita, alle prese con un’originale cover di “Impressioni di settembre” della PFM, addirittura con il celebre tema di synth riprodotto con il basso e arrangiata con quel ritmo reggaeggiante che, poco dopo, sarà utilizzato per “Cose che non ho”.

Chiederei al genio della lampada di non aver mai assistito a più concerti dei Subsonica nel periodo d’oro (dall’esordio omonimo fino ad Amorematico) di qualunque altra band o artista nel resto della mia vita fino a oggi e di cancellare dalla mia memoria anche gli svariati aneddoti tratti dal loro diario di bordo (se eravate sull’Internet nel 1998 o 1999 sapete di cosa parlo).

Gli chiederei non di aver mai portato mia figlia a sette anni a un loro concerto al Forum di Assago, da cui poi scappare lei, mia moglie ed io alla prima canzone (pur avendo pagato i biglietti) a causa del volume e conseguente rimbombo dei bassi e della cassa insostenibile, per la sua età. Una reazione piuttosto prevedibile, nonché meritato contrappasso a fronte di un patetico tentativo di ingerenza sui suoi gusti musicali

Mi porrei così al cospetto di Realtà Aumentata dei Subsonica senza conoscere nulla dei Subsonica. Tabula rasa e completamente vergine sui Subsonica ma non nel 1996, bensì oggi, ai tempi delle friggitrici ad aria, della guerra nella striscia di Gaza, di Lollobrigida, di Rondo e Baby Gang, del bonus 110, dei novax, dei video tutorial e del digiuno intermittente.

Il punto è proprio questo: l’ascolto di Realtà Aumentata esaudisce in parte il mio desiderio impossibile. Ascoltare Realtà Aumentata dei Subsonica è un po’ come ascoltare, per la seconda volta, i Subsonica per la prima volta.

Se fosse così, all’uscita di Realtà Aumentata, scoprirei il genere musicale esclusivo dei Subsonica che, al netto dei gusti (può piacere o non piacere) non ha eguali, né dalle nostre parti, né altrove. Nel potere maledettamente evocativo che ha la musica, i Subsonica non ricordano nessuno se non loro stessi e solo loro sanno suonare come i Subsonica.

Il modo in cui Samuel pronuncia le vocali, le parti di synth di Boosta, la sobrietà chitarristica di Casacci, i fill di quel mostro di tecnica che sta dietro ai tamburi e lo stile con cui il basso di Vicio si infiltra dappertutto, tanto per iniziare. Per non parlare delle intrepide e spiazzanti trovate armoniche, del substrato sonoro al limite del kitsch e così denso di mandate da perdere la testa, e quel mix di vissuti musicali con cui è stato costruito il loro sound. Anzi, è incredibile come nessuno, in tutto questo tempo, abbia mai tentato di emularli, a parte qualche goffo approccio alla tenuta del palco da parte del cantante dei Negramaro. È incredibile che non ci sia nessuno, in Italia, di cui si possa dire che suona come i Subsonica, che non sia mai uscito un disco che è “tipo quel disco dei Subsonica”.

Ed è sorprendente che il pop italiano di adesso non abbia nulla a che vedere con i Subsonica (che comunque un po’ pop i Subsonica lo sono), ma nemmeno l’indie o le sperimentazioni elettroniche (che comunque un po’ indie ed elettronici i Subsonica lo sono), tantomeno i derivati della trap (no, per fortuna con la trap non c’entrano un tubo). È inspiegabile come i Subsonica siano, da sempre, al di sopra del tempo.

Eppure, se il mio desiderio venisse davvero esaudito, non potrei non ammettere la modernità di quello che sento, non appurarne la sintonia con i tempi cupi che corrono, non cogliere la maturità nella lettura della realtà e la sua efficace trasposizione in liriche per canzoni. Persino, in alcuni passaggi, ravvisare la mezza età di chi suona (Casacci è del 1963) e la sensibilità assai più credibile sia rispetto agli artisti cinquantenni super-giovani ancora in attività, sia rispetto a quelli sessanta-settantenni in andropausa artistica, pur professando, i Subsonica, un genere musicale fortemente electro-qualcosa che, da sempre, è il genere musicale giovane per eccellenza.

Tutto questo senza la necessità di fare un check, brano per brano, con la lista dei rispettivi titoli da una parte e dall’altra, tra questo e un disco perfetto come Microchip Emozionale, per calcolare la differenza di peso e di valore in qualità come facciamo sempre con i nuovi dischi dei Subsonica.

Allora, lasciatemi un paio di considerazioni. Realtà Aumentata è il disco più da Subsonica dei Subsonica dai tempi di allora, il quarto meritato successo ufficiale in ordine cronologico dopo SubsonicaMicrochip Emozionale e Amorematico, e paradossalmente il primo vero disco dei Subsonica in cui la band non si guarda indietro con lo sterile tentativo di bissare gli antichi fasti ma esprime una personalità rivolta al futuro, più autorevoli che mai.

Nessuno, degli album dei Subsonica pubblicati dopo quella stagione, può vantare la totale assenza di passi falsi tra le tracklist e di ritmi dispari come questo. “Cani Umani”, “Mattino di Luce”, “Pugno di Sabbia”, “Universo”, “Nessuna Colpa” (con la voce di Samuel modificata con il pitch nella strofa a renderlo irriconoscibile), sono un’esplosione dietro l’altra. Si tira il fiato paradossalmente solo con “Missili e Droni” e, subito dopo, con “Scoppia la Bolla”, per farsi nuovamente risucchiare nell’iperspazio di “Africa su Marte”, fino a “Grandine”, “Vitiligine” e l’addio di “Adagio”, una colonna sonora che ammicca a certe atmosfere strumentali di Low di Bowie, perfette per dei titoli di coda che ci lasceranno, probabilmente, al buio per un po’ e da soli, con il ronzio nelle orecchie.

Probabilmente il miglior disco di una band italiana riconducibile alla musica per adulti degli ultimi decenni, Realtà Aumentata esce nella stessa settimana in cui, su uno di quei canali inutili della tv digitale, sono iniziate le repliche della prima stagione di ER e (per puro caso) ho assistito alla proiezione di Perfect Days di Wim Wenders, anche questo un link (analogico come le cassette protagoniste del film) con un periodo storico in cui il presente era perfetto. Il nuovo anno inizia con un colpo di scena. Il genio della lampada, trentenne come me nel 1997, mi sta inviando dei segnali. Allora chiudo gli occhi e conto fino a tre, magari è la volta buona che un desiderio impossibile si avvera.

I Feel Good ma che finisce malissimo

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Fin Del Mundo – Todo va hacia el mar

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“Nessun suono tranne quello del vento, che sibila fra i cespugli spinosi e l’erba morta”. Questo è l’ascolto della Patagonia che ci ha restituito Bruce Chatwin, testimone acustico (a corollario di un’intera letteratura) di un luogo, anzi, di un concetto che, come poche altre cose al mondo, a noi da questa parte del pianeta evoca l’idea di distanza e di estremo. Oggi quella remota lingua di continente, che vista sul planisfero sembra frammentarsi nella Terra del Fuoco, può contare su un soundscape più moderno ma di altrettanta desolazione e nostalgia grazie alle composizioni delle Fin del Mundo.

Non c’è nome più adeguato per una band nata tra i venti gelidi e i panorami surreali della provincia di Chubut (costa atlantica dell’Argentina più a sud) e poi cresciuta a Buenos Aires a ridosso della pandemia, periodo durante il quale il nome Fin del Mundo ha assunto una seconda accezione e poi una terza, la più recente, come riflesso della complessa situazione internazionale. Che sia inteso come remota periferia del pianeta, estinzione da virus o game over dovuto alla guerra, come la guardi comunque non c’è molta speranza. Il viaggio dell’umanità si conclude ai piedi di un faro ai limiti della Terra, proprio come l’artwork di copertina di Todo va hacia el mar, il folgorante album di esordio di Julieta Heredia (chitarra), Julieta Limia (batteria), Lucía Masnatta (chitarra e voce) e Yanina Silva (basso). Nell’illustrazione si vede una viaggiatrice con lo zaino sulle spalle che osserva il mare oltre il quale non ci si può più spingere, perché tutto finisce lì.

Todo va hacia el mar in realtà riunisce i due EP pubblicati solo in digitale dalla nascita del gruppo nel 2019 in una edizione speciale e limitata su supporto fisico (sono l’orgoglioso proprietario della copia n. 50 in vinile trasparente). Il primo dei due, omonimo alla band e risalente al 2020, è risultato decisivo per due fattori: ha permesso alle Fin Del Mundo di rimanere unite in un periodo di separazione forzata e a così poco tempo dalla fondazione, ed è stato di altrettanto conforto ai primi supporter della band, costretti in casa dal lockdown. Il tutto grazie a un messaggio di conforto: una fine del mondo lascia comunque spazio a una seconda opportunità, qualunque essa sia.

Lo stile delle Fin Del Mundo può essere ricondotto a un indie rock con sconfinamenti nel post rock e in alcune trame shoegaze, anche se non è difficile cogliere spunti di tardo post punk e qualche più garbato ripensamento dream pop. Nelle composizioni di Todo va hacia el mar si percepisce l’approccio diretto e live della band (il one-two-three-four di bacchette che introduce “La Noche”, prima eccellente traccia del disco, non lascia dubbi), con lunghe divagazioni strumentali che mettono ancora più in evidenza i momenti in cui le canzoni riprendono una conformazione più strutturata ma sempre agli antipodi, più o meno come la Patagonia, dell’alternanza strofe e ritornello. Una manciata di versi per ogni brano o poco più. Un sound basato su due chitarre perfettamente amalgamate, pronte ad alternare arpeggi puliti a pennate graffianti.

Todo va hacia el mar si compone di otto brani, pochi ma superlativi e, soprattutto, più che sufficienti a restituire un quadro completo delle potenzialità delle quattro ragazze. “La noche” è un’intro perfetta, veloce e con il taglio più indie rock del disco, in perfetto contrasto con il dream pop di “Las flores” e della successiva “La distancia”. Il brano che si intitola come loro, “El fin del mundo”, sconfina addirittura in atmosfere shoegaze.

In perfetta simmetria, anche il lato B del disco, introdotto da “Hacia los bosques”, si avvia come la prima facciata. “El proximo verano”, la traccia che segue, condensa tutte le anime della band e, di tutto l’album, forse è quella che più si avvicina ad essere riconoscibile in una veste da singolo. Chiudono il disco la struggente e poetica “Desvelo” e “El incendio”, una canzone a due marce (la prima sorretta da un intreccio di chitarre che ci riporta ai Cure di “Wish”) che contiene il verso da cui è tratto il titolo dell’album: “Me dejo llevar, me dejo llevar, Si todo va hacia el mar, Todo va hacia el mar”.

Per i gruppi che provengono dalla fine del mondo, o quasi, lo sforzo per approdare al pubblico dell’emisfero settentrionale è triplice. Non basta convincere, occorre anche trovare spazi per emergere che devono risultare adatti a una proposta in lingua spagnola, in un oceano di offerte sempre più eurocentriche. A dimostrazione della loro qualità, il live delle Fin del Mundo alla KEXP in poco più di un anno ha superato ampiamente il milione di visualizzazioni. C’è poco da stupirsi. Todo va hacia el mar è un viaggio in Patagonia ai tempi del villaggio globale raccolto in un disco sorprendente e in uno degli esordi più piacevoli e convincenti di quest’anno. Se laggiù davvero il mondo finisce, si intravede comunque qualcosa all’orizzonte per ricominciare tutto da capo, e meglio di prima.

Bleach Lab – Lost in a Rush of Emptiness

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Quello dei Bleach Lab è uno splendido dream pop basato sulla chitarra di un chitarrista che, a ridosso della pubblicazione dell’album di esordio della band (il disco di cui sto scrivendo) ha mollato il colpo.

Ve lo dico perché avevo appena sistemato l’attacco per questa sorta di recensione e faceva più o meno così: Jenna Kyle e Frank Wates dei Bleach Lab passeranno alla storia come una di quelle coppie voce e chitarra che il destino ha voluto far incontrare apposta per rendere immortale la reciproca complementarità. Stavo addirittura per tirare in ballo Morrissey e Johnny Marr, o Elizabeth Fraser e Robin Guthrie. Poi (è stato per puro caso) mi hanno insospettito delle riprese di un live dei giorni scorsi, pubblicate su Youtube, e una foto promozionale che accompagna il disco: le facce dei chitarristi sono oggettivamente diverse.

È stata sufficiente una ricerca sul loro profilo Facebook per recuperare il post dell’annuncio della separazione, risalente ai primi di ottobre, a farmi riflettere sul fatto che il prossimo disco sarà più che una prova del nove per questa talentuosa band londinese. Mi chiedo infatti quanto sia stato determinante lo stile dell’ormai ex-chitarrista Frank Wates per il suono nativo che mi ha catturato così tanto da farmi innamorare di loro e per il valore che ha aggiunto ai Bleach Lab. Se il futuro secondo trentatrè giri dei Bleach Lab funzionerà allo stesso modo di Lost in a Rush of Emptiness, e ce lo auguriamo con tutto il cuore, e il chitarrista che lo rimpiazzerà sarà più di un mero turnista, significa che ci troviamo al cospetto di un band con una personalità incredibile e sufficientemente forte e matura a prescindere dalle individualità al netto di Jenna Kyle, la cantante, che, forte del suo ruolo, ha più voce in capitolo di tutti.

Ma, almeno per ora, godiamoceli così. I componenti dei due classici della musica che ho citato poco fa non sono stati tirati in ballo a caso e non solo per lo stile in sé. I Bleach Lab sono veri maestri nel restituirci (con sobrietà e poesia) emozioni catturate con una sensibilità che rimanda ai The Smiths nella loro versione più sommessa e trascurabile e ai Cocteau Twins meno intransigenti e più alla mano (quindi a glossolalia rottamata) di Heaven or Las Vegas. Due riferimenti colti nella loro dimensione da b-side (un richiamo alle rispettive hit suonerebbe stucchevole) attraverso rimandi accennati e riscritti secondo i canoni della percezione della musica da vecchi che ha la generazione millennial. Che poi non è proprio così: la storia del dream jangle indie pop è piena di chitarrine pulite e riverberate a fare da culla a voci eteree femminili in ogni decennio, lascio a voi (dai The Sundays ai Mazzy Stars ai Daughter) il piacere della speculazione nelle similitudini.

E il bello di Lost in a Rush of Emptiness, titolo riconducibile alle liriche postume di Leonard Cohen, va individuato nella sfida a smarrirsi per non ritrovarsi lungo il confine impreciso in cui si amalgamano proprio canto e accompagnamento musicale, quello spazio in cui l’uno si confonde egregiamente nell’altro e viceversa. Un aspetto sorprendentemente convincente (e molto più a fuoco di quello che lascerebbero intendere dalla foto di copertina del disco) per una band agli inizi come i Bleach Lab. Sono proprio loro, nelle interviste a supporto dell’uscita del disco di debutto, a dichiarare di aver lavorato meticolosamente e con professionalità alla sua realizzazione.

Non a caso Lost in a Rush of Emptiness suona come una bomboniera artigianale da prima comunione se paragonato al clamore dei chiassosi cotillon musicali a cui siamo sempre più esposti, aspetto che si intuisce sin dalle prime note di “All Night”, il brano introduttivo del disco: nessun incipit d’effetto o crescendo mozzafiato, ma solo un fill di tamburi da prima settimana di lezioni di batteria. Essenziale ma efficace, la prova della mancanza di spazio per gli individualismi in un progetto di questo tipo, a tutto vantaggio delle loro composizioni.

E a marcare la differenza con le tematiche mainstream, l’approccio in punta di piedi dei Bleach Lab è una boccata d’aria fresca. La gentilezza e la sensibilità come linguaggio prestato a tradurre in canzone disfunzioni intime, a partire dalle relazioni claustrofobiche e velenose, il dolore e le angosce d’amore, l’isolamento, la dipendenza dall’alcol e persino un tema urgente come quello delle molestie sessuali. Una tracklist colma di spleen in cui è prevista la redenzione finale, un brano in cui la band canta con pochissima convinzione che “Life Gets Better”, la vita migliora. Ma chi volete prendere in giro, con quei suoni e quel mood lì? Lost in a Rush of Emptiness è l’ennesima prova del fatto che non ha senso ascoltare musica che non sia deprimente.

E, da questo punto di vista, è davvero difficile trovare un difetto in un disco come questo. Il pop shoegaze dei Bleach Lab impone tempi dilatati alle canzoni e, di conseguenza, ci lascia tutto lo spazio per bearci della malinconia e del disagio, sentimento del quale, anche nei momenti più di successo della nostra vita, un po’ di scorta abbiamo sempre da qualche parte. Un disco che raccoglie gli insegnamenti di un filone perfetto per crogiolarsi nel malessere e continuare a far finta, almeno per l’ascolto dell’album, che lo stiamo accettando, ci stiamo convivendo e stiamo provando (“guarda un po’”, raccontiamo a noi stessi) a trovare persino una via d’uscita. Ed è una fortuna (l’unica) che dischi come questo durino poco.

Egyptian Blue – A Living Commodity

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Stare dietro alle nuove uscite di dischi post-punk e distinguere quelle di reale qualità, di questi tempi, è un’impresa. Il rischio per i militanti del genere, soprattutto se emergenti, è quello di rincorrere l’affermazione affiliandosi a uno dei generi del momento senza una visione a lungo termine. Ogni nuova uscita è bene prenderla con riserva. Molto meglio aspettare il secondo disco, per verificare se si ha a che fare con un progetto da una botta e via o c’è invece dietro della sostanza in grado di garantire la crescita e la definizione di uno stile più personale.

In questo scenario, possiamo considerare gli Egyptian Blue un’eccezione a tutti gli effetti. Il loro debutto a trentatré giri dal titolo A Living Commodity suona già come una conferma e un traguardo di maturità compositiva.

Sarà che la band pubblica singoli e EP dal 2019 e che (sopravvissuti alla selezione naturale artistica imposta dal lockdown) sono stati chiamati a condividere il palco con gruppi della portata degli Idles e dei Foals nei loro tour. I rispettivi leader, Joe Talbot e Yannis Philippakis, si sono dichiarati sostenitori entusiasti di questo quartetto originario di Colchester, poi cresciuto musicalmente a Brighton. Non a caso, se vogliamo dare delle coordinate, gli Egyptian Blue professano influenze indie-rock anni 2000 (che grazie a loro acquisisce lo status di classico a tutti gli effetti) più che dall’onnipresente famedio degli anni ’80.

Il nucleo fondante di questa nuova promessa del post-punk è capitanato dal ticket Andy Buss e Leith Ambrose, entrambi chitarristi e cantanti che si frequentano musicalmente dall’adolescenza, e completato dalla potente propulsione ritmica di Luke Phelps al basso e Isaac Ide alla batteria.

Il quartetto è artefice di un suono che rielabora gli standard specifici del genere con un inconfondibile piglio personale, caratterizzato da riff graffianti che sconfinano nel math-punk, spesso in tempi dispari, ripetuti in loop, e destinati a incastrarsi brutalmente in basi quadrate e martellanti, sulle quali si normalizzano straordinariamente in un andamento regolare e ipnotico. Nell’insieme, un suono elettrico e pulito basato sulle chitarre, veloce e a forte impatto, con tracce essenziali e compatte che concentrano, in tre minuti o poco più, tutto quello che c’è da dire.

Il disco suona nervosissimo dal primo all’ultimo brano, sia nelle tracce in cui l’intransigenza post-punk non ammette compromessi, come “Matador”, “Nylon Wire”, “To Be Felt” e “Contain It”, sia nei brani in cui la voracità esecutiva lascia spazio all’introspezione e all’atmosfera, è il caso della titletrack, di “Apparent Cause” e di “Suit Of Lights”, sia negli episodi più riusciti del disco, in cui la rabbiosa scrittura della band è mediata dalle incursioni in trovate ritmiche scomode ma gestite con grande perizia, grazie alla tecnica esecutivo dei quattro. È infatti in canzoni come “Belgrade Shade”, “Skin”, “In My Condition”, “Geisha” che A Living Commodity risalta nella sua eccezionalità, grazie a uno stile fuori dagli schemi che ci auguriamo che la band – sicuramente una delle più convincenti promesse della più recente scena anglosassone – abbia l’intenzione di approfondire.

Di certo, l’esordio degli Egyptian Blue, perfezionato lungo varie scritture e riscritture e pubblicato da YALA! Records, etichetta co-fondata dall’ex componente dei Maccabee Felix White, è uno dei più freschi debutti sulla piazza. Un’opera prima ambiziosa di una band destinata a lasciare il segno