Liberato – Liberato III

Standard

È il 2025 ma il segreto di Liberato, secondo solo al terzo di Fatima quanto a curiosità popolare suscitata e sacralità ispirata, ad oggi sembra lontano dal poter essere svelato. Grazie al recente documentario per il grande schermo dedicato all’artista napoletano e realizzato da Francesco Lettieri (il fidato regista dei cliccatissimi video di Liberato che, nel lungometraggio, introduce il suo alter ego musicale proprio con i misteri in questione in aggiunta a quello finto di Pulcinella) possiamo contare su qualche informazione in più, ma la soluzione dell’enigma è ancora remota.

Altro che fuochino o fuocherello. A dirla con le immagini di un’altra prestigiosa divinità locale, il regista Sorrentino (che condivide l’Olimpo, che poi per loro immagino sia il Vesuvio, con Totò, Peppino, Maradona, Troisi, Pino Daniele e qualcun altro che al momento mi sfugge), ci troviamo in acquissima, al largo del golfo, ad annaspare nello stesso liquido amniotico dell’incantevole (quanto tabagista) Parthenope.

Tant’è che io mi sono arreso. E se avete desistito anche voi e la curiosità si è consumata, i casi sono due. O l’hype del recidivo electro-neomelodico mascherato si è normalizzato oppure (e attenzione che potrebbe non essere la stessa cosa) l’anonimato di Liberato lo diamo come un dato di fatto. Il suo personaggio in outfit all-black fa parte del sistema.

Due varianti basate su un denominatore comune: chi se ne importa, per non dire di peggio. Una considerazione che non aggiunge o non toglie una virgola a un successo in costante crescita, nonostante la ricorsività della proposta artistica, dei contenuti e della forma.

Per questo fa sicuramente notizia un album di Liberato pubblicato il primo di gennaio, anziché il consueto nove maggio, quasi un buon proposito, un presagio da intendersi all’origine di un nuovo corso, o in coda a una fase di cambiamento. Liberato ha risolto finalmente lo struggimento amoroso alla base del suo progetto (lo scrivo dando per scontato che abbiate visto il film e conosciate la storia) tanto da rivoluzionare le priorità di calendario?

In Liberato III il cantante si spinge addirittura a “Novembre”, peraltro con ottimi risultati (la traccia più bella del disco, senza ombra di dubbio, pronta a diventare un nuovo classico del producer napoletano). Quindi, per farla breve, che cosa dobbiamo aspettarci?

Il terzo album di Liberato, al momento disponibile solo in formato liquido, conferma la formula vincente dei due blasonatissimi predecessori, a partire dal minutaggio d’altri tempi (mezz’ora totale di musica declinata in nove tracce, perfette dal punto di vista dell’organizzazione in lato A e lato B) e dalle sottocategorie di elettronica a cui ricondurre i brani.

Fanno molto comfort zone anche la sequenza degli accordi che si inseguono nelle canzoni, oramai uno standard se non un cliché, quelle successioni armoniche consolidate ascrivibili ad archetipi quali “Tu t’e scurdat’ ‘e me” e “’O core nun tene padrone”. Tanto che, vista da qui, la discografia di Liberato potrebbe essere travisata per un continuum, risultare un’unica opera omnia perpetua che si ripropone disco dopo disco secondo i canoni della fluidità con cui si percepisce la composizione musicale di questi tempi in cui, a quasi un secolo di pop e a fronte delle centinaia di migliaia di svilenti suggestioni sonore pubblicate ogni istante sui vari canali di fruizione audio, tutto ci trasmette reminiscenze di tutto.

Senza contare che III è un disco in linea con l’elevata qualità con cui Liberato ci vizia da sempre. Per questo corre il rischio di confondersi, in una immaginaria riproduzione random di una playlist monografica, tra tutto il resto del repertorio del fanta-cantautore napoletano.

Ancora una volta a convincerci sono il miscuglio di idiomi, i crescendo e i drop, gli stop and go, i sessantaquattresimi di hi-hat, il dub, l’uso intelligente di side-chain e ducking sui boati della cassa, i synth in levare, l’immancabile sirena, Napoli, il Napoli Calcio e il suo anno di fondazione, il 1926. Conferme che permettono ad alcune  novità di emergere in freschezza e originalità: la sorprendente attualità del sample del ritornello di “Voglia ‘e turnà” di Teresa De Sio nell’omonima traccia introduttiva, e l’incursione nella drum’n’bass (finalmente di nuovo di moda) di “‘A fotografia”, un tuffo nei break-beat degli anni zero. Per il resto, prevale la sicurezza dei botta e risposta tra la trap e l’house, per un risultato complessivo di eccellente fattura.

Non possiamo quindi che promuovere, anche questa terza volta, il progetto Liberato, un diamante nello scadente e noioso panorama musicale del pop italiano, quello sì davvero anonimo. Ma immaginarlo tutt’ora chiuso nella sua cameretta, con le sue diavolerie elettroniche cheap e il Microkorg (proprio come lo abbiamo visto illustrato nella versione anime della sua vita dal film di Lettieri) a suonare e registrare cose di ordinaria amministrazione, risulta ormai riduttivo per il talento ad ampio respiro che dimostra di saper esprimere.

Liberato ha tutte le carte in regola per raggiungere lo status di The Weeknd europeo. Dovrà solo scendere a qualche compromesso con i vincoli imposti dalla sua auto-narrazione culturale e geografica, ma la voglia di tornare, di percorrere i vicoli di Napoli, lo sappiamo, nun se ferma mai.

cattivi pensieri

Standard

Dietro casa mia, in un’area industriale in cui a nessuno verrebbe in mente di transitare volontariamente in auto, tantomeno a piedi, ha aperto una grande rivendita di mobili e complementi d’arredo vintage. In realtà l’ubicazione è perfetta, da un punto di vista marketing. I milanesi apprezzano questo genere di prodotti inspiegabilmente costosissimi, ma lo stato d’animo che scaturisce dal contrasto tra l’immaginario di un’epoca che sicuramente non hanno nemmeno vissuto ma per i quali nutrono una smodata nostalgia – chissà poi perché – e il degrado senza tempo proprio delle zone artigianali dell’hinterland, da visitare preferibilmente in uggiose domeniche invernali, non li fa badare a spese.

L’apertura del negozio, esteso per svariate centinaia di metri quadrati stipati di modernariato, conferma inoltre una nuova ondata di interesse per il mercato dell’usato da fighetti, trend che ha avuto alti e bassi. Potersi permettere mobili anni sessanta e settanta non è da tutti e ora che l’ulteriore divario del potere d’acquisto tra poveri e ricchi ha compiuto un nuovo scatto, unito ai timori per il futuro in tempi che definire bui è un complimento, le persone più abbienti sembrano nuovamente interessate ad accaparrarsi la sicurezza trasmessa dal design di una vera e propria età dell’oro in quanto a welfare e socialdemocrazia. A memoria, dopo il boom dei mercatini dell’usato in franchising di fine anni novanta, culminata in una bolla che, trasformatasi in fenomeno di massa, ha fatto disamorare la nicchia, abbiamo assistito a una seconda crescita del fenomeno nel decennio scorso, exploit che ha reso il modernariato ancora più esclusivo. A occhio e croce potremmo quindi trovarci al cospetto della terza ondata, ma se avete dati più aggiornati o informazioni più autorevoli vi prego di comunicarmelo qui sotto nei commenti.

Io ho avuto la fortuna di rendermi indipendente e di andare a vivere da solo poco prima che l’usato del 900 diventasse una moda costosissima. Avevo acquistato mobili bellissimi per la mia casa a poche decine di migliaia di lire, ricordo addirittura di aver pagato il trasporto e la consegna di uno splendido divano in ski verde con annesse due poltrone quasi il doppio del loro costo – se non ricordo male avevo pagato i mobili 35mila lire – e rimpiango ancora oggi uno stilosissimo tavolo rotondo con quattro sedie in tek, quasi regalato, che sfoggiavo nel salotto. Ho lasciato tutto questo nell’appartamento in cui vivevo in affitto prima di trasferirmi nella mia residenza definitiva, dove mobili di quel tipo non avrebbero trovato posto. Mi è rimasto qualcosina – una lampada in tek con libreria abbinata ricevute in regalo di nozze dai miei nel 1960, due poltroncine anni 50 che ho visto uguali nello store di cui sopra a 300 euro l’una, e un po’ di cianfrusaglie – ma da allora mi sono disaffezionato. Tutta roba bellissima se vivi da solo ma poco pratica se hai una famiglia e dei gatti.

Ho pensato comunque di fare un giro nel mercatone vintage, considerando la vicinanza da qui. Ho sguinzagliato il mio sguardo da esperto nel vasto hangar stipato di chicche da collezionisti e di facoltosi potenziali acquirenti ma poi ho trascorso il tempo della visita, mentre mia moglie – decisamente più scettica di me – liquidava l’esperienza in una manciata di cartellini con relativi prezzi da capogiro, a scartabellare in quattro contenitori ricolmi di ellepì. Quella dei dischi in vinile è una vera e propria ossessione irrefrenabile che condivide con me il mio corpo e la mia mente più o meno dalla seconda media. Inutile dire che anche i prezzi dei dischi usati erano in linea con il resto dei prodotti in vendita. Per scelta non acquisto mai dischi usati a più di 15 euro, che già mi sembra una cifra ai limiti della ragionevolezza. Fino a dieci anni fa te li tiravano dietro. Ho saccheggiato bancarelle portandomi a casa decine di trentatré giri pagandoli in tutto quanto il costo dell’ultimo disco dei Cure su Amazon.

Ora, come per le chaise longue e certe lampade d’antan, hanno costi inarrivabili. Ho visto un Battiato a 40 euro e “Deja Vu” di CSNY – pagato ricordo 5 euro a un mercatino in Sardegna intorno al 2010 – a 70. Ho deciso comunque di passare in rassegna tutti i dischi sperando in un colpo di fortuna che la tenacia, alla fine, ha favorito. Per 30 euro totali ho portato a casa un doppio Lp di extended play degli Spandau Ballet, il bellissimo “Love Not Money” degli Everything but the Girl che inseguivo da un po’, “Human’s Lib” di Howard Jones in ottime condizioni e, soprattutto, “Cattivi pensieri” di Gino D’Eliso, entrambi a una cifra irrisoria. Mia moglie è rimasta perplessa da quest’ultima scelta. Non aveva mai sentito nemmeno lontanamente nominare il cantautore triestino. Le ho spiegato che Gino D’Eliso è stato una specie di Battiato che non ce l’ha fatta, una sorta di Garbo in versione meno piaciona. Io ne sentivo sempre parlare su Ciao 2001 nei primissimi anni 80 ma ai tempi non esisteva musica liquida e un album di quel tipo di certo non si trovava in tutti i negozi. Poi, grazie al peer-to-peer, mi sono procurato gli mp3 e ora finalmente una copia fisica a un prezzo da vero affare. Il disco suona benissimo e la mia collezione si è arricchita di una vera chicca di cui vado molto fiero, quasi quanto una copia promozionale di “Guendalina” dei Dadaumpa pagata mille lire nella notte dei tempi.

Lambrini Girls – Who Let The Dogs Out

Standard

A vederlo nelle foto su Google, il Lambrini (un sidro al gusto di pera) evoca una di quelle sottomarche di vodka alla peggio frutta con cui i ragazzini delle nostre parti, alla ricerca di una sostanza prestazionale in grado di favorire l’inizio del nuovo anno nel modo il più benaugurante possibile, stipano il carrello del supermercato per il veglione di Capodanno durante la spesa collettiva improvvisata, come tradizione, il 31 pomeriggio, raccattando tutto quello di alcolico a buon prezzo che rimane sugli scaffali da pagare poi in cassa con i contanti raccolti dalla colletta. Tutta roba economica che si beve a stomaco vuoto e finisce nel cesso mescolata alle patatine del discount ancora prima della mezzanotte. Una formula perfetta: poca spesa, massima resa.

Un endorsement decisamente punk, quindi, quello delle Lambrini Girls, che trasmetterebbe a chiunque innumerevoli doppi sensi etilici: una band da far girare la testa, canzoni con testi di spirito, ma a chi vogliono darla a bere, un distillato di energia, punk ad alta gradazione, l’ebbrezza delle chitarre distorte, l’hangover da sbornia di potenza sonora. Tutto vero. Noi però ci limitiamo ai fatti.

Le due ragazze di Brighton (voce/chitarra e basso, una coppia sguaiatamente elettrica che diventa trio grazie all’apporto nei live di una batterista altrettanto ribelle) dopo alcune pubblicazioni sparse e un EP sono finalmente approdate al disco d’esordio, dal titolo Who Let The Dogs Out. Un modo di dire, forse un retaggio del video della celeberrima hit omonima, un punto di non ritorno del trash pop di fine anni Novanta, ma in ogni caso un titolo dall’accezione che non lascia adito a equivoci: qualcuno ha lasciato la porta aperta permettendo a questa band poco elegante di uscire a fare un disco niente male, e ora dobbiamo affrontare le conseguenze.

Non è il caso di tracciare un grafico dei gruppi provenienti dal Regno Unito riconducibili al punk e ai suoi derivati saliti agli onori della cronaca, negli ultimi tempi. La rappresentazione visiva dei dati sulla densità abitativa e sulla disponibilità pro capite potrebbe metterci in allarme. Le Lambrini Girls però si ritagliano in questo panorama affollato quanto avvincente un posto di tutto rispetto. I loro brani sono una bomba, tutti, dal primo all’ultimo, e dal vivo suonano molto bene un punk sicuro, apparentemente grezzo ma tecnicamente ineccepibile.

In una parola, spaccano (date un’occhiata al loro live alla KEXP) e, soprattutto, propongono con ironia e sarcasmo temi decisamente scomodi nelle liriche delle loro canzoni. Ce l’hanno con la polizia (e chi non, direte voi), il maschilismo e la disparità di genere negli ambienti di lavoro (a proposito, presentarle come gli Idles al femminile è decisamente riduttivo, anche se l’incipit del disco, in effetti, mette sul chi vive anche l’ascoltatore più distratto), il machismo tout court, i canoni alimentari imposti dal mercato, le mode, l’inclusività di facciata, gli avvelenatori di relazioni, l’amichettismo nell’ambiente musicale, la gentrificazione e chissà che altro.

Ma quello che vi stupirà è la totale assenza di banalizzazione musicale nelle composizioni. Suonano inequivocabilmente punk, con contaminazioni industrial e grunge, ma non troverete mai in tutto il disco un giro di accordi approssimativo, non un passaggio forzato, non un momento evocativo di qualcos’altro perché, abilmente, Who Let The Dogs Out ha il magico potere di cambiare registro all’istante per mescolare le carte e confondere adeguatamente l’ascoltatore.

Sono i riff di chitarra e basso a lasciare piacevolmente senza fiato, e il drumming a mettere a tappeto, e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Da “Special Different” a “Bad Apple”, da “Big Dick Energy” a “You’re Not from Around Here”, fino a “Love”, sicuramente il brano più travolgente, una canzone in cui una trama dichiaratamente più post che punk del resto tradisce una appena riconoscibile vena di vulnerabilità in un progetto che trasuda sfrontatezza, temerarietà, cinismo, irriverenza e sprezzo del pericolo.

Malgrado gli spoiler dei singoli pubblicati nelle scorse settimane, Who Let The Dogs Out non ha certo rovinato la sorpresa di un esordio in grande stile. Le Lambrini Girls sono il modo più efficace per mandare in vacca tutti i migliori propositi per l’anno nuovo, a partire dall’intenzione di osservare il dry january. Avete capito bene: Lambrini Girls, dry january.

Ethel Cain – Perverts

Standard

In uno dei suoi più recenti momenti ask sui social, veri e propri siparietti Q&A con i follower, Ethel Cain ha chiarito ogni dubbio sul rischio che Perverts, il suo attesissimo nuovo lavoro (forse l’unico EP della storia della musica lungo ottantanove minuti) possa risultare un deterrente per i fan della domenica, quelli che fraintendono brani del suo repertorio come “Michelle Pfeiffer” o “American Teenager” e, ingenuamente, li aggiungono come riempitivi a playlist indie-pop dal sapore buonista alla Taylor Swift insieme ad altro materiale costruttivo e rassicurante.

In effetti la community degli ammiratori della cantautrice di Tallahassee pratica un approccio radicalmente calvinista al culto della preacher’s daughter, mentre tra i più scettici o i laici, o comunque tra i numerosissimi utenti distratti e inconsapevoli di Spotify, può risultare naturale una certa fatica a raccapezzarsi tra i meandri del suo percorso musicale.Rispetto alle accuse di allontanamento volontario di qualche fan, basta sbirciare tra la copiosa letteratura video rubata di straforo ai suoi concerti per convincersi, al contrario, del profondo legame che Mothercain ha tessuto con il pubblico, almeno quello delle prime file. Massima invidia (un sentimento assolutamente positivo, non me ne vogliate) per tutti quei miracolati, presi per mano, pietrificati dallo sguardo di questa Gorgone del Duemila puntato negli occhi, colti in lacrime nell’estasi della fruizione ravvicinata di intere strofe cantate ad personam, una trance indotta da un fascino e un carisma così potente in grado di mandare al tappeto qualunque persona debole di cuore.

Nella mia condizione di maschio italiano bianco etero basic, con l’aggravante di svariati decenni sul groppone, lungi da me la velleità di comprendere anche di striscio una personalità così complessa e in divenire individuale e artistico come quella di Ethel Cain. Mi basta unire i puntini tra le tappe salienti della suo percorso intimo e privato e la sua produzione artistica (il tutto nella cornice dell’estrema provincia USA, quella che noi, in questo buco di culo di posto, non possiamo minimamente nemmeno immaginare come cresca i suoi figli, se non dalle riduzioni letterarie dei libri e delle serie tv) per capire che si tratta di una cosa al di fuori della mia portata.

E, anche se volessimo parlare di musica, qui c’è poco da dire perché in Perverts di musica, almeno nell’accezione che ci hanno insegnato fin da bambini, ne troviamo davvero poca. A differenza di Preacher’s Daughter, il concept album di esordio, un capolavoro di cantautorato, americana in tinte dark e southern gothic e vera summa di tutto quello che ha digerito Hayden Silas Anhedönia per trasformarsi nell’affascinante figura di Ethel Cain. A differenza dei primi EP, Inbred su tutti, che hanno contribuito a diffondere il mito che oggi ha raggiunto tre milioni di ascoltatori mensili. E a differenza delle decine di canzoni che, prima di dichiararsi nella nuova identità artistica, la cantautrice ha diffuso sul web e di cui, sin dal raggiungimento più o meno definitivo della meta della sua transizione, ha chiesto senza tanti mezzi termini ai fan la cancellazione dai riproduttori e dalle cronologie, un progetto ampiamente superato e quinti estraneo alla nuova ispirazione.

A differenza di tutto questo, Perverts è principalmente un compendio di drone, industrial lo-fi e rumorismo ambient in un’opera audace e fortemente complicata in grado di riflettere un profondo disagio ma che, liberata e percepita fino all’ultimo istante, garantisce un’esperienza senza confronti. Nove non-tracce che alternano suggestioni pseudo-acustiche calde e avvolgenti ad atroci incursioni in una dimensione anti-materica, una sorta di sottosopra intriso di tutte le frequenze e le vibrazioni di cui, da questa parte della realtà, solo le leggi della fisica impediscono la propagazione.

Persino la voce, o almeno il simulacro del timbro che è possibile ricondurre a una natura umana, risulta perversamente vilipesa e brutalizzata in un’illusoria parvenza di tregua per l’anima. In brani come “Vacillator” , “Amber Waves” o “Punish”, abili decostruzioni country e slowcore e veri e propri salmi di espiazione ispirati dallo sconforto, Ethel Cain si (e ci) strugge attraverso i topos della sua liturgia, una narrazione in cui i confini tra il bene e male non si delineano distintamente, l’uno sporca indelebilmente l’altro e il tutto appare sfocato e contaminato da un’accezione dell’amore (sacro e profano, Dio e gli esseri umani peggiori) definitivamente compromessa.

La scelta deliberata dell’ascolto di un disco viscerale come questo può lasciare ferite irrimediabili. Perverts è un vortice trascendentale, un’immersione negli abissi del disagio e una anestetizzante esperienza di regressione a emozioni indecifrabili a cui solo un deterioramento accelerato del suono come lo conosciamo, pratica di cui Ethel Cain è sperimentatrice estrema, può indurre. Un viaggio fatale di sola andata in un non luogo tentacolare, dove angoscia e bellezza si uniscono per resettare per sempre ogni credenziale utile a individuare l’accesso sicuro e protetto alla via del ritorno.

i really never can say g……

Standard

Quindi davvero Gloria Gaynor non riusciva mai a dire goodbye

The Cure – Songs Of A Lost World

Standard

Ho visto This Must Be The Place, il film di Paolo Sorrentino, solo una volta, più di dieci anni fa. Non è certo il lavoro più riuscito del regista de Le conseguenze dell’amore, e probabilmente nemmeno una pellicola così memorabile, ma i The Cure sono la mia band preferita. Ecco perché non dimenticherò mai la scena finale. Sean Penn nei panni di Cheyenne, la trasposizione cinematografica di un Robert Smith alle soglie della terza età, che raggiunge a piedi la casa della madre dell’amica Mary e scambia con lei alla finestra uno sguardo d’intesa. La star degli anni ’80, senza trucco, ora ha i capelli corti e grigi, indossa abiti più che ordinari, e completa con quel gesto il suo percorso di redenzione.

Ci troviamo al cospetto di un’opera di fantasia che però assolve a un compito ben preciso, quello di colmare il profondo gap che va da Wish a Songs Of A Lost World. Un salto quantico di trentadue anni durante i quali è successo di tutto. Intanto ci sono stati quattro dischi tutto sommato irrilevanti (se nei live di presentazione del nuovo album alla BBC e al Troxy non c’è traccia, un motivo ci sarà) nonostante i quali la popolarità di Robert Smith e soci si è ampliata a dismisura fino a raggiungere livelli di cui la Rock & Roll Hall of Fame forse è il riconoscimento più trascurabile.

Nel 2024 è fuori discussione che i The Cure occupino il piano più alto nell’olimpo delle star del rock alternativo. Sono la band più influente della storia e la meticolosa e intelligente operazione di marketing che ha preceduto il ritorno sulle scene con Songs Of A Lost World c’entra, ma solo in parte. Robert Smith con le sue faccette e le sue moine, nei video delle sue canzoni più iconiche, è tra le cause principali di fenomeni come la diffusione del nuovo post-punk e dell’inarrestabile e acritica retromania nostalgica per gli anni ottanta soprattutto da parte di chi non li ha vissuti, per non parlare della pervasiva diffusione del mito della band grazie alle sottoculture della rete e dei social.

Gli ultimi sedici anni, poi, quelli che invece separano Songs Of A Lost World da 4:13 Dream, hanno visto i The Cure assidui headliner di palchi e festival in tutto il mondo, per non parlare della loro agiografia su Youtube (in lungo e in largo, sia nella dimensione dello spazio, sia in quella del tempo) con esibizioni e apparizioni in cui il loro passato glorioso, quello più amato dai fan e che si conclude dalle parti di “Friday, I’m In Love”, non ha mai smesso di essere beatificato e rimpianto.

Ecco perché non c’è nulla come la scena finale di This Must Be The Place di Paolo Sorrentino che soddisfi una delle mie fantasie più audaci. Sean Penn/Cheyenne/Robert Smith pettinato e vestito da persona normale mi fa illudere sul fatto che sia prevista davvero una terza età per le star, una stagione della vita in cui i musicisti si tramutano in normali persone anziane come qualunque altro impiegato del catasto e non in anziani musicisti, non so se mi seguite.

Una stagione in cui i cantanti vanno in pensione, anziché suicidarsi prima o morire di overdose a ventisette anni. Un momento in cui sono riconosciuti da un sistema previdenziale che tiene i conti alla loro attività e che presenta, anche per chi suona per mestiere, le stime per sancire quando sia il momento di fermarsi (che poi farebbe bene in primis ai musicisti stessi, a quel certo punto della loro vita, il fermarsi).

Un nuovo corso, in cui cose come andare a far la spesa o riabbracciare i nipotini all’uscita da scuola impongono il superamento del look da cosplayer del rock o del dark o di quello che volete e, con addosso una felpa in pile come tutti i vecchi le cui mogli non hanno giustamente più voglia di stirare camicie, frequentano il circolo del burraco, praticano il pilates e cercano il riparo al fresco dei centri commerciali, seguendo il palinsesto della sopravvivenza alle estati sempre più roventi, imposto dai tg.

Il punto è che Robert Smith ha paura di invecchiare (come biasimarlo) almeno da “Sinking”, epocale brano di chiusura di The Head On The Door, e si sentiva anziano persino il giorno prima di comporre “In Between Days”, ma sono pronto a scommettere che segnali analoghi sono rintracciabili anche in dischi precedenti. Per non parlare di Disintegration e, dopo, di Bloodflowers, album in cui la morte è il tema ricorrente. E probabilmente va ricondotta a questa ossessione condivisa la necessità di conciarsi sempre uguale a se stesso, anzi, al suo travestimento da Robert Smith, con i pochi capelli rimasti cotonati e l’eyeliner, ancora oggi, a 65 anni suonati.

E se considerate che di dischi di addio alle scene dei The Cure ce ne sono già stati almeno tre, per non parlare della quantità di “Endsong”, quelle ultime tracce e finti addii che poi sono commoventi arrivederci, ci dev’essere un demone in Robert Smith che lo spinge, con una sorprendente ricorrenza, a ribadire a se stesso questo concetto. Siamo mortali, anzi, mortalissimi. Siamo destinati a disintegrarci, un giorno di questi, e quel giorno lo affronteremo comunque da soli. Indossare una maschera ci aiuta ad allontanare chi e che cosa diventeremo e a rinnovare lo stesso rito sul palco, per noi stessi e per quello che rappresentiamo per i nostri seguaci. Non so dirvi se ciò sia la soluzione al problema, ma da un certo punto della vita in poi, a quanto sembra, funziona.

Chi ha partecipato ai pre-ascolti di warm-up propedeutici all’uscita del disco (come se ce ne fosse davvero il bisogno, per una band così importante) ha scritto che Songs of A Lost World è il miglior album dei The Cure dopo Disintegration. Io mi dissocio. È il miglior album dei The Cure dopo Wish, che non ha nulla da invidiare al suo predecessore. La formula di Songs of A Lost World è però la stessa dei quattro dischi pubblicati da allora ma, a differenza degli altri, è un disco che ce l’ha fatta.

Otto eterne non-canzoni dilatate secondo flussi più o meno ricorsivi di componenti indistinguibili. Lunghe e suggestive intro strumentali, arrangiamenti ridotti al minimo con tappetoni di tastiere, strofe e ritornelli intercambiabili, melodie che non aggiungono granché alla straordinarietà delle struggenti ballate gotiche che compongono il disco, code trascinate come quei saluti finali che nessuno vorrebbe mai estinguere davvero, in un incedere suonato da musicisti legittimamente e meravigliosamente affaticati dalla propria età artistica e anagrafica.

E, al contrario dei capolavori nati nell’età dell’oro in cui si è consolidato il mito di Robert Smith, è un lavoro completamente privo dei ritornelli catchy e di quella disorientante scanzonaggine pop dei singoli dei The Cure che hanno fatto la storia e che, in questo eterno presente, compongono quotidianamente le prime pagine dei nostri social sotto forma di meme. Stesso discorso per certi ritmi sostenuti, in Songs Of A Lost World del tutto assenti, che hanno spalancato le porte dei club alla loro musica, quei brani danzerecci punti fermi di qualunque playlist che si rispetti per chi paga per ballare un po’ di musica alternativa. Ma forse la maturità musicale è proprio questa: un taglio con il passato per un compromesso con il futuro. Anche se, dal vivo, i The Cure attingono ampiamente dai fasti di un tempo (a partire dai 45 anni di Seventeen Seconds) e tengono il palco con una forma e una compattezza che non ha confronti.

È bene che siate consapevoli di tutto questo prima di approcciare Songs of A Lost World, un bel disco di un gruppo di artisti anziani che suona e canta canzoni di un mondo perduto, musica da vecchi e destinata a vecchi, ma (credetemi) nell’accezione migliore di tutto questo. C’è la sensazione di essere soli e vicino alla fine di “Alone”, un modo di comporre intro per i suoi dischi con i quali Robert Smith ci vizia da sempre, subito smentita dalla promessa di stare vicino al prossimo sino alla morte di “And Nothing Is Forever”. Ci sono i rimpianti di “A Fragile Thing” e i conflitti che svuotano le relazioni di “Warsong”. La paura delle complessità del presente di “Drone:Nodrone” e la perdita dei propri cari di “I Never Can Say Goodbye”. L’insicurezza di sé di “All I Ever Am” e il commiato di “Endsong”, simmetrico per le sue tematiche alla traccia di apertura, la paura di invecchiare in un mondo alla deriva.

Tematiche dark da manuale, al limite dello stereotipo, sotto tutti i punti di vista, che, nel 2024 e nello status quo delle cose, meritano molta più dignità che allora, e che solo la sensibilità di un artista più che maturo riesce a rendere in pieno: “Left alone with nothing at the end of every song. Left alone with nothing, nothing, nothing”, ripetuto all’infinito quasi come l’ad libitum di “again and again and again” di “A Forest”, quando si correva verso il nulla e una ragazza mai esistita. Ed è per questo che la maschera di Robert Smith, il trucco di quell’adolescente che contemplava la luna sul volto dell’anziano che si trova a fare ancora altrettanto, che a differenza del Cheyenne di This Must Be The Place non si concede e non ci concede nessuno sguardo di intesa finale (tantomeno una redenzione) vista da qui, oggi, non ha più senso di esistere.

intervallo

Standard

Sono curioso di sapere chi ha inventato la colonna sonora. Immagino lo stesso che ha pensato che i film muti sarebbero stati pallosi in quel silenzio totale e che quindi assoldare pianisti in grado di conferire valore aggiunto con esecuzioni live alle immagini potesse essere una buona idea. Poi da lì la cosa deve aver preso una deriva incontrollata. Il piano è stato sostituito da intere orchestre sostituite poi a loro volta dai computer dei sound designer.

Il punto è che, nel frattempo, le immagini si sono arricchite dei dialoghi che hanno decretato l’obsolescenza dei cartelli inseriti tra una scena e l’altra con le battute della sceneggiatura, avete presente? Sicuramente hanno un loro nome ma non sono del mestiere quindi stateci. Il risultato? Immagini più voce dei protagonisti più musica uguale botta emotiva senza precedenti e il prodotto finale diversificato tra l’iper-realtà del grande schermo corredata dal sorround per un effetto immersivo mostruosamente coinvolgente, oppure stravaccati sul divano con Netflix acceso sacrificando la maestosità delle immagini macroscopiche alla comodità di non mettere il naso fuori di casa, rinunciare alla puzza dei popcorn e non farsi venire il nervoso per chi chiacchiera durante la proiezione al cinema o chi ogni tanto dà un’occhiatina allo smartphone o, non so dire peggio o meglio dei precedenti, a quelli che si lavano poco.

A questo punto della nostra civiltà vedere foto o riprese video senza un commento musicale sotto ci sembra una cosa completamente innaturale, tanto che, quando succede, ci preoccupiamo subito di controllare se il driver delle casse è da reinstallare o se abbiamo inserito per sbaglio il mute o se siamo diventati all’improvviso sordi o comunque, nel dubbio, spegniamo e riaccendiamo. Ormai siamo talmente abituati che non potremmo fare a meno di avere una colonna sonora di qualsiasi cosa ci venga proposta, anche se poi molto spesso non facciamo nemmeno caso alla musica. Ma vuoi mettere la sicurezza di non provare l’imbarazzo del silenzio assordante del vuoto.

Anzi, a volte, quando guardiamo una slideshow di foto o una storia sui social, i brani scelti con troppa personalità ci disturbano e rimpiangiamo quei bei sottofondi di un tempo composti in serie da esseri umani e oggi dall’intelligenza artificiale.

La best practice più attuale dell’accompagnamento di immagini con canzoni contestuali è il programma “Casa a prima vista”, avete presente? Mentre gli agenti immobiliari mostrano le loro proposte, o meglio le cosiddette “soluzioni”, a ogni descrizione di edifici, di ambienti e di arredo è associata una canzone che riprende il succo di quanto viene detto, se non addirittura parole chiave dei dialoghi in una maniera esageratamente didascalica. Vi faccio un esempio. Qualche sera fa, a proposito di un bagno definito dagli agenti di stile italiano, la descrizione è stata montata su “L’italiano” di Toto Cutugno, ma non crediate che funziona solo con brani triti e ritriti. Una coppia appassionata di due ruote vintage è stata anticipata da una vera chicca del beat nostrano, e mi riferisco alla canzone “La motoretta” degli Scooters.

Questo impeto di ridondanza mi ha fatto così riflettere sull’urgenza di un sound designer universale che scelga per voi canzoni più adatte a ogni frase che pronunciate o ogni spazio in cui vi ritroviate. Detto fatto. Mi sono candidato a questa posizione e, da lunedì scorso, questo è il mio nuovo lavoro. Non avete notato che a ogni cosa che dite c’è un brano sotto che ne aumenta il valore, il senso o la portata persuasiva? Tutto grazie a me e alla piattaforma che ora gestisco dalla mia postazione: una consolle virtuale da cui ho accesso alla banca dati infinita (più infinita di Spotify) delle musiche composte da quando l’uomo ha scoperto l’efficacia di mettere insieme due o più suoni, che ora è interconnessa alla timeline delle vostre vite. E non dovete nemmeno effettuare l’accesso, quindi niente credenziali. Faccio tutto io. Il DJ universale, che poi era da sempre la mia aspirazione totale globale, ricordate?

Ecco: la sentite la musica sotto? Sono io che l’ho messa, in perfetta linea con quello che state facendo, e se vi mettete in punta di piedi mi potete vedere, laggiù. Sono quello con le cuffie bianche. Spero che il mio approccio sia di vostro gradimento. Scordatevi le scelte banali, scontate e telefonate. Da me solo canzoni di qualità contestuali quanto basta, in modo molto discreto. Per richieste particolari, potete scrivermi anche solo commentando qui sotto.

alone

Standard

Una cosa che manda in brodo di giuggiole i genitori sono gli insegnanti che fanno ascoltare i Beatles in classe. Non ho abbastanza elementi per dimostrare se si tratti di una best practice pedagogica consolidata o semplicemente di una leggenda metropolitana, tanto quanto l’esposizione a Mozart degli esseri umani sin dalla fase pre-natale che ci renderebbe più intelligenti, men che meno di un metodo di mia invenzione.

Da attempato musicologo trombone posso solo dimostrarvi l’interdisciplinarietà del valore dei Beatles, nella fascia di età della scuola primaria. Sono utili se insegnate inglese, ovviamente, perché vi permettono di coniugare lo sviluppo dell’orecchio alla pronuncia perfetta con un dizionario adatto a qualunque esigenza, per non parlare di ciò che il quartetto di Liverpool rappresenta, ossia un’icona inconfondibile della cultura e della civiltà britannica. Sono utili se insegnate musica, perché rendono superfluo il ricorso alle zecchinate d’oro per l’intrattenimento dei più piccoli e intercettano le derive tamarre, nel migliore dei casi verso la trap di periferia ricca di parolacce, nel medio dei casi verso il pop in quota Annalisa e battiti live vari, nel peggiore dei casi verso i balli di gruppo da oratorio/club vacanze, grazie alla portata di un’alternativa convincente, comunque popolare, decisamente autorevole, poco di nicchia, tutt’altro che superata e di facile ascolto. Sono utili anche se insegnate italiano – i loro testi grondano di citazioni utili a semplificare grandi questioni, una volta tradotti – e perché no storia, in quanto perfettamente ascrivibili a un periodo decisivo per la modernità. Per non parlare del cartone animato di Yellow Submarine, provate a proiettarlo in classe e godetevi le reazioni.

Ma mai avrei immaginato che il mio vezzo di introdurre le lezioni con una sigla, una canzone dei Beatles – siamo partiti con la classica “All Together Now”- da variare ogni mese per catturare al meglio l’attenzione dei bambini, avrebbe generato una così invidiabile sintonia con i genitori della seconda C, la classe in cui insegno solo inglese. Le famiglie sono i principali stakeholder della scuola, metterli al corrente nel corso delle assemblee di classe di quello che facciamo costituisce un insuperabile veicolo di customer satisfaction. Ho presentato il programma nemmeno fossimo all’università – in seconda sono previste due ore la settimana, una in più rispetto alla prima – e senza volerlo ho centrato in pieno le aspettative rispetto all’insegnamento della lingua straniera, oggi secondo solo alle STEM come ossessione didattica della scuola dell’obbligo. Un papà ha detto che proporre i Beatles ai bambini gli sembra un’idea fantastica, tutti gli altri hanno confermato di trovarsi d’accordo, una mamma dichiaratamente metallara mi ha chiesto addirittura che cosa pensavo di far ascoltare nei prossimi anni. Non le ho detto che con i metallari noi dark ci menavamo, anzi i metallari menavano noi, negli anni ottanta, non mi sembrava la sede più adatta. Ma non è questo il punto.

So di deludervi, ma a me l’idea di somministrare una seconda lingua a mocciosi che a malapena si sanno esprimere nella prima non convince per niente, e mettere musica in inglese mi sembra comunque un modo efficace per perdere un po’ di tempo a lezione. Alla fine l’inglese per bambini così piccoli si risolve in una serie di istruzioni e parole tradotti letteralmente da imparare a memoria. Se va bene così, allora non c’è problema anche da parte mia. Un bagaglio a mano linguistico utile a sguinzagliarli da soli ad acquistare gelati in occasione delle prossime vacanze all’estero che farete. Un consiglio però: controllate che sappiano farsi restituire il resto corretto.

Il problema sono semmai le foto in bianco e nero, dei Beatles. Com’è possibile che siano esistiti giovani negli anni 60?, sembrano chiedere i bambini. Com’è possibile che delle canzonette pop siano state composte quando i nostri nonni erano appena nati? Quanti anni hanno, ora, quei capelloni?

Io sono uno che non indora certo la pillola, faccio eccezione solo per Babbo Natale ma non ho nessun problema a dire tutte le altre verità. Paul ha 82 anni, Ringo 84, George è morto a causa di un tumore e John è stato addirittura freddato da un folle mitomane a 40 anni, davanti a casa sua. Spoilero immediatamente come stanno le cose per evitare il susseguirsi di domande morbose su argomenti che interessano tantissimo i bambini di quella fascia di età e tagliare corto.

Questa volta però c’è stato un plot twist che devo assolutamente raccontarvi. Ginevra, quella che siede nel secondo banco, è piena di tic perché a 4 anni è stata dimenticata sullo scuolabus che la portava alla scuola materna. Ha trascorso tutta la mattina chiusa nel deposito fino a quando qualcuno è riuscito a ricostruire la catena degli avvenimenti, l’ha riportata a casa e sono state avviate tutte le procedure del caso per attribuire la scala delle responsabilità. La mia è una scuola di un comune di quattro gatti, e questa notizia ha fortunatamente fatto passare in secondo piano quella – decisamente più sconveniente per l’istituzione che rappresento – del nonno che ha sbagliato a ritirare il nipote giusto. Ha preso un bambino e, sulla via di casa, qualcuno che lo ha rincorso gli ha fatto notare il qui pro quo.

Dicevo che Ginevra, tra un tic e l’altro, scesa l’attenzione sulla morte dei Beatles, mi ha chiesto se i musicisti quando diventano vecchi vanno in pensione. Volevo dirle che sarebbe una cosa fantastica perché significherebbe che quello del musicista è un lavoro, che i musicisti arrivano a un certo punto della loro vita senza morire di overdose o suicidarsi a ventisette anni e che, a quel punto della vita, sono riconosciuti da un sistema previdenziale che tiene i conti anche alla loro attività e che fa anche per i musicisti i calcoli per capire quando è il momento di fermarsi. Che poi sarebbe un bene che i musicisti, a quel certo punto della loro vita, si fermassero. Volevo dire a Ginevra che avevo la risposta, o meglio che le avrei risposto solo dopo aver ascoltato il nuovo disco dei Cure che sta per uscire, tra qualche settimana. Avrò le idee più chiare sul fatto che i musicisti sanno riconoscere davvero quando è il momento giusto per andare in pensione.

la uno

Standard

Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 1/4.

la due

Standard

Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 2/4.