Matt Berninger – Get Sunk

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Quella di fare a un certo punto della carriera il cantante solista dovrebbe essere una cosa da sconsigliare fortemente, agli artisti. Nel manuale di istruzioni di qualunque gruppo musicale dovrebbe esserci una sezione a sé con tutte le controindicazioni di questo vezzo messe nero su bianco, un bugiardino con gli effetti collaterali. Certo, mollare il resto della band, magari sul più bello, è il male assoluto. Ma anche nei casi di pause programmate dall’attività principale, o estemporanee velleità di auto-affermazione senza il proprio team di riferimento nei tempi morti, la voce di un gruppo è destinata a restare per sempre la voce del suo gruppo.

Nel caso di Matt Berninger, poi, le aggravanti le conosciamo tutti: il suo timbro baritonale, il suo fascino da intellettuale per sad dad – proprio come la sua musica, il contrasto tra l’eleganza del suo look e l’improbabile scompostezza sul palcoscenico, i toni dark e malinconici delle sue liriche.

E non è che a suonare con i The National non si stia con le mani in mano. Nel 2023 hanno pubblicato 23 canzoni nuove di zecca in ben due dischi e si sono imbarcati persino in un lungo tour mondiale. Avere il tempo e le energie per un album solista, immersi in un’esperienza totalizzante come quella, non è davvero da tutti.

Per Matt Berninger, come sappiamo, non è però la prima volta. Return to the Moon, l’album del progetto El Vy realizzato a quattro mani con Brent Knopf dei Ramona Falls, risale a dieci anni fa, mentre il vero esordio in perfetta solitudine, Serpentine Prison, è del 2020. Un disco figlio del lockdown, nell’accezione positiva e negativa di questa definizione. Uno spin-off della discografia dei The National, una variante del genere a cui ci hanno abituati, piacevolmente depotenziata grazie all’assenza degli ingombranti gemelli Dessner e della particolare ritmica dei fratelli Devendorf, il vero marchio di fabbrica del quintetto indie più influente di Brooklyn.

Una combo che spinge, con la sua drammaticità compositiva ed esecutiva, le canzoni a una potenza espressiva piacevolmente estenuante, aspetto la cui assenza in Get Sunk, proprio come nel suo esordio da solista, risalta sin dal primo ascolto. Una versione dei The National per principianti, senza pretese, strutturalmente più cantautorale e meno intensa (quindi più diretta) in cui il timbro di Matt Berninger va a ricoprire una dimensione differente e inusuale.

Un’impressione che colpisce sin dall’incipit, la chitarra che introduce “Inland Ocean”, una versione di “Terrible Love” (gli accordi sono quelli) dai toni meno high violet e più pastello, un mare che poi è un grande lago metaforico in cui immergersi sino a sparire (è il titolo dell’album a intimarlo agli ascoltatori) crogiolati dalla depressione e dalla nostalgia. Un mood che persiste nel brano successivo, “No Love”, dove almeno è la musica a lasciarci fluttuare nella speranza.

La successiva “Bonnet Of Pins”, insieme a “Little By Little”, richiama con decisione l’occupazione principale di Matt Berninger, come i riuscitissimi duetti con le voci femminili, veri alter ego nei toni acuti della profondità della sua voce. Nel delicato indie-folk di “Breaking into Acting” l’ospite d’onore è Meg Duffy degli Hand Habits, mentre la controvoce particolarmente cool di “Silver Jeep” (eccezionale quanto la parte affidata alla sezione fiati) è Ronboy, due brani che non sfigurerebbero in quel tripudio di collaborazioni e duetti che è I Am Easy To Find. La stessa “Junk”, canzone poco più che acustica, data in pasto ai The National, ne uscirebbe rivoltata come un calzino. C’è un altro varco con il passato che è “Nowhere Special” e il suo provocante recitato confidenziale, già sentito e apprezzato in “Smoke Detector” di Laugh Track.

Ma sarebbe riduttivo relegare Get Sunk a una serie cadetta in cui militano gli scarti dei The National, una tracklist di canzoni di riserva messe da parte perché non si sa mai. Matt Berninger da solo sa colmare ogni lacuna strutturale (e strumentale) con le sue parole e i suoi consigli, a partire dal messaggio finale, l’ultima traccia, non una title track ma il vero senso di tutto il disco in cui la sua non-filosofia riesce a trovare un antidoto per tutto, perché in certi casi, davvero, non si può fare altro: bere e tanto per non sentire il dolore, sprofondare se ti viene da piangere, dimenticare nei momenti di vergogna, bagnarsi se piove, e soprattutto stare a casa quando ci si sente soli, perché le persone ti fanno sentire ancora più solo. In attesa del prossimo disco dei The National, noi sad dad non chiediamo altro.

Goddess – Goddess

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Uscite in una fase di risacca tra le due ondate del post-post punk (la prima, quella di Turn On The Bright Lights, e la seconda e decisiva, vent’anni dopo, quella di cui ci troviamo nel pieno) le Savages forse non hanno avuto il riconoscimento e il successo meritato. Probabilmente quello non era il momento più adatto, ma di un disco come Adore Life, pubblicato nel 2025, ora saremmo qui a chiederci quale posizione attribuirgli nella classifica degli album dell’anno.

Un quarto di quella forza propulsiva e quell’ardore sperimentale era dovuto a Fay Milton e al suo drumming trascinante, essenziale e primitivo, perfetto per il sound apocalittico della band.

Messa in stand-by la batteria, la musicista londinese si è votata con passione alla causa ecologista, dando vita al movimento Music Declares Emergency e alla campagna No Music On A Dead Planet, un’iniziativa che ha riunito artisti e professionisti dell’industria musicale per ottenere risposte immediate dei governi all’emergenza climatica. Le canzonette hanno tutto il potere necessario per promuovere un cambiamento culturale e salvare dall’estinzione noi e tutti gli esseri viventi. O almeno a idealizzare la propedeuticità e la parvenza di una rivoluzione.

Nel suo progetto Goddess, e nel suo esordio omonimo, troviamo per la terza volta lo stesso ardimento volto a raccogliere energia intorno a un’idea. Questa volta non è uno scontato tentativo post-punk a guidare un’operazione modaiola per meri fini di profitto. Piuttosto, ci troviamo al cospetto di una ricerca più ampia, inclusiva e trasformativa che mette al centro il desiderio, il dolore, il corpo e qualche suggerimento per affrontare tutto questo. Goddess è anche il titolo omonimo di un concept costruito attraverso collaborazioni all’interno di un pantheon indie, esclusivamente femminile e non binario, che alterna urgenza politica, visioni dark, riflessioni esistenziali e abbandoni sensoriali, il tutto sostenuto da una produzione che mette in discussione l’industrial grazie al trip hop, e l’alternative attraverso il songwriting più viscerale.

L’idea di Goddess è nata già pronta all’uso e con un obiettivo preciso: onorare la sorellanza e l’energia comunitaria che si crea quando musiciste indipendenti collaborano mosse dall’impeto della ricerca senza compromessi. Fay Milton ha trovato in questo approccio una libertà nuova, priva dei vincoli e delle convenzioni dell’industria musicale, a partire dall’ossessione di quel circo itinerante che è l’esibizione live. Il disco, così, si attesta a organismo collettivo e modulare. Non una band, non un progetto solista, ma un’entità dinamica in grado di crescere e cambiare forma. Un movimento a cui aderire per mettere al centro la comunione di intenti, un non-luogo in cui la metodicità messa a click e arricchita dai campionatori dei Massive Attack incontra l’anarchia guitar based delle Desert Sessions di Josh Homme.

Il disco si apre con “Little Dark”, una ballad magnetica cantata da Shingai (ex Noisettes) e che centellina emozioni senza ritorno di una Londra post-pandemica attraversata a piedi. È un brano crepuscolare, dolente e allo stesso tempo rivolto verso una nuova alba in cui un timbro cristallino risuona dominando i rumori inquieti di sottofondo. Un traccia che lascia graffi sulla pelle (provate a rialzarvi illesi dopo il vortice che, a metà della canzone, inghiotte qualunque cosa senza lasciare superstiti) e che mette subito le cose in chiaro: Goddess non è un disco per poser.

“Shadows”, seconda traccia e primo estratto pubblicato come singolo, è già un inno a sé. L’interpretazione solenne e vulnerabile dell’amica Elena Tonra (l’anima dei Daughter) vibra sospesa tra il basso ingombrante di Ayse Hassan (anche lei ex Savages, la prova che all’interno delle sezioni ritmiche nascono e crescono sodalizi indissolubili) e le linee di pianoforte dell’artista Hinako Omori. Ci troviamo di fronte a una delle vette del disco, un brano che implode su un ritmo la cui fragilità è fin troppo evidente, dominato dalla voce che si irradia dalle macerie sonore.

Tra gli episodi più viscerali troviamo anche “Animal”, cantata da Delilah Holliday, icona underground delle autoproduzioni londinesi. Un’ode sensuale e minacciosa diretta alla componente più istintiva dell’essere umano. È lei a decidere il gioco quando ci intima, con tono velenoso, “scusate il mio comportamento, non sono altro che un animale”, accompagnata da una ritmica e da sequenze di synth che risuonano come una minaccia. E ancora più brutale è l’esplicita “Fuckboy”, un bombardamento industrial diretto da una linea di basso ostinato che evoca i fasti di “Army Of Me”, con la performer Salvia a incarnare tutto il fastidio e la freddezza che il titolo promette in una combinazione che va a ferire i sentimenti con precisione chirurgica.

Ma Goddess sa offrire ben altri registri di tensione. In “Golden”, versione in inglese di “Grande” degli Afterhours, la voce di Stevie Parker è accompagnata da una toccante melodia di pianoforte che si apre in un abbraccio orchestrale. Un omaggio intimo all’amicizia di Fay Milton con Manuel Agnelli, e un raro esempio di remake che riesce ad aggiungere valore al brano originale.

Di “Bad Child” colpisce l’attenzione alle parti di batteria, con un pattern che tradisce una piacevole ingerenza dovuta a una più che giustificata deformazione professionale. Il featuring dell’amica Isabel Muñoz-Newsome contribuisce a rendere indelebile l’amarezza delle parole mentre si parla di relazioni mai abbastanza archiviate.

A Bess Atwell e la sua “Darling Boulevard” il merito di riportarci nelle tonalità più cupe del disco, una sorta di proemio all’atmosfera in cui Izzy Bee Phillips intona la suadente melodia di “Diamond Dust”, quasi una nemesi acustica del brano precedente. Con “Bounce” è la producer Grove a riportarci – con il suo quattro quarti serrato – a forza nella dancehall. Fino alla traccia finale, quella “22nd Century”, brano di Exuma reso celebre da Nina Simone, qui reinterpretata con devastante sincerità da Harriet Rock. La sua voce scava e brucia in un crescendo cannibale, un racconto di un mondo al collasso con le stesse parole scritte nel 1970 e oggi amaramente profetiche. “Non c’è ossigeno nell’aria”, questa è l’ironia della sorte. Più che una visione distopica, siamo nei pressi di una cronaca del quotidiano.

Ma non è un saltare di palo in frasca. C’è una coerenza sorprendente in Goddess, proprio grazie alla sua natura composita. Ogni brano è una storia (e un’interprete) a sé, ed è la direzione artistica di Fay Milton a tenere tutto insieme con una sensibilità rara. Un destino nel nome: Goddess incarna davvero la potenza di manovrare le cose e rimanere pienamente se stessi, senza compromessi, per restituire al mondo (sotto forma di tributo musicale) quanto si è assorbito dalle personalità artistiche più influenti della propria vita.

L’impressione è che Goddess non sia solo uno dei dischi più ispirati dell’anno, ma anche una nuova accezione della musica d’insieme, in tempi in cui tra i solchi dei dischi si è detto quasi tutto: un suono collaborativo, sostenibile, sensibile ma radicale. È un invito a creare comunità, a mettersi a nudo, a non chiedere il permesso. Un album di rinascita e affermazione, un rituale collettivo e sonoro che affronta l’incertezza del presente. La portata di Fay Milton si conferma invincibile anche senza la sua batteria. Un’energia che costruisce ponti, scatena incendi e raccoglie anime intorno a sé. Forse qualcosa sta davvero cambiando, e questo disco è un segnale, se non addirittura la strada maestra da prendere.

TVOD – Party Time

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La lotteria degli algoritmi, che è la funzionalità più interessante delle piattaforme di musica liquida, questa volta ha incrociato i miei ascolti di routine con “Car Wreck”, seconda traccia del convincente esordio discografico dei Television Overdose, band post-punk di Brooklyn dal nome decisamente più accattivante dell’abbreviazione TVOD con cui hanno la pretesa di affermarsi al pubblico.

Ci mancavano giusto gli emuli dei The Sound e di Adrian Borland, in questa affollatissima offerta di musica per nostalgici come me, ho subito pensato. Anche se più lenta di una manciata di bpm, “Car Wreck” ricalca perfettamente l’anima di “I Can’t Escape Myself”, il brano iniziale di Jeopardy. Ho ritrovato la chitarra timidamente abrasiva che gioca con il giro ipnotico di basso, i bicordi dissonanti di gocce di sintetizzatore, l’esplosione vocale dei ritornelli come nemesi della remissività della strofa. Finalmente, mi sono detto. Dopo anni di monopolio dei Joy Division, qualcuno ci è arrivato.

Ma poi, ad ascoltarlo con attenzione, dei The Sound nell’LP Party Time c’è poco altro, se non qualche rimando del timbro di voce e di certi vezzi melodici (tributo inconsapevole) del cantante Tyler Wright, un link nemmeno tanto forzato tra la traccia “Take It All Away” e la struggente “Unwritten Law” e l’idea generale di fondo, quella di proporre un punk con curvatura post per nulla di posa, indiscutibilmente essenziale ma con una imprescindibile presenza di sintetizzatori suonati, in grado di sfoggiare solo il necessario strettamente sufficiente a coinvolgere, far riflettere, e, perché no, divertire.

Anche se, a dispetto del titolo, c’è ben poco da festeggiare. Nella sostanza, i TVOD sono ottimi autori e interpreti di un sound introspettivo e fintamente scanzonato, frutto di quel derivato dell’ironia che nasce dal disagio, dalle dipendenze, dai contrasti con se stessi, dalla disillusione verso le relazioni tra esseri umani. Un moderno post-punk per disadattati nella New York del nuovo millennio e nella dicotomia tra l’epopea delle sue narrazioni e la vita quotidiana di chi la vive, giorno e notte.

I TVOD si sono nutriti delle energie dei circuiti off di Brooklyn, incuriosendo il pubblico dei club e conquistando i fan grazie a trascinanti esibizioni live. Una band di giovani musicisti, perfetti per suonare esattamente la musica su cui hanno deciso di puntare. Insieme a Wright, hanno condiviso il palco e i solchi di Party Time Jenna Mark alla seconda voce e ai synth, la bassista Micki Piccirillo, i chitarristi Serge Zbrizher e Denim Casimir, e Michael Pahl alla batteria.

Party Time, opera rumorosa, eclettica, inafferrabile e inaspettatamente originale, comincia con una specie di rigurgito di synth, e anche solo per questo dimostra di avere tutte le carte in regola per lasciare il segno. La veloce e serrata “Uniform” – brano iniziale della tracklist – è già un inno di resa all’omologazione, quando canta “Throw me in the microwave, Wrap me up in cellophane, Civilizations crumbling, I put on my uniform”. “Pool House” e “Super Spy” sono moderne creazioni di vecchia e orecchiabile new wave, basate su incalzanti intrecci riff di chitarra e arrangiamenti di synth, per un gioco di parti altamente caratterizzante.

In “Empty Boy” la voce di Tyler Wright, fino a quel punto quasi sempre lineare e molto poco sopra le righe, trova un improvviso impeto e supera se stessa con un improbabile ritornello da crooner. Le cose si fanno un po’ più spinte in brani come “MUD” e “Wells Fargo”, in cui i distorsori diventano protagonisti e l’atmosfera si tinge di cattiveria post-grunge e stoner. Con “Alcohol” e “Bend” si torna nella no-wave, con mood taglienti e spigolosi e pattern ripetitivi, mentre “Party Time”, brano conclusivo, manifesto e title track del disco, trasmette tutta la sua potenza live con un botta e risposta tra la band (“What time is it?) e il pubblico in delirio (“Party Time!”), a prescindere dall’urgenza di quello che accade fuori, ad amplificatori spenti.

E infatti non è solo il tempo di fare festa. È anche il momento dei TVOD, un gruppo che esce con un disco giusto al momento giusto e con una proposta fortemente determinata e personale. Ma non dovete fermarvi alle apparenze. Il loro è un sound sincero, grintoso e senza compromessi, tutt’altro che un’offerta modaiola e commerciale in un’epoca di forte domanda del genere professato. Party Time è un album genuino e diretto, in grado di trasmettere tutta l’energia e la freschezza di un’opera prima.

Tunde Adebimpe – Thee Black Boltz

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I Tv On The Radio sono stati i veri precursori di quel poliedrico stile indie electro/pop/rock che oggi ci suona così familiare. Un primato merito del loro eclettismo fuori del comune, a sua volta frutto principalmente dell’incontro tra tre talentuosissimi artisti (Dave Sitek, Kyp Malone e Tunde Adebimpe) senza nulla togliere alla sezione ritmica, il compianto bassista/polistrumentista Gerard Smith, scomparso nel 2011, e il batterista Jaleel Bunton.

Non c’è testimonianza più adatta a descrivere il loro approccio e il modo in cui la band newyorkese (di Brooklyn) ha fatto tesoro di esperienze anche agli antipodi tra di loro – blues, post-punk, dance, soul, indie-rock e funk – di questa versione live di “Bela Lugosi’d Dead” dei Bauhaus eseguita con Peter Murphy e i Nine Inch Nails. Cose che, appunto, a nessuno verrebbe mai in mente di mettere insieme e che invece solo un modo di intendere la musica realmente fluido e open è in grado di concepire.

Ed è un peccato che, dopo l’uscita dell’album Seeds del 2014, l’esperienza dei TVOTR si sia messa in stand-by, modalità pronta a riattivarsi in circostanze eccezionali (come i vent’anni di Desperate Youth, Blood Thirsty Babes) ma, nel lungo periodo, a tutti gli effetti rinviata a data da destinarsi.

Un peccato perché mai come la decade successiva alla loro eclissi artistica – gli anni che abbiamo la sfortuna di vivere da comparse oggi – meriterebbe di essere sonorizzata da un collettivo di intellettuali così versatili, arguti e intelligenti come loro, un’entità artistica in cui il meglio della musica black e quella bianca coesistono per generare bellezza, nella splendida cornice di uno dei quartieri da sempre più all’avanguardia del pianeta.

Da questo punto di vista, un incipit celebrativo dei TV On The Radio risulta doveroso per un disco solista di Tunde Adebimpe. Non certo perché lui, da solo, non possa ritagliarsi una sua dignità – non dimentichiamo le sue collaborazioni con artisti del calibro di Massive Attack e Tinariwen e i suoi cameo cinematografici. Il punto è che quando si beneficia di un timbro così particolare e riconoscibile come il suo – la prima volta che ho ascoltato “Staring At The Sun”, era il 2004, senza sapere di chi si trattasse ho frainteso il brano addirittura per un inedito di Peter Gabriel – credo risulti impossibile non ripercorrere il passato, non tanto per fare paragoni ma per riconoscere il giusto merito.

Per questo non ci sarebbe nulla di male a sostenere che Thee Black Boltz potrebbe essere tranquillamente il settimo album della sua band di origine, se non risaltassero l’assenza delle iconiche armonizzazioni in falsetto di Kyp Malone e certe geniali produzioni destrutturanti di Dave Sitek. Una considerazione calzante – vi sfido a sostenere il contrario – ma che risulterebbe riduttiva al cospetto di un ottimo disco come questo.

La genesi stessa di Thee Black Boltz, una sorta di traslitterazione di “The black bolts”, i fulmini neri, meriterebbe una riflessione a sé. Dopo un periodo cupissimo per Tunde Adebimpe, durante il quale esperienze personali come la pausa artistica della band, il lutto per la perdita dell’adorata sorella e l’isolamento da pandemia hanno gettato il cantante negli abissi della depressione, l’impeto di mettersi in gioco lavorando su vecchio materiale è stato stroncato sul nascere dal furto di svariati hard disk con spunti e demo che custodiva nel garage.

Una tragica fatalità, in grado di scoraggiare il più temerario dei musicisti e indurre chiunque a cercare rifugio nell’autocommiserazione: è il destino che si mette di traverso per impedire che io riprenda a fare musica. Ma siamo in piena resilienza, e la caparbietà ha avuto la meglio. Scovato un archivio, ancora precedente, di idee rese su nastri realizzati con un registratore multipista a cassette – non c’è nulla di più evocativo del concetto di vintage, ai tempi dell’AI, di cose come il caro vecchio Tascam PortaOne – Tunde Adebimpe si è messo al lavoro partendo proprio da lì. Ancora il destino, ma questa volta con le sembianze di chi tratteggia la strada migliore per tornare a galla, grazie al ricongiungimento con le radici creative.

La produzione di Wilder Zoby (collaboratore di lunga data di Run The Jewels) ha chiuso il cerchio, conferendo profondità e coerenza a materiale grezzo ed eterogeneo con una produzione ad hoc e intuizioni sonore che spaziano dalla pedal steel liquida di “God Knows” alle sonorità atonali e asettiche dell’insonorizzazione audiovisiva.

In Thee Black Boltz i testi oscillano tra la chiusura per l’elaborazione della perdita al suo apparente opposto, la ricerca dell’esposizione emotiva, rivelando una poetica che oscilla tra lo sconforto esistenziale e una rabbiosa speranza, tra fragilità e resistenza. Un disorientamento in cui ha giocato un ruolo decisivo l’improvvisa ed estemporanea (ce lo auguriamo in tanti) condizione di solitudine artistica, soprattutto a valle di un’esperienza così marcata, identitaria e totalizzante come quella dei TV On The Radio.

Ma se nella band l’alchimia collettiva e l’apporto di personalità ingombranti offriva un contrappunto alle intuizioni individuali, la paura del vuoto ha comportato un approccio autonomo. Si è sempre soli nei momenti più difficili. Le undici tracce del disco suonano più vulnerabili ma, sotto il profilo della fruibilità, trasmettono un indubbio senso di libertà. Le pause, i groove, le transizioni sussurrate diventano parte della narrazione, restituendo un senso di umanità imperfetta ma vera.

Thee Black Boltz è un disco che, come tutti gli album a cui Adebimpe ha prestato la sua straordinaria voce solista, risulta non facilissimo e che non nasconde la presunzione di sottrarsi a un consenso immediato. Semmai è un lavoro destinato a convincere con il tempo, singolo dopo singolo, e pensato per trasmettere la sua autenticità. Una confessione privata e genuina condivisa al pubblico dei fan storici e non, e a chiunque abbia percepito i TV On The Radio come un fattore decisivo di svolta musicale a cui non è stato interamente riconosciuto il giusto valore e la reale portata di rottura. Ora è Tunde Adebimpe che torna a parlare, momentaneamente solo, ma più che mai necessario.

Mei Semones – Animaru

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Poche cose mi mandano in brodo di giuggiole come i ragazzini che si interessano al jazz o ai suoi derivati. Mei Semones di anni ne ha 24, e appartiene alla stessa generazione di Domi Louna e JD Beck, una fascia di età in cui trovare qualcuno con la voglia di studiare o anche solo approfondire una lingua quasi più morta del latino e, nel caso, comunque ostica da padroneggiare, è davvero trovare un tesoro.

Passatemi la metafora: è un linguaggio imbattibile se devi descrivere campagne contro i Galli o la fondazione di città eterne o visioni epicuree del mondo (l’equivalente degli standard e del Real Book della società dei nostri nonni) ma con un vocabolario inadeguato e privo di una sintassi all’altezza se ti devi cimentare con la modernità. Nel nostro caso, mi riferisco a gente che suona da paura, probabilmente ex bambini prodigio diventati veri e propri mostri di tecnica che ostentano senza pudore – ma anche senza alcuna presunzione – l’estrazione colta da cui provengono. Un manierismo per fortuna non fine a se stesso, semmai con il valore aggiunto del buon gusto e delle contaminazioni con cui i giovani millennials approcciano il sacro in modo profano e con la perdonabile diffidenza con cui si scartabella nelle bancarelle dei rigattieri.

E mentre il duo autore di un pezzo, anzi un album intero da novanta come Not Tight, uscito nel 2022, ha mescolato con intelligenza il nu jazz e certe atmosfere breakbeat e drum’n’bass di fine secolo scorso, Mei Semones, accompagnata da un band di giovanissimi ma ottimi musicisti, lancia una nuova sfida accostando alla fusion generi come bossanova, j-pop e (addirittura) indie rock, talvolta anche nello stesso brano, come se fosse la cosa più naturale del mondo, senza soluzione di continuità.

Intendiamoci. Alla pari del look e dell’immaginario alla Sailor Moon di Domi Louna, anche la cantautrice newyorkese sembra uscita da un cartone animato, con l’aggravante dei tratti orientali che sottolineano maggiormente i rimandi al mondo di Hayao Miyazaki. Della sua origine ha mantenuto anche la madrelingua, che sfoggia in alcune delle tracce del suo disco d’esordio, Animaru, una sorta di traslitterazione del modo in cui in giapponese si pronuncia la parola “animale”.

Più idiomi per raccontare la sua vita di giovane donna e artista nella grande mela, con i pro e i contro, i sogni e la realtà, il passato e il futuro, la famiglia (la sorella gemella è la protagonista del brano “Zarigani”), l’amicizia e l’amore. Non solo. La voce di Mei Semones è convincente anche quando supera l’inglese con il linguaggio universale dello scat, uno stile (il vero e proprio esperanto jazzistico) che brilla nei momenti in cui il cantato doppia gli elaborati temi strumentali, riuscendo a impressionare l’ascoltatore anche nelle – non poche – melodie senza parole.

Cercate quindi di non lasciarvi ingannare da tutta la tenerezza che le sue pose e il suo sound irradiano senza pietà. Intanto perché la sua sorprendente bravura, al servizio di una rara creatività, è più che certificata da una laurea conseguita presso l’autorevolissimo Berklee College of Music di Boston e da un’invidiabile (considerata l’età) esperienza di chitarrista session woman in gruppi jazz ai tempi delle superiori.

Il risultato è una tracklist di composizioni eseguite con una tecnica sopraffina. Mei Semones è accompagnata da una band di coetanei di dichiarata matrice acustica: la viola di Noah Leong e il violino di Claudius Agrippa, protagonisti di azzeccatissime sezioni di archi e di intricate linee soliste, ovunque accompagnati da una solida sezione ritmica composta da Noam Tanzer al basso e Ransom McCafferty alla batteria. Un ensemble dalla resa superlativa, in studio e live.

In Animaru (sempre che non siate allergici al genere) non sentirete mai nulla di eccessivo, di pretenzioso o qualcosa sopra le righe. Non bisogna infatti perdere di vista la matrice di songwriting alla base del progetto di Mei Semones, aspetto che, nonostante la varietà stilistica, non scende mai in secondo piano. Le strutture dei brani non lasciano dubbi e la ricchezza sonora non penalizza per nulla la sostanza del disco: un album d’esordio in cui la giovane artista condivide il suo mondo, una dimensione in cui il dominio del proprio strumento va completamente al servizio della sensibilità musicale. Nel suo jazz ibrido i virtuosismi sono solo un di cui, un design di interni di ambienti compositivi dalle solide fondamenta, strutture frutto di una già matura personalità artistica. Animaru è un disco quasi perfetto, un’opera prima in cui troviamo una Mei Semones già incredibilmente a proprio agio nel mondo della musica da grandi.

Preoccupations – Ill at Ease

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Secondo un efficace criterio di catalogazione del materiale relativo alle numerosissime band post-punk del decennio in corso, il timbro di Matt Flegel, cantante e bassista dei Preoccupations, va archiviato sotto la cartella Richard Butler. E se per i primi quattro dischi del gruppo di Calgary si poteva anche minimizzare, tirando in ballo solo una vaga reminiscenza dei Psychedelic Furs, peraltro smaccatamente soggettiva, vi sfido ad ascoltare (questa volta un po’ più prevenuti, o anche solo incuriositi da queste mie considerazioni) la title track di Ill at Ease, il loro nuovo album, e a immaginare i Preoccupations suonare quella stessa canzone sotto un acquazzone, senza ombrello, proprio come nel video di “Heaven”, sempre che, anche per voi, non ci sia nulla di sbagliato nel potere evocativo della musica. Anzi.

E la prova che gli anni ’80 dei Preoccupations sono solo presunti, e per nulla rigorosi, va rintracciata nelle tematiche dei testi e nel retrogusto sonoro che lasciano i loro brani nell’ascoltatore, sin dai tempi dell’incompreso quanto cupo esordio a nome Viet Cong. Un disagio (Ill at Ease, appunto) dichiarato e per certi tratti ingenuo che proviene sin dalle origini e che – disco dopo disco – è cresciuto sino a contaminare tutte le trame di uno stile sempre più elaborato. Un tratto caratteristico che manifesta al massimo, proprio nell’album appena pubblicato, la sua perfetta espressione, la sua identità più definita, la sua piena maturità, la sua straordinaria eleganza.

Dei Preoccupations, in Ill at Ease troverete ancora l’estetica e la ritmica new wave nella variante più elettro-crepuscolare con il valore aggiunto delle chitarre post-punk (pulite e distorte) in strutture compositive spesso a blocchi dispari, d’altronde farci contare fino a quattro per tre volte è il loro vero marchio di fabbrica.

Ma con i Preoccupations non c’è da preoccuparsi. In ogni brano di Ill at Ease troverete sempre una backdoor ad attendervi, una voluta distrazione pop che vi permetterà di scavalcare dall’altro lato della canzone per percepirla all’opposto rispetto alla piacevolezza trasmessa durante un qualsiasi ascolto radiofonico e approssimativo, una svincolo in grado di farvi invertire il senso di marcia, a ritroso finalmente fino al cuore dello spleen. L’esempio più calzante è l’improvvisa variazione di mood che prende la prima traccia del disco, “Focus”. Nel bel mezzo di una sequenza armonica da manuale, la band azzarda un cambio con una successione di accordi apparentemente a casaccio e fuori da ogni logica, una serie così destabilizzante ed estemporanea che coglie di sorpresa, assieme all’intreccio di cori sgraziati che vi si inerpica intorno, per un risultato in grado di mettere a tappeto i più assidui frequentatori della regolarità.

Musiche diversamente orecchiabili come basi per testi senza speranza, nati da riflessioni sul contesto socio-politico attuale, agli antipodi dall’ebbrezza edonistica dell’era duraniana con cui, al cospetto dei Preoccupations, ci si spertica a sfoggiare le più ardite comparazioni. Parole chiave che non lasciano dubbi: estinzioni collettive da asteroidi, galassie in collisione, apocalisse, gente seppellita viva, terremoti, autodistruzione, cieli che crollano, eclissi permanenti, panico, ma anche semplici e innocui suicidi.

Nell’insieme, Ill at Ease è un disco che parte in una direzione per concludersi completamente fuori rotta. Appena otto canzoni con un punto di svolta nel mezzo che non poteva che intitolarsi “Retrograde”, una non-ballad che sembra rispedire al mittente i primi tre accomodanti brani, non a caso due dei quali (i già citati “Ill at Ease” e “Focus”) pubblicati nei mesi scorsi come singoli per confondere le idee nell’anticipazione del trentatrè giri. Da quel punto, oltrepassata la metà del disco, i Preoccupations cambiano registro e lo portano agli antipodi con il nervoso e liberatorio riff di chitarra di “Andromeda”, il dark di “Panic”, il math-industrial di “Sken” e l’apoteosi finale di “Krem2”, probabilmente la traccia più sorprendente di tutto il disco, con il suo alternarsi di emozioni indotte dal vortice ipnotico dell’arpeggio e dall’incursione nel solenne chorus che ne prende il posto.

Ill at Ease è sicuramente ad oggi il disco più raffinato dei Preoccupations, una band che dimostra di crescere ed evolvere il proprio suono pur mantenendo inalterato e riconoscibilissimo lo stile. Un lavoro in costante equilibrio tra consonanze e dissonanze, per una tensione piacevole e sgradevole allo stesso tempo che non sempre, come è prassi per la loro musica, fortunatamente finisce bene e si risolve in quello che ci piacerebbe sentire. Un approccio che, a un ascolto meno attento, può essere riduttivamente travisato per un compromesso con la commercialità. Che poi, se può essere funzionale per apprezzare i Preoccupations al di fuori del loro fedele seguito off, per me va benissimo così.

Valerie June – Owls, Omens and Oracles

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In un momento storico dominato dall’ansia globalizzata e da un inarrestabile stillicidio di pessime notizie (a corollario di altrettante tragedie) Valerie June dà alle stampe un disco concepito in una dimensione parallela, che per una songwriter del Tennessee non può non coincidere con uno scenario privo di Donald Trump.

Un’opera in cui la resistenza al pessimismo cosmico torna a essere protagonista, a scapito della resilienza e dei suoi compromessi (probabilmente abbiamo esaurito le scorte, o semplicemente ne abbiamo i coglioni pieni) e con il valore aggiunto di un approccio spirituale. Owls, Omens and Oracles è un gospel collettivo che agevola il ricongiungimento dell’ascoltatore con se stesso e risplende flebile come una di quelle lampadine che gli scout indossano sulla fronte per raccapezzarsi nelle tende di notte, facile metafora della riconnessione con la propria luce interiore ai tempi di uno dei black-out più longevi nella storia della civiltà come la conosciamo.

Per questo, se come me ritenete fuori da ogni senso logico l’ascolto di musica che non sia deprimente, il sesto disco di Valerie June lasciatelo stare, non fa per voi. La potente forza salvifica che scaturisce sin dalla prima traccia del disco farà brandelli del vostro spleen. Quell’inconfondibile timbro agrodolce che evocava ancestrali storie di dolore e fatica nei blues di donne costrette a lavorare come i maschi, oggi canta la gioia come non l’avete mai sentita, come impeto di opposizione estrema alla sofferenza. In un modello sociale che promuove rabbia e rassegnazione, Owls, Omens and Oracles è un cantico della felicità come atto di coraggio, la torcia accesa del fuoco che vince l’oscurità.

Quattordici tracce dai titoli che lasciano poco spazio alla sicurezza di una corroborante disperazione: “Joy, Joy!”, “All I Really Wanna Do”, “Endless Tree” e la sua coda da musical, “Inside Me”, dai tratti da road song, “Trust The Path”, con un giro su cui ci si può divertire a contro-cantare una qualunque strofa di De Gregori, l’originale incedere terzinato di “Love Me Any Ole Way”, “Changed”, che vede il featuring dei The Blind Boys of Alabama, “Superpower” – su tutti il brano più intrigante, merito anche del pattern di batteria che richiama la trap, “Sweet Things Just for You”, un preludio country alla raffinatissima “I Am In Love” (cosa di cui, a giudicare da tutta questa euforia, non avevamo dubbi), la suggestiva “Calling My Spirit”, un’orazione corale di più tracce tutte registrate con la sua voce, e le conclusive “My Life Is A Country Song”, “Missin’ You (Yeah, Yeah)” e “Love And Let Go”, brano impreziosito da una coinvolgente sezione fiati a contorno della linea vocale. Singoli momenti di riflessione per un tratto narrativo che esorta a prendere consapevolezza del potere unico di cui siamo stati provvisti. La nostra missione: cambiare le cose con l’amore e la gentilezza, anche quando sembrano fuori luogo.

Ed è Valerie June in persona ad accompagnarci lungo questa rivoluzione tutta interiore con il suo stile, il suo modo di suonare chitarre e banjo, e il suo approccio al canto secondo i canoni più appropriati, di volta in volta. Una costante alternanza tra blues, soul, folk, gospel e country, un ritorno alle radici della comunità afroamericana incrociate con la musica dei bianchi, un richiamo all’eredità spirituale e culturale tramandata dalla tradizione a stelle e strisce in un messaggio universale: c’è qualcosa più grande di noi che ci lega con trame di amore – anche se non sembra -, di dolore – già più plausibile -, e di opportunità di riscatto, che non sempre sappiamo cogliere.

Temi classici e schemi narrativi consolidati, uno specifico del genere ma esposto con un gusto raro e uno sguardo di originalità, frutto anche della produzione di M. Ward. La debolezza si trasforma in arma, uno strumento devastante in grado di condurre alla vittoria. Aprite i vostri cuori, la sentiamo cantare tra le righe, soprattutto quando il rischio di esporsi al prossimo può fare la differenza tra esseri umani.

Owls, Omens and Oracles è una seduta di meditazione, un invito a concentrarci sul respiro per ritrovare l’anima e la sua essenza. Un album che va oltre la musica, in grado di trasmettere riti collettivi e odi alla vita, in tutte le sue accezioni. Un disco tra paura e speranza che risuona proprio in quel frammento e in quell’istante tra esse compreso e da cui si sprigiona la gioia, sentimento allo stato puro, da rendere in melodia.

musica da papà

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La visione del film “Bird” mi ha spalancato un mondo introducendomi alla regista britannica Andrea Arnold, di cui ahimè ignoravo l’esistenza (so cosa state pensando) e il cui nome addirittura ho pronunciato alla francese, Andrè Arnòl, chissà poi perché, quando sabato scorso ho proposto a mia moglie di andare a vederlo.

Il film era in programmazione al nostro cinemino preferito – questo qui, se siete della zona immagino lo frequentiate o ne avrete sentito parlare. Ho visualizzato su Youtube il trailer che ho però seguito molto superficialmente, e il mood che ho percepito a caldo è stato quello dei primi fratelli Dardenne, certe torbide atmosfere del Belgio, ed è questo che probabilmente mi ha indotto a equivocarne la nazionalità e il contesto. Non ne sapevo nulla, per farla breve.

Ho posto parziale rimedio al fraintendimento solo poco prima di entrare in sala, consultando un pamphlet dedicato alla programmazione in corso, seduto in attesa della fine dello spettacolo precedente su una poltroncina nell’atrio. Avevo azzeccato il tipo di film, cosa di cui ho avuto conferma poco dopo, ma non pensavo fosse ambientato nel Kent e che Andrea Arnold fosse una versione molto più radicale, più cruda e ancora meno indulgente del suo conterraneo Ken Loach. Poi, prima che si spalancassero le porte e i tre o quattro spettatori presenti uscissero, ho percepito dalla sala l’inconfondibile cantato di “Too Real?” dei Fontaines D.C. La sigla finale. Ed è in quell’istante che ho avuto l’illuminazione.

Non vi sto a fare una recensione del film, non è il mio mestiere. Vi dico solo che ho trascorso la giornata successiva – era domenica – a ripercorrere parte della filmografia di Andrea Arnold iniziando dalle pellicole più recenti, altrettanto superlative (anche se “Bird”, a mio parere, un vero e proprio pugno nello stomaco, è una spanna sopra gli altri titoli). Ho trovato a noleggio su Prime Video sia “American Honey” che il precedente “Fish Tank”, e alla fine di questa maratona monografica ho avuto l’impressione di aver ripercorso a ritroso un concept dedicato all’adolescenza. In tutti e tre i casi disperata, abusata, sospesa e provvisoria, immersa nel disagio e circondata da tutto il peggio che sia possibile da immaginare.

Anche la musica è un trait d’union che interconnette le tre opere. In ognuno dei tre film con una valenza differente, ma, in tutti i casi, proposta come narrazione alternativa rispetto a una realtà in cui i ragazzi – effettivi o presunti – hanno ancora bisogno delle canzoni per distinguersi dalle generazioni precedenti, per evadere dalle delusioni, per ribellarsi, per fare massa e corpo unico. Una visione distopica rispetto a come funziona, almeno qui dalle nostre parti, ma di cui ho apprezzato la portata drammatica e piacevolmente didascalica rispetto alla gravosità delle riprese.

In “Fish Tank”, uscito nel 2009, si sente molto hip hop (siamo ancora in epoca pre-trap), lo stile che fa da colonna sonora alla via di fuga di Mia, la protagonista, che identifica la danza come formula di emancipazione. Con “American Honey” ci troviamo invece nella provincia degli Stati Uniti e nel 2016. Il genere preferito sul van gremito di adolescenti erranti è la trap, musica in quegli anni nel suo massimo splendore e forte della sua dirompenza in quanto perfettamente inscritta nella contemporaneità di allora e baluardo dell’incomunicabilità generazionale per i giovani del momento. Mi ha fatto quindi doppiamente sorprendere la scelta della regista di abbinare, come genere rappresentativo per il malconcio underground umano inglese di “Bird”, il post-punk dei Fontaines D.C. e dei Sleaford Mods. Non pensavo che un suono così derivativo, o comunque riconducibile a un’altra epoca (la mia), potesse essere associato a un’idea identitaria degli adolescenti di oggi. Dopo i tre film ho capito invece la scelta. In UK probabilmente nulla trasmette meglio l’anima del sottoproletariato della provincia, quello che ha votato la Brexit senza sapere nemmeno perché.

Questa volta, però, con una variante. In “Bird” il post-punk – con l’eccezione dei bambini che si uniscono al coro di “Too Real” nella sigla di coda – fa da corollario principalmente alla generazione del padre di Bailey, un tipaccio di nome Bug pieno di tatuaggi di insetti, appunto, e facile metaforico cibo per gli uccelli con cui Bailey è così in sintonia. Un giovane adulto, di poco più grande dei suoi figli ma molto meno maturo. Bug e la sua combriccola si guadagnano da vivere con la droga derivata dalle secrezioni dalle rane. Il metodo empirico per indurre le rane a espellere dal loro corpo la sostanza utile è di sottoporle a musica in grado di irritarle. E come musica in grado di irritare le rane mettono canzonacce (a detta loro) pop, a partire da “Yellow” dei Coldplay e altri brani dei primi anni duemila, tracce di quando Bug era adolescente. Il gap generazionale è messo per inciso. Tanto che, nella scena conclusiva, quando un Bug pienamente redento in quanto unica scialuppa di salvataggio esistenziale per i figli, tutto sommato il meno peggio del resto, guida Bailey e il fratello veloci sul monopattino elettrico – vero status symbol della miseria – intona “Lucky Man” dei Verve, accompagnato dalla canzone in sottofondo. Bailey si sorprende della cosa, e chiede a Bug perché stia cantando una musica da papà.

A me “Lucky Man” è un pezzo che piace un botto, come tutto l’album dei Verve in cui è compreso. Vi dirò di più. Non ho problemi a inserire “Urban Hymns” tra i miei venti album preferiti di tutti i tempi, e a definire l’iconico video di “Bitter Sweet Symphony” decisamente trasgressivo, con l’infilata di spintoni che Richard Ashcroft infligge alle comparse. Ci sono rimasto un po’ male che, a confronto del post-punk dei nostri tempi, musica che io adoro, la mia preferita, sia ben chiaro, “Bitter Sweet Symphony” ma anche “Yellow”, che tutto sommato suonava abbastanza alternativa ai tempi, oggi siano state declassate a musica da papà, nel senso brani per altre generazioni e per persone che dovrebbero ispirare sicurezza ai più piccoli. Quindi anche a me piace ascoltare musica da papà. Non ci avevo mai pensato prima di vedere “Bird”.

Cold Specks – Light For The Midnight

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Un aspetto che non passa inosservato della voce straordinaria di Ladan Hussein è la cascata di armonici che si libra dalle sue canzoni, particelle colorate dello stesso pantone del timbro di Billie Holiday. Una dolcezza graffiante e tormentata che lascia l’ascoltatore in bilico tra il compiacimento e quel corroborante senso di rammarico che (isolato chimicamente) da sempre costituisce l’elemento primario del blues, uno stile pensato per dare forma alla sofferenza.

La stessa malinconia evocativa che ci ha pervaso lungo i sette anni di attesa del nuovo lavoro di Cold Specks (il nome che Ladan ha scelto per il suo progetto artistico), un tempo insostenibilmente lungo. Ed ecco com’è andata: I Predict a Graceful Expulsion, sorprendente album d’esordio del 2012, Neuroplasticity uscito due anni dopo, fino a Fool’s Paradise, pubblicato nel 2017, e poi il buio, nel vero senso della parola.

Dopo mesi di silenzio, in un’intervista del dicembre 2018 rilasciata al Toronto Star, la cantautrice canadese di radici somale scopriva le sue carte. Ammettere di soffrire di disturbi quali schizofrenia, anoressia, depressione debilitante culminata in tentativi di suicidio però non ha suonato affatto come una resa, tantomeno come una presa d’atto. Tutt’altro. Semmai una dichiarazione di guerra e di rivalsa a quella parte di sé da surclassare, da ridurre ai margini. Che, per Cold Specks, ha coinciso con l’annuncio ufficiale del primo passo della risalita, un percorso a ritroso lungo le impronte (voragini) lasciate dall’affanno nella salute della sua mente. Un nuovo obiettivo, quello del riscatto, per tornare a rivedere la luce.

Questo almeno sulla carta, e non dev’essere stato facile, a giudicare dal silenzio che ne è seguito. Da allora abbiamo assistito a sporadiche quanto deflagranti irruzioni sui profili social con foto, story, reel e considerazioni, a volte anche decisamente allarmanti. Annunci di nuove uscite senza seguito, pensieri tormentati, cupe esternazioni di angoscia mascherata da poesia, persino richieste di aiuto concreto. L’impressione è che le prime anticipazioni di un imminente ritorno sulla scena si siano perse, all’interno di questo dialogo intermittente, e poco o nulla lasciava presagire che andasse tutto bene. Ma la musica, lo sappiamo, fa miracoli. Tanto che un’insperata intensificazione delle comunicazioni, ad un certo punto, è culminata nella pubblicazione di un primo singolo, “Wandering in the Wild”. L’anticipazione del nuovo lavoro, finalmente fuori. Ladan Hussein ce l’ha fatta.

E che il nuovo corso di una Cold Specks libera dai suoi spettri coincidesse con una presa di distanza dal genere con il quale si è affermata nella prima parte della sua carriera, dovevamo comunque metterlo in conto. L’indole dark-soul, addirittura doom, com’è stata definita, con cui trovarsi a convivere, può costituire l’ispirazione con cui leggere la realtà ma anche la conseguenza di come pensiamo che la realtà percepisca noi, per un vortice tentacolare (o un gatto che si morde la coda) da cui non sempre se ne esce vivi. Light For The Midnight, lo dice tra le righe il titolo stesso, è piuttosto un disco di matrice principalmente acustica, da intendere come un barlume di luce raggiunto alla fine di un tunnel. Fuori a ritrovare le stelle, un po’ malconci e con diverse ferite da rimarginare, malinconici e sconsolati, ma tutto sommato sopravvissuti. Tutti interi. È questo che conta, no?

Possiamo finalmente riascoltare Cold Specks mentre canta dal suo cammino intimo, a tratti ancora impervio, diretto verso una lenta ma salvifica trasformazione. Un album vivamente emotivo composto da tracce dense di soul, in un’accezione forse meno lacerante di prima, ma non meno avvolgente. Composizioni che sfidano il disagio della confusione mentale confondendolo tra le tracce per umanizzare il lato più scomodo della nostra essenza, quello più vulnerabile, esposto alle insidie proprie della nostra volatilità e verso le quali ci troviamo impotenti.

Nonostante questo senso di instabilità, Light For The Midnight è tutt’altro che un disco fragile. Il nuovo corso di Cold Specks è merito anche dell’intuito di Adrian Utley dei Portishead e Ali Chant, produttore di Perfume Genius, Dry Cleaning e Aldous Harding, che ne hanno aumentato il respiro e, di conseguenza, la portata. Le atmosfere claustrofobiche dei primi album lasciano spazio alle raffinate orchestrazioni di Owen Pallett (già arrangiatore delle parti di archi nei brani di artisti del calibro di Taylor Swift, Lana Del Rey e Sampha), il tutto arricchito da qualche incursione elettronica di Graham Walsh degli Holy Fuck.

Il risultato è un’opera sontuosa, composta da tracce che suonano sorprendentemente potenti, in grado di soddisfare ogni ascoltatore in cerca di una seconda possibilità e che ci lasciano come quei film in cui, nella scena finale, i perdenti vincono contro tutte le aspettative e coraggiosamente le lotte apparentemente impari. Light For The Midnight ci accende di una luce interiore che ci esorta a risplendere nelle nostre notti più buie. E, se osservate da vicino, potrete scorgere Cold Specks che, con un impagabile concentrato di speranza, ci canta tutta la sua vita che verrà.

La Niña – Furèsta

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Ho ascoltato la prima volta “Figlia d’ ‘a tempesta” eseguita dal vivo alla trasmissione Propaganda Live, qualche settimana fa. Era uno di quei giorni in cui il frenetico rincorrersi di notizie sui crimini a scapito di donne generava confusione (a un ascoltatore distratto) su chi fosse la vittima, se si trattasse di una fase avanzata delle indagini, un delitto fresco di cronaca o di uno dei tanti ancora irrisolti, un processo in corso, un impeto di rivolta all’ennesimo fatto compiuto o una manifestazione di piazza di sensibilizzazione sul tema.

Una babele di informazioni che ha reso l’esibizione de La Niña e della sua nuovissima compagnia di canto popolare così suggestiva da rendere imprescindibile un aggiornamento del bollettino sui morti di questa guerra civile che si sta consumando all’interno dei nostri confini. Al momento in cui scrivo questa recensione, siamo a metà del mese di aprile, i femminicidi (solo quelli riusciti) in Italia sono già a quota 25.

E se il singolo tratto dal nuovo album Furèsta, titolo che non a caso rimanda all’indomabilità e alla selvaticità, diventasse un inno da cantare nelle piazze, nei posti di lavoro, dentro le mura di casa (che paradosso, eh?) sarebbe davvero un’occasione straordinaria. Tanto che, tra cinque o dieci o vent’anni, quando finalmente ripenseremo senza nostalgia alle lotte che hanno posto fine alle barbarie e alle distorsioni da cui scaturisce ogni episodio riconducibile alla questione di genere (sono ottimista di natura), ci verrà da canticchiare le parole di questa canzone, ricorderemo lo sguardo fiero di chi le ha scritte, ci muoveremo al ritmo di tammorra che le ha scandite.

C’è poi un’altra questione, questa volta leggera come certa musica, per fortuna, che riguarda la canzone napoletana, ma chi sono io per spiegarvela. Posso solo tirare in ballo i luoghi comuni, a partire dal fatto che Napoli non è solo mille colori e tutto il resto. Da sempre l’affascinante Parthenope costituisce il più prolifico laboratorio di ricerca musicale del nostro paese, per una serie di fattori che la rendono invidiata (e invisa) al resto d’Italia. Tanto per iniziare per un idioma tutto suo che si abbina perfettamente a qualunque genere, per non parlare di una scala minore e un accordo di sesta che hanno solo da quelle parti e che rendono inconfondibili le melodie nate laggiù, fino a tutti gli artisti che hanno fatto leva su una tradizione piacevolmente ingombrante per portare sempre più distante l’obiettivo della ricerca. Pensate a Liberato e al modo in cui ha conferito dignità alla musica neomelodica (fino a renderla addirittura trendy) oltre i confini campani.

Le radici a cui si ispira Carola Moccia, raffinata cantautrice e producer cresciuta a San Giorgio a Cremano, sono ancora più profonde, e si spingono ben oltre la crosta e il mantello stratificati sotto il Vesuvio, giù fino al passato remoto sepolto nel centro della terra. Un soundscape in cui riecheggiano armonizzazioni primitive di cui abbiamo smarrito traccia se non in qualche rigurgito del nostro inconscio, parti costruite su intervalli desueti ma arditi per voci rigorosamente femminili (un coro di pace, l’unico che indipendentemente dal contesto si riconosce sempre distintamente) e accompagnate dagli strumenti propri del barocco napoletano trattati in perfetta filologia, come la chitarra battente, il mandolino e i tamburi.

Il tutto secondo un gusto e una chiave modernista, così sorprendentemente urban che l’accezione di popolare (quella che riconduciamo a una cultura e a certi mestieri legati alla terra, alla strada, alla povertà e a quel tipo di matericità che le generazioni digitali schifano come non poco) fa il giro completo per collocarsi davanti a tutto, in un futuro dalle tinte sfuggenti. Un società arcaica che si impone prepotentemente in quanto l’unica sostenibile, in una prospettiva remota in cui la tradizione torna a essere femminile. Il matriarcato, finalmente, in tutte le sue derivazioni. Dinamiche in cui la donna si trova sempre al centro, fin dalle storie che hanno reso immortali i commediografi greci.

In Furèsta la coesistenza tra la tradizione napoletana e l’elettronica va oltre la maniera e la ricerca del plauso dei poser dell’ibrido e delle contaminazioni a tutti i costi. Lo stile che emerge è figlio dell’istinto allo stato brado, anema e core scavati da esperienze di rebirthing collettivo e arte in grado di liberare il substrato ancestrale dell’ascoltatore, sin troppo compresso dalle convenzioni e dai compromessi socio-culturali dei nostri tempi e delle nostre latitudini.

Un viaggio allegorico nelle reminiscenze di civiltà inconsapevolmente primitive – quella autoctona de La Niña in primis, riconoscibilissima nei sample delle antiche voci rurali in dialetto, passando per il fado e le collaborazioni con altre periferie del pianeta, dalla producer parigina – ma cittadina del mondo – Kukii al compositore egiziano Abdullah Miniawy. Un ritorno al folklore mediterraneo in cui il timbro femminile si erge protagonista all’origine, grazie all’irrequietezza, alla passione e all’indole sperimentale di un’artista che sa esprimere la propria ricerca con la più ruvida purezza.

Furèsta è lo spettacolo intimo del sentimento, e La Niña una splendida interprete della world music in senso proprio e all’epoca dell’intelligenza artificiale, un ritorno alla terra dove l’antico e il futuro deflagrano, sfiorandosi appena in un frenetico passo di tammurriata.