Adwaith – Solas

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Un giro del mondo in ventitré tracce, in lingua cymraeg. Solas, il nuovo album delle Adwaith, oltre a essere un’opera monumentale, straordinaria e che nessuno dovrebbe lasciarsi scappare, risulta difficile da liquidare con parole differenti. Se invece è ammissibile l’impiego dell’aggettivo glocal in ambito musicale, la capacità cioè di fare leva sulle opportunità offerte dal resto del mondo per aggiungere valore al proprio metro quadro (in questo caso il Galles, nazione che nell’insieme fa più o meno tanti abitanti quanto una media capitale europea) le probabilità di trasmettere la bellezza di un disco di questa caratura sono più alla nostra portata.

Che poi, a dirla tutta e con una malcelata punta d’invidia, che in uno stato costitutivo e storico della Gran Bretagna si rinunci a cantare in inglese per prediligere un idioma celtico locale comprensibile a (a essere ottimisti) qualche centinaia di migliaia di persone, a noi italiani (a eccezione forse degli amanti di tutta quella paccottiglia fantasy o dei cultori del dio Po e altre minchiate leghiste) ci viene da schiumare di rabbia per lo spreco consumato.

Eppure la formula delle tre meravigliose donne di Carmarthen – Hollie Singer (voce e chitarra), Gwenllian Anthony (basso, synth e mandolino) e Heledd Owen (formidabile batterista) – non fa una piega. Un originalissimo e evocativo indie-rock di prima scelta, a cavallo tra il post-punk e il pop ma, in questa occasione, condito con elettronica e persino abbellito da leziosi ammiccamenti a certe soluzioni armoniche mediorientali (tanto da lambire, in più di un’occasione, il rischio di tracimazione nel kitsch, nell’accezione positiva – sempre che esista – del termine), interamente cantato nel dialetto del posto, cioè quello del Galles.

E se è di un problema di comunicazioni interrotte e di secessionismo culturale nei confronti del resto del pubblico d’oltremanica che si tratta, per noi neolatini è tutto grasso che cola, finalmente liberi dall’annoso problema della comprensione dei testi (che già, con le band inglesi, il ricorso ai sistemi di traduzione online ci leva più di una castagna dal fuoco). In poche parole, il lavoro di ricerca nelle proprie radici linguistiche nella culla del rock non può non avere un significato sottinteso di contrapposizione al mainstream imposto dal mercato della nazione capofila, per di più ai tempi della Brexit.

Sappiamo solo (googlando, ça va sans dire) che Solas significa illuminazione. Un titolo che non può non coincidere con il destino di un disco della maturità, un’opera in grado di lasciarsi indietro l’ingenuità di una band agli esordi – quella di Melyn, il primo album – o le incertezze sulle direzioni da prendere – quelle di Bato Mato, il secondo. Non caso Adwaith significa reazione. Sarà per questo che Solas si profila come un concept ambizioso e senza compromessi di una band dalle idee chiare, anche se pur sempre dalle parole a noi incomprensibili. Non ci resta che accontentarci, afferrare il mood e le vibrazioni e tutti gli spunti offerti da quello che si profila come uno dei dischi più interessanti di questo 2025.

Intanto, la scelta di una pubblicazione così fitta di materiale suona piuttosto in controtendenza ai tempi delle sfilze inconcludenti di singoli e della smania di presidio costante dei propri profili sulle piattaforme di musica liquida, in uno scenario in cui il rischio di oblio è all’ordine del giorno. Al momento di andare in studio, per la band gallese l’imbarazzo della scelta è stato superato con la decisione di pubblicare quello che, in altri tempi, si sarebbe definito un album doppio. Una tracklist che fa anche a pugni con la riproduzione digitale, se consideriamo il frequente ricorso al passaggio tra brani in sequenza senza soluzione di continuità, espediente che penalizza per forza di cose lo streaming. In Solas emerge comunque la crescita delle Adwaith, sempre più unite nello sguardo comune sulle cose, sempre più pratiche nella padronanza dei loro strumenti, voce compresa, sempre più interessanti negli arrangiamenti (qui estremamente variegati) e nella resa dei brani.

I richiami e le atmosfere di una tracklist così corposa sono innumerevoli ed eterogenei. Nonostante la difficoltà di trascrivere i titoli, possiamo però distribuirli tra le principali classificazioni che ci sembrano più congeniali, giusto per fare un po’ d’ordine. In Solas si susseguono brani tipicamente indie rock, in alcuni casi decisamente alternative (“Tristwch”, “Wyt Ti Ar Y Lein”, “Heddiw / Yfory”, “Purdan”, “Sanas” e soprattutto la splendida “Sain” con il suo coretto uh-uh), canzoni che confermano la matrice post punk, a volte dichiaratamente elettrico, altre con un taglio elettronico (“Pelydr-X”, “Coeden Anniben”, “Solas”, “Planed”, “Y Ddawns”), una corposa sezione di graziose e talvolta irriverenti composizioni indie-pop se non pop tout-court (“Teimlo”, “Ti”, “Gofyn”, “Paid Aros”, “Miliwn”, “Addo”) che alleggeriscono l’ascolto dei momenti più cupi, e infine richiami alla tradizione dream folk/pop e ethereal wave (“Y Diwedd”, “MWY”, “Gorllewin Pell”, “Deffro”), reminiscenza sicuramente favorita dal timbro vocale che ci rimanda ai fasti della 4AD degli anni 80.

Sin da un primo ascolto, Solas si caratterizza come l’apice (almeno ad oggi) di un terzetto di musiciste sicure di loro stesse, del loro stile e delle loro potenzialità. Una sfida lanciata ad un mondo in cui fare breccia con l’originalità è sempre meno alla portata di tutti e che le Adwaith superano grazie a un entusiasmo e una voglia di sperimentazione senza confronti. Un messaggio coraggiosissimo e proiettato al futuro, un piccolo capolavoro nato dall’estro di una band giovane ma pienamente consapevole di aver già trovato un sound unico e di aver occupato un posto, nel panorama musicale, che non è mai stato di nessun altro.

Postcards – Ripe

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Se bombardassero il paese in cui vivete o scoppiasse una guerra, continuereste a incontrarvi in sala prove per suonare?

Olivier Messiaen scrisse ed eseguì live per la prima volta il suo Quatuor pour la fin du Temps internato nel campo di concentramento di Görlitz. È Il paradosso dell’atto compositivo: tensione, disperazione e una più che legittima paura della morte che riescono a scatenare, nelle vittime, l’istinto che reagisce all’annullamento del sé con atroce bellezza, in un impeto di sopravvivenza.

Ho pensato a questa straordinaria testimonianza degli orrori del Novecento dopo aver ascoltato la prima volta “Dust Bunnies”, il singolo che ha anticipato l’uscita di Ripe, nuovo album dei libanesi Postcards. Ho provato a immaginare come sia possibile conciliare cose che diamo per scontato come il suono di una chitarra elettrica, il canto, la poesia, e anche solo concetti come shoegaze e noise – il lusso del rumore nell’accezione di espressione artistica, mica come l’inevitabile background dovuto al caos bellico a cui i civili, sono pronto a scommettere, rinuncerebbero volentieri – in posti come Beirut nel 2025, allo stesso modo con cui Messiaen e tre suoi commilitoni dell’esercito francese prigionieri quanto lui, armati (per modo di dire) di violino, clarinetto, violoncello e pianoforte, da soli hanno vinto una guerra, gettando il suono e il cuore oltre la fine del tempo.

I bombardamenti dell’esercito israeliano e un genocidio alle porte imporrebbero tagli radicali al superfluo, limitando le attività delle persone a quella essenziale, salvare la pelle, in un kit di sopravvivenza in cui una entità immateriale come la musica, astrazione che comporta serenità, silenzio e uno spazio intimo necessario alla sua elaborazione, non può certo rientrare.

Solo e soltanto da questo punto di vista, la musica dei Postcards è disturbante, mette a disagio mentre la si ascolta al sicuro dentro i nostri auricolari, riparati nelle nostre case intatte e allineate lungo le vie delle nostre città ordinate e sgombre da macerie, al riparo dalle interferenze delle sirene di allarme o quelle in loop delle ambulanze. C’è un mondo che cade a pezzi e una band trascende un sentimento ancestrale come la rabbia in musica. Uno stile che stempera l’angoscia con l’ardore dell’immaginazione e organizza l’irrazionale in un linguaggio in grado di trasmettere al meglio gli aspetti fondanti della disperazione e della paura.

Non è fuori luogo, quindi, scrivere che in uno scenario come questo i tre componenti della band con base a Beirut – Julia Sabra (voce e chitarra), Pascal Semerdjian (batteria) e Marwan Tohme (chitarra e basso) – risultano dei sopravvissuti a tutti gli effetti, a poco più di dieci anni di attività e, ora, al quinto album. Ripe è un’opera in cui i Postcards portano a termine una rielaborazione del loro percorso musicale rivisitato sull’onda della storia più recente. Il suono, necessariamente più viscerale e cupo, mantiene al contempo la stessa incrollabile determinazione e trasmette la dignità con cui la band riesce a rispondere, ancora una volta nel modo più comprensibile agli ascoltatori distanti come noi, alla tragedia che si sta consumando dentro e ai margini dei confini del posto a cui appartengono.

Per questo in Ripe prevalgono le trame più dolorose, riconoscibili nel loro stile shoegaze dal retrogusto post-punk, mentre le componenti dream-pop, nei dischi precedenti sorrette dalla straordinaria vocalità di Julia Sabra, perdono i toni pastello e l’effetto vignettatura tipico dei sogni e si corrompono della peggiore realtà circostante. Uno sdegno sonoro urgente e discontinuo, alternato a momenti di sofferente consapevolezza dell’inevitabile sconfitta. Davide e Golia, l’epica che beffardamente si ripropone nella sua primitiva crudezza.

Ripe è un disco in studio (è stato registrato in presa diretta nella casa del batterista Pascal Semerdjian, ubicata sulle montagne libanesi) ma consapevolmente live. L’energia dei brani è la stessa reazione dell’espressione nella copertina, il fastidio una secchiata d’acqua in faccia, una bella seccatura, in costante equilibrio tra la consapevolezza del tenere la situazione sotto controllo e l’istinto di dover scappare via, senza pensarci, in preda al panico.

Tra le distorsioni di “I Stand Corrected”, l’allarmante “Dust Bunnies” (“I nostri antenati avrebbero dovuto saperlo, non c’è più nessun posto dove andare”) in antitesi con il suo opposto industrial “Ruins” (“come radici tra le pietre noi perseveriamo”), il funereo incedere – non caso siamo dalle parti dei Cure più recenti – di “Wasteland Rose”, lo struggente groove di “Colorblind”, la bellezza di “Construction Site” e le reminiscenze di Dummy di “Angel”, ribadite nella conclusiva “Dark Blue”, per tutto il disco la perfetta simmetria tra chitarre e sezione ritmica rilancia con potenza le dissonanze e le scomodità anche nei momenti in cui la smania di affermazione artistica, dall’alto della sua imparzialità, volta le spalle all’urgenza di trovare una risposta, una soluzione, una via di fuga, tra alienazione e malinconia.

Ripe ci lascia con un tragico interrogativo: è possibile opporre resistenza con la musica? Saranno davvero un pugno di canzoni a salvarci?

Bambara – Birthmarks

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Autori di storie americanissime su uno sfondo diversamente post-punk, i Bambara pubblicano il loro album più completo e maturo, confezionando dieci racconti maledetti in cui la sperimentazione di nuove sonorità accompagna la consueta potenza narrativa.

DreamviolenceSwarmShadow on EverythingStrayLove On My Mind e ora Birthmarks. Immaginateli come una collana di libri, raccolte di racconti esposte sullo scaffale nella sezione southern gothic della biblioteca, e voi che avvicinate il viso e inclinate il collo verso destra per leggere il titolo in verticale da vicino, finché con il dito scostate il volume che più vi intriga per trovare conferma delle trame promesse scoprendo, con prudente accortezza, l’illustrazione di copertina. Oppure pensateli come episodi di una nuova stagione di True Detective, ambientata questa volta in Georgia, profondo sud tanto quanto la prima – riuscitissima – in Louisiana.

Dai primi rumorosissimi album all’ultima uscita, tra tutte quella più squisitamente accogliente, i Bambara hanno dato sempre prova di saper coinvolgere il pubblico con la loro scrittura. Veri e propri concept narrativi da fuoriclasse dell’arte del raccontare, trame degne di penne maledette come Harry Crews, short story tra il noir e il grottesco imbevute di tutta la disperazione che pervade la vita nei sobborghi urbani e non degli stati del sud.

Inquietanti vicende notturne o ambientate in bui e ambigui locali da karaoke, palcoscenico di quel tipico underground umano che esiste solo laggiù, pick up parcheggiati fuori e stivali di pitone che si muovono intorno al biliardo e attraverso storie in cui non si vede la luce del sole se non da sopravvissuti all’alba o in uno di quei risvegli soffocati nel migliore dei casi dal tormento, nel peggiore dal vomito, in pieno hangover. Anti-eroi che, visti da qui, ci fanno lo stesso effetto dell’epica studiata a scuola, una mitologia della deprivazione a stelle e strisce che noi non possiamo nemmeno lontanamente immaginare, soprattutto ora che c’è pure Trump.

In Birthmarks lo stile dei Bambara si fa ancora più perfetto scenario ai protagonisti dell’immaginario di Reid Bateh, il cantante-chitarrista che condivide con il gemello Blaze alla batteria e il bassista William Brookshire una delle case di produzione di fiction musicale più convincenti al mondo. Lasciata Atlanta per Brooklyn, la componente noise del loro post-punk si arricchisce di una strumentazione di certo meno ortodossa per il solo clima del sud. Nell’ultimo lavoro la band si avvale di qualche add-on elettronico, linee di synth bass, strumenti a fiato e a corda e persino voci femminili, innesti de-strutturati ma perfettamente riusciti che conferiscono atmosfera e valore alla portata descrittiva delle loro composizioni, e rinuncia quasi in toto all’effetto vibrato e alle mandate di riverbero sulla chitarra elettrica, fino a Stray un loro americanissimo marchio di fabbrica, il tutto senza sacrificare l’essenza del progetto.

Merito anche della co-produzione di Graham Sutton dei Bark Psychosis, qui il risultato è un sound ancora più torbido, accresciuto da venature diversamente cupe che non sfigurerebbero nei passaggi più dark dei Massive Attack, un morso letale che aumenta il rischio per l’ascoltatore di soccombere per avvelenamento. Un apporto decisivo in grado di arricchire l’estro compositivo della band, uno sguardo degno di un direttore della fotografia in una ripresa in grandangolo pensata per espandere il respiro dei brani e lasciare spazio a un approccio ritmico meno radicale e intransigente rispetto ai dischi precedenti. La stessa voce, conturbante e macabra, alterna l’incedere da commento fuori campo a ruolo da crooner protagonista con seducenti impennate melodiche, a confermare la vocazione da capolavoro di un disco dichiaratamente ambizioso.

“Hiss”, calzante traccia di apertura, condensa in quello che sembra il trailer dell’album una toccata e fuga tra sconosciuti in una camera di un motel, tra squallore della frutta di plastica e tenerezze fuori luogo ma dal finale incerto. Le ultime volontà della successiva “Letters from Sing Sing” potrebbero esserne il logico prosieguo, lo stesso uomo che confessa il delitto ed è rinchiuso in attesa della scarica fatale. Una violenza anche nella forma che si stempera in “Face of Love”, in cui il pathos si concentra tutto nel racconto di una fuga – i camion, le strade e le aree di sosta delle pianure americane le conosciamo bene – troppo lenta per far mangiare la polvere ai rimorsi.

“Pray to Me” e “Holy Bones” sono ennesimi titoli evocativi di altrettante storie maledette rese con le trame sonore e gli espedienti strumentali che hanno reso lo stile dei Bambara inconfondibile. Nel disco trova spazio anche il racconto di un sogno, “Elena’s Dream”, dalla voce sussurrante di Madeline Johnston a.k.a. Midwife, qui accompagnato da una base onirica e adeguatamente surreale. Timbriche che cambiano di poco nella struggente “Because You Asked”, una lunga ed esplicita risposta a una richiesta di spiegazioni che, forse, alla fine sarebbe stato meglio non sapere. Il registro industrial di “Dive Shrine” crea una efficace separazione dal resto e fa da preludio alle due tracce conclusive, la mesta “Smoke” e la veloce “Loretta”, la prova che quando si parla di figure femminili, proprio come per la hit “Serafina” di Stray, i BPM necessariamente si impennano.

Con Birthmarks i Bambara si confermano una band senza confronti, veri maestri di sperimentazione musicale a corollario di capolavori narrativi. Uno stile allo stesso tempo crudele e rassicurante, potente e suggestivo che, grazie al suo mix di post-punk e americana – quella meno accomodante, quella dello Springsteen di Nebraska o di Leonard Cohen o dell’ultimo Johnny Cash – si distingue per modernità e indubbia originalità.

Joan Thiele – Joanita

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Non c’è Lucio Corsi che tenga. La canzone più indie dell’ultimo Sanremo è quella di Joan Thiele, e basta. Da oggi “Eco” trova casa nel suo secondo album, una produzione dal respiro internazionale pronta per il grande pubblico e il successo che merita. Sempre che riusciate a capire cosa dice quando canta.

Chi l’avrebbe mai detto che un giorno il mondo sarebbe stato di quelli che si mangiano le parole e che un’intera generazione di cantautori e interpreti, penalizzata da un insanabile connubio tra un disturbo dell’articolazione dell’eloquio, l’anelito di rimare con parole tronche per emulare i propri beniamini d’oltreoceano e il desiderio di far percepire il proprio vissuto da underdog, un must dei nostri tempi, si sarebbe alfine imposta come il genere umano predominante nel panorama musicale italiano. Che avremmo dato ragione a gente che si esprime biascicando.

Il tutto mentre quelli della mia generazione, cresciuti a cantanti underground dalla dizione fin troppo impostata e azzimata – pensate a un Miro Sassolini, un Andrea Chimenti o allo stesso Pelù con tutto il suo entusiasmo – si sarebbero trovati nello stesso momento storico anziani ed esposti a questa barriera di incomunicabilità in piena ipoacusia, conseguenza dell’età avanzata e di ascolti giovanili a volumi evidentemente inopportuni. In poche parole, siamo sordi noi o hanno bisogno di un buon logopedista loro?

Per valutare giovani cantanti come Joan Thiele occorre quindi spogliarsi del pregiudizio che, per una serie di motivi che non conosciamo ma dei quali sicuramente noi vecchi sputasentenze rincoglioniti (che ne siamo stati genitori e insegnanti) ne costituiamo in gran parte la causa, nel duemila e rotti i giovani tentano l’emancipazione culturale (e purtroppo linguistica) con fonemi di questo stampo e che quella che sembrerebbe un’omologazione a uno stile vocale tutto italiano, indispensabile per certificare l’appartenenza all’ormai super-genere unico nazionale – quella specie di pop trap rap neosoul imbellettato da urban indie che detiene il monopolio solo da noi, altro non è che una naturale evoluzione del linguaggio. Un destino che ha dell’incredibile: dal latino al volgare, dal volgare all’italiano, dall’italiano al bsgsgsgsg. Abbiamo vissuto la stagione degli urlatori? Bene, ora godiamoci quella dei farfuglioni.

Ma queste sono stupidaggini. Credo piuttosto che la talentuosissima Joan Thiele certo non si offenderà se ammetto di averla scoperta solo grazie al suo contributo all’album di Colapesce Di Martino. La difficoltà di comprenderne il testo senza fruire di un labiale in presenza mi aveva oltremodo intrigato. Poi, la sua apparizione sul palco dell’Alcatraz di Milano come consolidamento del suo featuring proprio per il brano in questione (“Forse domani”, una delle più riuscite tracce di Lux Eterna Beach) accompagnata dalla band degli autori di “Musica Leggerissima”, ha avvalorato il colpo di fulmine. Da allora ho percorso a ritroso la sua carriera grazie all’ordine anticronologico della sua produzione in palinsesto nella più diffusa piattaforma di musica liquida e, fedele al mio modo ossessivo compulsivo di approfondire gli artisti che mi piacciono, mi sono messo in paziente attesa di una prova più rappresentativa della sua maturità. Un album, ma di successo, fatto e finito.

Fino a quando, da uno dei suoi profili social che seguo con fervente devozione, ho appreso della partecipazione al Festival di Sanremo assistendo alla story del momento che mostrava la sua reazione (un vero e proprio POV, com’è tanto di moda oggi) alla notizia del superamento della selezione. Sono stato così sveglio per una settimana fino alle due di notte per scoprire le possibilità che avrebbe avuto “Eco”, senza dubbio la canzone più interessante di tutto il festival, anche molto di più del pluri-favorito Lucio Corsi, di piazzarsi ai primi posti, per poi scontrarmi con la feroce realtà extra-bolla e constatare, per l’ennesima volta, come se non l’avessi mai saputo, la pochezza di un concorso canoro lasciato alla mercè di una giuria popolare di deprivati che, fondamentalmente, di musica non capisce un cazzo, perfettamente in linea con il resto, a partire dal senso estetico per arrivare agli orientamenti politici, antipolitici e astensionisti. Venticinquesima, roba da matti. Ma ormai i giochi erano fatti: Joanita, finalmente il primo disco fuori dalla nicchia, sarebbe stato pubblicato di lì a poco.

Ed eccolo qui. Nella
sua intervista a Il Manifesto di qualche giorno fa la cantautrice (italiana ma, grazie al miscuglio di residenze e incroci genitoriali, cittadina del mondo) ha ammesso l’impegno e la caparbietà necessaria a portare a termine un disco così sofisticato in quasi tre anni. Un impegnativo processo di composizione musicale, arrangiamento, scrittura dei testi e assemblaggio nella forma canzone in grado di mettere fuori gioco anche un carattere perfezionista e una personalità dal gusto sopraffino come Joan Thiele. Fino a quando l’istinto, i consiglieri giusti e una produzione molto poco italiana hanno sbloccato il livello e spianato il percorso più adatto ad arrivare sino in fondo e chiudere il progetto.

Dentro a Joanita la regia di Callum Connor dei Free Nationals, l’apporto di Mace, il beneplacito della figlia di Piero Umiliani per certi smaccati tributi alle colonne sonore del padre e il featuring di Frah Quintale che colloca meglio il prodotto nel calderone nazionale (autore dell’ennesima non-rima frequente in questo genere di canzoni – ‘Sta vita è troppo corta, ti verso un Franciacorta – che è un vezzo che mi manda in bestia) fanno da cornice alla vera protagonista.

Dodici tracce (più uno scherzo finale) che funzionano sotto tutti i punti di vista. Melodie intriganti ma sufficientemente contenute per non sconfinare nel pop dozzinale, con il giusto alternarsi tra cantato e quel flow che sembra sempre che chi recita stia per andare in un inebriante fuori tempo ma che invece, dimostrando di gestire al meglio la situazione, essendo convintamente cool, ha tutto sotto controllo. Pattern e suoni di batteria che cullano l’ascoltatore tra il trip hop e il breakbeat. Trovate e arrangiamenti ispirati alle orchestrazioni della canzone italiana anni ’60 (la chitarra suonata con il riverbero e altri effetti garage-surf su tutti) e, in genere, groove a volontà. Un raro sfoggio di stile che si accende su un immaginario cinematografico centrato sulla voce narrante di Joan Thiele, artista unica, songwriter sorprendente e figura ricca di fascino.

Joanita sarebbe un disco da massimo dei voti se non fosse per la dizione irritante, una posa che, anziché conferire valore aggiunto all’opera, ne omologa le tracce a un provincialissimo cliché – che ahimè va per la maggiore – oramai trito e ritrito, sicuramente poco inclusivo, ampiamente pretenzioso e per questo più che superfluo. Ma non ve l’ha mai insegnato nessuno, da piccoli, che non si parla con la bocca piena?

Vent’anni di Socialismo Tascabile: intervista a Max Collini

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Questo pezzo è uscito su Loudd.it

Ho una foto di mia figlia da piccola che, con addosso un paio di cuffie Sennheiser indiscutibilmente oversize rispetto alla sua testa, manovra la modulation wheel del mio Microkorg con la mano sinistra, mentre con l’altra schiaccia qualche tasto a caso, né più né meno di quello che da giovane facevo io quando mi atteggiavo a Boosta dei Subsonica, ma prima di Boosta dei Subsonica e penalizzato dall’assenza di un supporto a molle per la mia strumentazione. L’ho scattata qualche mese dopo l’uscita di Socialismo Tascabile degli Offlaga Disco Pax. Mi aveva colpito l’immagine della copertina del disco, e quel giorno in cui mia figlia mi aveva sorpreso mostrandosi interessata a seguire le orme del papà (cosa da cui ha desistito immediatamente per coltivare passioni che fortunatamente hanno richiesto investimenti meno impegnativi in termini di equipaggiamento) non mi ero lasciato scappare l’occasione di accendere il synth, metterglielo davanti e immortalare l’irripetibilità del momento.

Credo che in quel sabato mattina sia andata poi di lusso quasi a tutti. Mia figlia ora ha ventun anni e si sta godendo la libertà di studiare all’estero, almeno per il periodo dell’Erasmus. Io scrivo recensioni di dischi e musica (per la gloria, ça va sans dire) per una webzine tutto sommato genuina e con una sua dignità, grazie alla quale ho intervistato persino Max Collini, che da tempo condivide con Paola Egonu il mio personalissimo pantheon di figure per le quali nutro una smodata stima.

Gli Offlaga Disco Pax, dieci anni dopo la dolorosa scomparsa di Enrico Fontanelli (fotografo e zio della bambina in copertina nelle prime tre edizioni del disco nonché padre della protagonista dell’ultima) si sono temporaneamente ricostituiti per un tour celebrativo dei vent’anni dall’uscita dell’album d’esordio che, ad oggi, ha doppiato le date con cui era stato inizialmente organizzato e vanta diversi sold out in location da mille posti, quelle che organizzano concerti che viene gente anche da fuori a vederli.

Devo ammettere che abbiamo sottovalutato l’affetto che ci circonda”, esordisce Max Collini, raggiunto al telefono. “L’idea è stata mia e quando ho proposto a Daniele Carretti questa iniziativa per i vent’anni ha accettato con entusiasmo. Ci siamo così rivolti alla nostra agenzia storica – Lorenzo Bedini di Antenna Music Factory, la stessa che ha gestito tutta l’attività live degli ODP dai primissimi concerti sino allo scioglimento – il quale ci ha sorpreso proponendo locali con una capienza ben distante dai numeri che avevamo raggiunto nell’ultimo tour”.

La scommessa sul successo dell’iniziativa è stata così vinta dagli organizzatori. “Lorenzo si è mostrato certo sul fatto che i biglietti sarebbero stati presi d’assalto nel giro di pochissimo”, aggiunge Max. “Lato mio c’era il desiderio di suonare dal vivo di nuovo quelle canzoni, anche solo come celebrazione di quello che era stato, senza particolari ambizioni. Pensavamo di ritrovare un po’ degli amici che ci seguivano all’epoca ma probabilmente non ho tenuto conto di quello che è accaduto intorno a noi negli ultimi dieci anni”.

Nel frattempo è cambiato tutto. Del socialismo in espansione come l’universo, già in piena contrazione nel 2005, non si percepisce nemmeno più l’eco del big bang da cui è scaturito. Il match contro i vetero-sensibilisti che perdevamo due a zero è stato annullato per manifesta incapacità dell’avversario (cioè noi) e della Golf, oggi, è presente sul mercato persino un modello ibrido. Ma non è difficile immaginare chi sarà presente in prima fila.

Non sappiamo chi si sia precipitato ad assicurarsi i biglietti”, sottolinea Max. “Forse la vecchia guardia, o forse le generazioni che non ci hanno incrociato perché ai tempi troppo giovani”. L’ultimo concerto degli Offlaga risale a settembre 2013, da allora sono trascorsi dodici anni. “Nel frattempo ci siamo trasferiti sulle principali piattaforme di musica liquida e le nostre canzoni possono essere rintracciate in ogni modo. Per questo credo che troveremo un pubblico eterogeneo. Ci sono ragazzini che vanno a vedere i Diaframma per il tour dei quarant’anni di Siberia, un disco che è uscito quando non erano nati nemmeno i loro genitori. Non so veramente cosa aspettarmi, te lo saprò dire quando inizieremo i concerti”.

Tra quelli che sono riusciti ad accaparrarsi due biglietti della prima data ai Magazzini Generali di Milano ci sono anch’io, alle soglie dei sessant’anni, ma sono sicuro che non sarò il più vecchio del locale. Anch’io, come Max, ho fatto l’esame di seconda elementare nel 1975. Ho avuto così la fortuna di vederli più volte dal vivo, lungo i tour promozionali dei loro tre dischi. Gli aspetti che da subito mi hanno colpito dei loro live sono la sicurezza e la precisione con cui Collini riesce a seguire la struttura dei pezzi nonostante la formula spoken word dei testi. Finché canti, andare a tempo e riuscire a rispettare, con una melodia, strofe e ritornello è tutto sommato semplice. Per i testi declamati cambia tutto. Nel caso degli Offlaga la differenza la facevano lo stile e la strumentazione di Enrico Fontanelli e Daniele Carretti, composta da sintetizzatori, drum machine ed effetti manovrati dal vivo, oltre a basso e chitarra. L’assenza di basi (e la conseguente maggiore libertà sul palco) in brani che altre band farcirebbero di sample e tracce daw pre-registrate è l’altro fattore che li ha resi unici.

Abbiamo ripreso a suonare con un terzo musicista, Mattia Ferrarini, e a provare i pezzi a metà novembre”, chiarisce Max. “Quella di Mattia è stata una scelta abbastanza naturale. È uno di noi, appartiene al mondo musicale di Reggio Emilia, e ha suonato in alcuni gruppi che conosciamo. Non ha un passato né un profilo da session-man. Con lui condividiamo diverse passioni e somiglia molto a come eravamo noi quando abbiamo iniziato e quando abbiamo registrato Socialismo Tascabile. Nessuno degli Offlaga era un virtuoso, pensavamo di avere delle cose da dire e cercavamo di farlo nel miglior modo possibile, secondo le nostre capacità”.

E quando chioso sul fatto che per suonare certi pezzi occorre anche essere fedeli alla linea, Max non ha dubbi. “Mattia è una persona con la stessa nostra sensibilità. Non è stato sottoposto a uno screen per identificare la sua posizione politica, cosa vota e cosa pensa. Ma per come suona, per le cose che gli piacciono e per gli ascolti che ha, pensare che non sia un uomo profondamente progressista, libertario, di sinistra, democratico e antifascista è impossibile. Non si può suonare e ascoltare il nostro repertorio, o vivere come Mattia vive la sua vita di musicista, e votare Fratelli d’Italia. È inconcepibile. Non riesco a immaginarlo. La sintonia è umana, prima di tutto. Noi cercavamo una persona che potesse farci sentire a casa. Saremmo potuti ricorrere a un professionista qualificato, magari con tempi tecnici più veloci, e magari avremmo lavorato meno. Probabilmente nel giro di due settimane avremmo riarrangiato e sistemato tutto con una certezza superiore del risultato, ma non era quello che cercavamo”.

E anche se provare con un altro musicista che non fosse Enrico, nel ruolo di chi si deve occupare di cose così complicate che, a detta di Collini, nemmeno Enrico stesso, a volte, sapeva spiegare come facesse, non è stata un’operazione immediata, i risultati non sono tardati. “L’unico obiettivo che avevo era di conferire la giusta dignità ai pezzi e prepararli in modo adeguato”, sottolinea Max, “evitando di proporli in una veste o una produzione non convincente o non consona rispetto alla nostra storia, in linea con quello che siamo sempre stati: un gruppo rigoroso, in grado di portare sul palco sempre il miglior concerto possibile. La prima cosa che abbiamo detto nel momento in cui abbiamo rimesso insieme la band è stata di metterci in condizione di non arrivare alle prime date impreparati o non convinti di quello che stavamo facendo”.

Nel frattempo, altre cose sono cambiate, e non solo per i fan degli Offlaga. “Com’è suonare al tempo di Giorgia Meloni? Non ne ho idea”, ammette Max. “Noi siamo una cosa talmente differente da ciò che rappresentano la politica e la società oggi da risultare una bolla, al di fuori del paese reale, nella sua complessità. Quello che spero è che gli Offlaga e chi li segue siano una sorta di virus in grado di mettere in qualche modo in discussione lo stato di cose esistente”.

Se, come me, di quella bolla avete un abbonamento a vita, anche solo honoris causa, avrete assistito al culto di cui le canzoni degli ODP sono state oggetto sui social da quando i social si sono diffusi. Pochi artisti, in Italia, possono vantare versi così efficaci da entrare nell’uso comune e alimentare citazioni o meme. A me vengono in mente Elio (per ragioni diametralmente opposte), i CCCP, Calcutta e Max Collini. Parole ricche di situazionismo poetico, in grado di cristallizzare eventi e attitudini. Questo significa cogliere nel segno e penetrare nella cultura.

Negli otto anni e mezzo in cui siamo stati sulla scena abbiamo dato voce a una nicchia”, continua Max. “Negli anni zero, quando facevi cinquecento persone a Bologna eri già un fenomeno di tutto rispetto. Questo prima di Calcutta, che ha decuplicato il pubblico dell’indie italiano. Il lessico di Socialismo Tascabile nel 2005 risultava desueto, maneggiato con molta autoironia, e paradossalmente ha incuriosito generazioni successive a quella cui invece pensavamo di rivolgerci. Da allora gli Offlaga si sono evoluti, anche nel modo di scrivere i testi. Bachelite Gioco Di Società, sotto questo punto di vista, non sono sovrapponibili al primo album. Un cambiamento che però non è avvenuto per una scelta estetica a monte. Eravamo cambiati noi, era mutata la consapevolezza di quello che facevamo, io stesso non volevo raccontare le stesse cose nello stesso modo. Per questo, dal punto di vista lessicale e semantico, nei testi di Gioco Di Società, che è arrivato sette anni dopo, c’è qualche affinità con i precedenti ma sono evidenti anche molte divergenze. La voce e il tono sono gli stessi, ma sono cambiate un po’ di cose. Forse sarà per questo che Socialismo Tascabile si è consacrato il disco più amato degli Offlaga”.

C’è un momento dell’anno in cui, puntualmente, gli Offlaga tornano alla ribalta. Ogni 2 agosto, anniversario della strage di Bologna, la canzone “Sensibile”, forse il brano con il significato più forte di tutto il loro repertorio, viene ampiamente condivisa sui social. Ma il video che circola e va per la maggiore non è ufficiale e, a differenza dei (pochissimi) video della band,  sembra banalizzare il tema trattato. Non sarebbe il caso di pubblicarne uno ufficiale, in modo da risolvere la questione alle radici?

No”, su questo Max non ha dubbi. “Siamo sempre stati attenti a non risultare didascalici, e realizzare un video su un argomento così controverso, in un momento in cui i videoclip sono prodotti superati, non avrebbe più lo stesso impatto di allora. Il video non ufficiale che circola è pieno di ingenuità. C’è da dire che non siamo mai stati inappuntabili nemmeno noi nella scelta dei singoli, “Robespierre” a parte. Non siamo mai riusciti a individuare il brano più forte negli altri album, che in Bachelite è sicuramente “Sensibile”, molto più di “Ventrale” e “Onomastica”, e in Gioco Di Società è “Piccola storia ultras”, più di “Parlo da solo” o “Respinti all’uscio””.

Canzone che, su tutte, è accompagnata dal mio video preferito.

Il video di “Respinti all’uscio” è stato interamente pensato e realizzato da Enrico, grazie all’archivio messogli a disposizione dalla nostra televisione locale, TeleReggio. Lì Enrico ha trovato pochissimo materiale utilizzabile del concerto dei Police, così ha pensato di integrarlo con riprese di riempimento tratte dai telegiornali dell’epoca. Senza saperlo, ha scelto immagini che mi riguardano, a partire da un corteo di studenti dell’8 marzo in cui ho riconosciuto i miei compagni di militanza della FIGC e una mia fidanzatina dell’epoca. Il tutto, ripeto, in modo involontario. La prima volta che l’ho visto, e tieni conto che allora Enrico stava bene e non c’era nessuna avvisaglia o pericolo per il futuro della band, ho pianto dalla commozione e dalla contentezza. L’ho trovato centratissimo, bellissimo, con un gusto perfetto per quel tipo di montaggio e nel modo di raccontare la città. Ed è allo stesso tempo la perfetta nemesi del video di “Parlo da solo”, realizzato da Luca Lumaca, un bravissimo videomaker nostro amico, in cui, visto da qui, emerge invece una città che ricorda Reggio durante il lockdown. Un panorama urbano abbandonato in cui un’automobile si muove lungo vie deserte, e sullo sfondo solo edifici senza traccia di esseri umani. La città contemporanea, desolata e spopolata, in contrapposizione alla Reggio degli anni 80, piena di gente, di vita, di fermento e di gioiosa confusione”.

Un altro momento in cui mi si ripropongono ciclicamente gli Offlaga Disco Pax è il mese di febbraio, per motivi indubbiamente meno nobili. Ogni anno mi approccio a Sanremo con una fantasia perversa, quella di trovare, nella serata dei duetti e delle cover, gli Offlaga Disco Pax accompagnare uno dei concorrenti del festival nell’esecuzione di uno dei loro brani. Nell’anno di Lucio Corsi, un outsider un po’ come loro, ho chiesto a Max con quale artista italiano vorrebbe condividere il palco dell’Ariston e con quale titolo.

Sarebbe senz’altro un concorrente suicida, o almeno un amante del pericolo. Ci vorrebbe un artista che allo stesso tempo fosse da Sanremo ma che avesse con noi almeno un’affinità umana, se non personale. L’unico che mi viene in mente in questo momento, per attitudine e anche perché con lui ho già diviso il palco qualche anno fa, in un concerto per Enrico Fontanelli organizzato alla Flog di Firenze per i 30 anni del Rock Contest, è Dario Brunori. Abbiamo eseguito insieme una versione abbastanza curiosa e con accento calabrese di “Dove ho messo la Golf”. Il problema è che Brunori non è matto e non chiamerà mai gli Offlaga a duettare con lui”.

Non vi nascondo che io speravo invece in una versione di “Lungimiranza” con Ligabue e Vinicio Capossela.

Ah certo, quei due vengono di sicuro. Ipotesi molto suggestiva però, a prescindere dalla nostra disponibilità, Ligabue non farà mai Sanremo, Capossela ha già partecipato con Giovanni Truppi, ma comunque nessuno dei due ci chiamerebbe mai. Sono un grande fan di Lucio Corsi, ma il suo immaginario di riferimento non è sovrapponibile a quello degli Offlaga. Ma chi è che ha un immaginario di riferimento sovrapponibile al nostro? Più probabile che invece uno come Manuel Agnelli possa assegnare la cover di “Robespierre” a un concorrente di X Factor, questo non lo escludo. Resta il fatto che Sanremo è fuori dalla nostra portata. L’unico brano degli Offlaga che potrebbe avere un senso al Festival è “De Fonseca”. Una canzone che parla d’amore e non di politica, nonostante il brand citato che è una cosa che non piace agli organizzatori, anche se dall’avvento della trap e del rap le cose sono un po’ cambiate e grazie a “Minchia signor tenente” di Faletti si sono aperte le porte al parlato sulle canzoni. Ma Sanremo non è il nostro mondo. Mi piace seguirlo perché è uno spaccato della società italiana e per parlarne male, ma anche bene. Quello che ho apprezzato di quest’anno è vedere tre cantautori, tutti e tre sul podio, alla faccia degli autori che firmano qualunque canzone possibile e immaginabile. I primi tre posti occupati da artisti che si sono scritti da sé i loro brani. Un bel segnale verso le catene di montaggio delle case discografiche”.

Volevo raccontare un’ultima cosa a Max Collini, ma dovevamo chiudere l’intervista, così la scrivo qui. Anni fa ho acquistato una maglietta sbagliata, che è una linea di t-shirt illustrate con vistosi abbinamenti grafici e concettuali consapevolmente paradossali, principalmente in ambito musicale, frutto di un’idea geniale del mio amico ed ex collega Dietnam. Il modello che avevo scelto era quello con l’iconica onda del pulsar di Unknown Pleasure con sotto, al posto della scritta Joy Division, il nome dei Nirvana. Qualche settimana dopo ho notato una foto proprio di Max Collini davanti al microfono con la stessa maglietta. Aveva condiviso l’immagine sul suo profilo Facebook, e ricordo benissimo che c’era gente che non aveva capito e commentava stupita il grossolano qui pro quo. Ma come, uno come il cantante degli Offlaga Disco Pax, che sa chi è Mark Lanegan, non conosce i dischi di due band così importanti e si lascia trollare in questo modo?

Poche settimane dopo ci sarebbe stata una serata del progetto Spartiti, quello di Collini con Jukka Reverberi, al Carroponte di Sesto San Giovanni. Avevo già visto due volte gli Offlaga proprio nella stessa location. La prima, ricordo, avevo portato con me mia figlia, quella della foto con il Microkorg. Prima del concerto, in prossimità del palco, c’erano dei saltimbanchi che vendevano delle palle da giocolerie. Mia figlia, quell’estate appassionatissima di bandiere, aveva chiesto di comprare il set con i colori dell’Ucraina. La questione del Donbass, per non parlare di Zelens’kyj e della guerra con Putin, era ancora lontana da arrivare, e quegli artisti di strada si erano semplicemente sorpresi della competenza in geografia di una bambina delle elementari. L’abbinamento dei colori con cui realizzavano gli oggetti per i loro numeri era del tutto casuale, per non parlare della totale involontarietà di un richiamo nei confronti di qualche nazionalismo ancora latente. Alla data di Spartiti, anni dopo, mi ero invece presentato da solo, con un anticipo prudentissimo. Avevo persino incrociato Max Collini a spasso per il parchetto che circonda il Carroponte. Max aveva notato la maglietta sbagliata come la sua che avevo indossato per l’occasione, commentando la cosa con una battuta.

C’è un’altra parte piuttosto curiosa di questa storia, che più o meno coincide con il finale. Ho messo e lavato quella maglietta in cui Ian Curtis e Kurt Cobain condividono lo stesso logo innumerevoli volte, fino a scolorirla e a renderla inutilizzabile. L’anno del lockdown, era il 2020 e in estate sembrava che il virus ci avesse concesso una tregua, ho chiesto a mia suocera novantenne, tutt’ora in gambissima, di ricavare una mascherina anti-covid ritagliando la parte della maglietta con il disegno del pulsar. Ne avevo vista una identica su Instagram e mi era sembrata una buona idea. Le mascherine in cotone non erano il massimo dal punto di vista della prevenzione ma potevano comunque essere indossate nelle situazioni meno a rischio.

Le ho mostrato il disegno sul davanti della t-shirt e mi ha confortato sapere che ci fosse sufficiente tessuto per ricavarla. Quella occasione ha dimostrato che mia suocera non è una fan dei Joy Division, malgrado ai tempi del loro blasonatissimo disco d’esordio fosse più giovane di me nel momento in cui le ho fatto questa richiesta da adolescente. Non essendo riconducibile propriamente al movimento post punk/new wave, mia suocera ha infatti utilizzato lo scampolo della maglietta ma con il disegno ruotato di 90 gradi in senso anti-orario, con le celebri pulsazioni elettromagnetiche messe in verticale anziché in orizzontale, forse pensando che l’orientamento non avesse importanza. Avevo dato per scontato che avrebbe realizzato la mascherina come la maglietta, ma in realtà il modo in cui posizionare le onde era un’istruzione necessaria. Il disegno messo per così risultava dissacrante e iconoclasta in eccesso, e la mascherina ovviamente non l’ho mai utilizzata. Malgrado ciò, non ho fatto notare l’errore a mia suocera, che anzi avrebbe potuto lanciare una linea di mascherine sbagliate. La morale è che le persone anziane non sono in grado di cogliere l’amore per il rock dei giovani come me e la serietà con cui prendiamo cose come queste.

Phonetics On and On – Horsegirl

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Meno è decisamente di più. La sottrazione, in musica, si conferma un atto creativo prima che un necessario istinto di sopravvivenza. Un impeto che non si alimenta necessariamente dell’auto-consapevolezza dell’inadeguatezza tecnica, almeno non sempre. Nell’ampia forbice degli esiti di questo effetto, sopperire a quel poco che si sa suonare con il gusto può dare vita a prodigi di assenza, celebrazioni della privazione del non necessario, culto del riempimento del superfluo con adeguate porzioni di vuoto. Un approccio e un’attitudine, prima che una corrente stilistica, che non coincide affatto con il minimalismo, che – per dirla in modo grossolano – è materia sottile ma così pervasiva da insinuarsi dappertutto. Qui invece rimane lo spazio da cui contemplare l’estro, con tutti i riverberi che il vuoto comporta.

La musica delle Horsegirl è una riduzione ai minimi termini dell’indie rock anni 90. Un concentrato, attenzione, mica un surrogato. Perché alle canzoni di Phonetics On and On proprio non manca nulla. C’è la batteria, un set essenziale suonato con una precisione metronomica ma senza un colpo superfluo. Ci sono giri di basso sobri ma efficaci e a loro modo trascinanti. Ci sono chitarre asciutte e riff concisi che lasciano comunque il segno. E le melodie sono cantilene, scioglilingua, lallazione. I testi, poi, non ne parliamo. La prova provata che la musica è principalmente mentalità, è cosa intendi per musica. Non importa come sai suonare ma l’atteggiamento a cui muove l’essere umano l’avere uno strumento a tracolla.

Tra le righe di Phonetics On and On emergono i più diffusi cliché di quel  genere lì. Il contegno svogliato, il distacco dissimulato, la staticità dei corpi volutamente in contrasto con l’impeto che suscita la danza quando la musica ti prende, in questo caso fuori discussione perché il cliché impone proprio che la musica non ti prenda mai, la catatonia espressiva e certe posture stesse esaltate al ribasso da un abbigliamento talmente di scarto (tutt’altro che indecoroso) da fare il giro.

Anche senza guardare i loro video, indovinare tutto questo partendo dalla musica e lasciandosi condizionare dai facili biechi pregiudizi che riguardano questo genere di progetti musicali, è scontato. Tutto ciò che chi apprezza la musica rock suonata secondo metodi universalmente riconosciuti come standard detesta. L’outfit fai da te, lo sguardo indolente, come a dire che lì, nei video e nel successo, mica ci vorrebbero stare.

Ma poco importa. La storia di Nora Cheng, Penelope Lowenstein e Gigi Reece la conosciamo. Tre migliori amiche tra di loro che hanno costituito una band. Nel primo disco erano liceali a Chicago. Ora frequentano l’università a NYC. Basta questo, un contratto con la Matador e una produzione di Cate Le Bon a farle sentire musiciste davvero cool. In studio e sul palco dimostrano di saper giocare con la sperimentazione e si esprimono con uno stile in grado di rendere al meglio la naturalezza con cui scrivono le loro canzoni.

È per questo che le tracce di Phonetics On and On non potrebbero esser state composte che dalle Horsegirl. Intrecci e arrangiamenti deliziosamente elementari che fanno da background a una sorprendente laconicità delle liriche, talvolta frasi ripetute uguali lungo il brano o semplici coretti che scandiscono i ritmi e i passaggi scelti per restituire alla meglio il vissuto di tre ragazze musiciste, nel pieno della loro giovinezza. Il meglio della loro vita, la vita nel momento migliore, e ovviamente l’amore. Il tutto reso con la tenerezza, l’ingenuità e l’immediatezza di chi si affaccia con personalità nel mondo dell’arte. Phonetics On and On, rispetto al disco d’esordio, risulta un passo in avanti verso la maturità, una scelta tutt’altro che improvvisata di farsi rappresentare da uno stile che, fortunatamente, non passa mai di moda.

Cowards – Squid

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Se avete presente cosa succede a un certo punto di “Narrator”, terza traccia di Bright Green Field, mi riferisco proprio alle urla furibonde di Martha Skye Murphy, ospite nel brano, che (come d’altronde recita il testo in quell’angosciante decorso della canzone) fa davvero la sua parte, potete immaginare lo stato d’animo con cui, da allora, approccio ogni nuovo album degli Squid e le canzoni che lo compongono.

Metto il disco ma vivo il disagio nella convinzione che qualcuno, lì dentro, possa uscire di senno. Ascolto le canzoni con l’ansia che si arrivi a un punto in cui la situazione di nuovo sfugga di mano alla band e si avveri il mio incubo peggiore: il giradischi posseduto da chissà quale entità e quelle grida di disperazione dirette a me, l’invocazione di un incantesimo in grado di farmi sprofondare in un’altra dimensione, o anche solo un severo monito sul fatto che (per usare una metafora) basta un fottuto granello di polvere in un solco per causare un patatrac.

Insomma, metto un disco degli Squid e non mi sento per nulla tranquillo e non è la prima volta, perché la cosa è degenerata. Dirò di più. Sono talmente ossessionato che dopo decine o centinaia di innocui ascolti dei primi due album vivo tuttora nella paura che qualcosa possa cambiare rispetto all’ascolto precedente. E cioè che, rispetto a quanto registrato, qualcuno di botto cominci a suonare e cantare diversamente e, accorgendosi della mia vulnerabilità, sferri il suo colpo letale. Altro che film di Cronenberg. Altro che ascolti al contrario. Passare ad altro? Mai. E poi Cowards, l’ultimo lavoro degli Squid, nasce dedicato espressamente al male. Cosa potrebbe andare storto?

È fuori di dubbio che la prima vittima di questo male progettato da Ollie Judge (voce, batteria), Louis Borlase (chitarra), Anton Pearson (chitarra), Laurie Nankivell (basso) e Arthur Leadbetter (tastiere) sia l’idea di musica che pervade il presente e che, per convenzione sociale, riconduciamo alla musica in sé. Con Cowards gli Squid lasciano un’impronta perfettamente corrispondente alla versione consolidata del genere che professano, uno stile che non ha nome ma è così oltre che lascia ampi margini di fraintendimento. La consueta alternanza di parti e tempi diversi (pari e dispari) eseguiti con una tecnica inappuntabile che richiama a quel misto di progressive-punk, kraut-wave, heavy-folk, art-rock, easy-drone e math-fusion tutto loro, grazie al quale non temono confronti. Il tutto ad accompagnare racconti in cui i protagonisti sono costretti a raccapezzarsi tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, in situazioni a dir poco non proprio edificanti.

E nelle nove tracce di Cowards gli Squid spingono se possibile ancora più all’estremo la tensione, veri maestri nell’arte di tendere trame per mollare il colpo un istante prima che si strappino, senza mai risolvere in nulla. Sono insuperabili in quel gioco in cui ci si sporge a occhi chiusi sino al limite del parossismo per poi fare un passo indietro in prossimità del baratro e ritrovarsi sani e salvi, anche se, davvero, parlare di certezze è totalmente fuori luogo. In Cowards è la canzone “Blood on the boulders” ad aggiudicarsi il primato di chi rischia di più, vicino all’abisso.

In tutto il resto del disco, gli Squid si confermano i più convincenti esploratori dell’avanguardia musicale, quella credibile, quella che condivide opere con un capo e una coda e in mezzo nulla di tutto quello che conosciamo. Nel disco c’è persino il clavicembalo che accompagna il flauto all’inizio di “Fieldworks I”, apoteosi dello stile supponente di Ollie Judge che fa subito pentire di averci pensato, a chiunque alzi la mano per citare certe sonorità in quota Charisma, per non parlare dell’orchestrazione da brivido, altrettanto progressive, nel brano gemello, “Fieldworks II”.

La title track si distingue invece per l’incessante rumore di archi di fondo nella parte introduttiva, preludio a un improbabile sviluppo pop con un rassicurante tema di tromba doppiato da un coro. Onde sonore che sfociano in un lago armonico, in cui le contrastanti personalità della canzone inevitabilmente si mescolano. C’è poi “Showtime!”, brano che alterna una pseudo-strofa in 6/8 a un pseudo-ritornello regolare, porzioni propedeutiche alla seguente orgia di rumori naturali ed elettronici, strumenti ad arco e chissà cos’altro, una situazione che sembra precipitare per poi essere recuperata in extremis da un crescendo ritmico che culmina in un trascinante breakbeat dai toni paradossalmente contenuti, compressi, altra disciplina in cui gli Squid sono maestri indiscussi. Inutile sottolineare come il brano finisca come tutti gli altri, come se nulla fosse, come se non fosse successo niente, come se qualcuno avesse desistito da una lotta per manifesta superiorità nei confronti dell’avversario.

Anche la lunga “Well met” parte con un bel rumore, questa volta con le sembianze di un bordone a una cantilena accompagnata dalla sezione fiati e da una sequenza di clavicembalo rivestito da sintetizzatore, preludio a uno sviluppo in 9/8 popolato da voci femminili che doppiano, con un sussurro, la melodia. Troviamo anche temi e stacchi fusion che crescono in modo epico e sontuoso, e non ho dubbi a sostenere che non ci sarebbe stato modo più emozionante per concludere un disco di questo tipo. Come del resto non ho difficoltà ad ammettere che Cowards sia uno degli album più artificiosamente complicati che mi sia mai trovato ad apprezzare.

Dai primi istanti del disco, l’involontaria citazione di sequencer di “Baba O’Riley” in “Crispy Skin”, fino alle percussioni metalliche giocattolo della coda dell’ultimo brano, non c’è momento in cui non abbia pensato di trovarmi al cospetto di un’opera pazzesca, una pietra miliare in potenza della musica universale, pronta a manifestarsi in tutta la sua magnificenza. Una serie di composizioni da seguire senza fiato fino ai titoli di coda, quando non è difficile leggere tra le righe che nessun ascoltatore è stato maltrattato nel corso della riproduzione della tracklist.

Nel mio caso, pure l’impianto hifi è sopravvissuto. Ancora una volta, siamo giunti alla fine di un disco degli Squid incolumi. Ma, ragazzi, che botta.

Heartworms – Glutton For Punishment

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Tempi duri generano donne e uomini forti. Sono parole che allarmano, affermazioni di cui vorremmo fare a meno. Quanto ci piacerebbe, piuttosto, bearci negli agi della debolezza e della distensione che pervade l’umanità nei periodi di pace, nell’assenza di pericolo.

Da questo punto di vista, Josephine Orme (detta Jojo) da Cheltenham, 26 anni, rientra pienamente nel novero delle autrici ascrivibili al funesto presente a cui stiamo soccombendo. Heartworms, il suo progetto musicale, è la creatura nata dalle storie conflittuali (e dalle conseguenti ferite) che hanno condizionato irrimediabilmente la sua vita. Intanto la relazione complicata e irrisolta con la madre, e il vuoto che la spingerà ad allontanarsi da casa troppo in anticipo rispetto alla maturità emotiva. E poi l’esposizione (supponiamo mediatica e per forza di cose indiretta, ma non per questo non altrettanto impattante) alla sofferenza umana causata dal permanente stato di guerra in cui si giostra l’umanità.

La resa in musica di due drammi di questa gravità e la mescolanza artistica tra privato e pubblico non può che generare cupezza, pessimismo e sconforto. In una recente intervista a NME, Jojo però conferma di aver bisogno di conflitti per affrontare la vita. Diventare adulta in uno stato di costante tensione ha scatenato tutta la sua creatività che, sin da adolescente, con una chitarra in mano, ha imparato a rendere tangibile componendo canzoni.

E già la scelta di chiamarsi Heartworms può risultare un deterrente per i deboli di cuore e le persone sensibili a certe immagini raccapriccianti che si vedono nei video sui social, rubati di nascosto alla cronaca. Sarà per questo che la palette scelta per il suo progetto è una esauriente scala di grigio, una presa di posizione estetica (o un escamotage per tagliare corto con le tinte più cruente) che rimanda al mondo che siamo abituati associare alle grandi tragedie storiche filmate in analogico e sul campo, durante il secolo breve.

La ricerca del sensazionalismo del naming si ritrova anche nel titolo dell’album di esordio. Glutton For Punishment è una locuzione che definisce chi si accolla con troppo zelo la responsabilità di portare a termine compiti che vanno oltre la prestazione richiesta e che, di conseguenza, espongono al rischio di pena o di sanzione. Un mix di stacanovismo che tracima nel masochismo se esteso al piano intimo, come se l’essere umano si sentisse irrimediabilmente attratto dalla punizione, a partire da Jojo stessa. Nel disco di Heartworms il personale e il politico sono abilmente intrecciati e resi in una narrazione intrisa di una encomiabile onestà emotiva. Le reminiscenze dell’infanzia e del rapporto disfunzionale madre-figlia confluiscono con l’immaginario tratto dall’inevitabile sofferenza terrena, ritratti sconvolgenti e per questo affascinanti, in grado di segnare per sempre.

Come già l’EP A Comforting Notion ci aveva lasciato presumere nel 2023, Heartworms è un progetto ambizioso alimentato dall’estro di un’artista dal talento fuori dal comune, abile come pochi nel songwritingGlutton For Punishment ne è il naturale prosieguo, con il valore aggiunto della produzione di Dan Carey, uno dei principali responsabili dell’esplosione del nuovo movimento post punk britannico, un richiestissimo Re Mida e artefice del processo di emancipazione del genere in questione dagli archetipi nostalgici e derivativi che l’hanno riportato alla ribalta. Un disco fitto di trame pop ed epiche rese con suoni e timbriche dalle tinte esplicitamente gotiche, in grado di sorprendere anche target di ascoltatori poco ortodossi, se non con orientamenti opposti.

Heartworms costituisce così un alter ego, un riuscito transfert da studio e palcoscenico in cui espellere da sé e trasudare in performance i più scomodi sentimenti di dolore e rabbia. Un modo per dominare dall’alto ciò che rende Jojo Orme vulnerabile, una liberazione dal tormento. Da qui forse la sua passione per il volo e gli aerei bellici, un richiamo irresistibile verso la libertà dagli orpelli della corporeità e il peso che essa comporta, una sorta di rito di purificazione reso da “Warplane” – la canzone che a 4:08 contiene il momento più alto di tutto il disco, un tappeto di synth unito a un arpeggio di chitarra lungo una reiterazione di accordi inusuale, di questi tempi, un frammento che proietta l’album in un’altra era – e poi celebrato lungo un secondo atto, quella “Extraordinary Wings” in cui si torna a scrutare, naso all’insù, il cielo dalla terra, e la forza di gravità riprende a essere un pericolo, vista dal basso.

E il resto della pièce messa in opera non è meno sorprendente nel suo alternarsi di opposti: sussurri e grida, remissione e vendetta, archi e richiami elettronici/industrial, pop e post-punk, amore e distruzione, stasi e movimento, suono e ritmo, l’impulso più ricorrente dichiaratamente espresso nella canzone “Just To Ask A Dance” e nel brano conclusivo, la title-track, che ci lascia proprio con il reprise di un verso del brano introduttivo. ”All I want to do is dance, dance, dance”, ed ecco che Jojo torna a esprimersi con la voce della ragazza che probabilmente è sempre stata, ad amplificatori spenti.

Glutton For Punishment risplende della meraviglia che solo i dischi d’esordio sanno suscitare. Una manciata di canzoni forgiate con una materia deliziosamente imperfetta, la stessa che nasce dall’impeto della freschezza e della gioventù, lo specchio di tutta un’esistenza propedeutica al resto sperimentata fino al primo solco e che si esaurisce con l’incantesimo del primissimo suono (in questo caso un sospiro sintetico) che si propaga dalla prima traccia. Il resoconto di una metamorfosi, quella dall’essere umano all’artista, in un non-concept in linea con la vita in sé, un percorso quasi sempre senza capo né coda, un susseguirsi di sensi unici, deviazioni forzate, passi indietro e lavori in corso.

Heartworms alias Jojo Orme, una sorta di Kate Bush del duemila e venti in versione dark, è tutto questo. Insicurezza, decisioni irrevocabili e ossessioni di straordinaria follia che trovano conforto senza ritorno nella musica, l’entità che detiene il primato ad oggi imbattuto di efficacia nell’organizzazione e successiva condivisione delle sofferenze umane. Una forza in grado di aiutarci a renderle, anche solo dissimulando, meno impossibili da sostenere.

ecco chi vincerà il Festival di Sanremo 2025

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La prima serata del festival 2025 conferma la debolezza della proposta di quest’anno. Carlo Conti non è capace nemmeno a perdere tempo nei momenti del bisogno, a differenza di Amadeus e le canzoni, a parte un paio di guizzi, una noia mortale. Gerry Scotti e Antonella Clerici abbassano ulteriormente il livello, se possibile. Ecco qualche impressione a caldo senza voto ma sapete, alla primaria valutiamo i livelli.

Gaia
Un’annalisata priva del non-stile di Annalisa. Chiamo io chiami tu che chiama lui che chiama me. Già sentito e ne avremmo fatto anche a meno

Francesco Gabbani
Gabriele Corsi e Francesco Gabbani sono la stessa persona. Una specie di “Certe notti” ma, se possibile, un po’ più una merda.

Gerry Scotti
Una specie di Giorgio Bracardi incrociato con la Cariatide di Alan Ford.

Rkomi
Un Big Jim in quota logopedia, fino ad ora una palla senza fine. Sembra una composizione di Madame fatta male e inutilmente lunghissima, o forse come tutte le cose che annoiano il tempo non passava mai.

Noemi
Stasera aveva qualcosa di Debbie Harry nello sguardo, ma è stato un attimo ed è passato. Una sanremata che potrebbe anche vincere.

Antonella Clerici
Vestita da DJ Super X, quello di Superclassifica Show, la palla sberlucciante da discoteca, per intenderci.

Irama
Rkomi, Ultimo, Tananai, Irama, per me son tutti uguali, inutilmente uguali, con l’aggravante del nome di merda. Anche la canzone si conferma piuttosto di merda ma con l’autotune e un incontrollato riverbero da piazza San Pietro. E poi come cazzo si veste.

Coma Cose
Un anticipo di carnevale. Sembra un pezzo di Dargen D’amico cantato da Albano e Romina.

Simone Cristicchi
Il primo dei cantanti meloniani in gara. Non ho mai conosciuto nessuno che lo ascolti. In quota BES, ma stonato. File under “Portami a ballare”. Non ho capito la standing ovation al termine. Una vera merda.

Marcella
Stronza forse ma sorprendente, lo dice lei eh. Al momento la migliore, ma poi arrivano Lucio Corsi e Joan Thiele.

Achille Lauro
Sembra un incrocio tra Frankestein Junior quando canta “Put it on the ritz” e Young Signorino, che poi sono la stessa cosa. L’intro sembra l’Ave Maria di qualcuno e poi continua come “Notte prima degli esami”. Rivalutato con X Factor ma, ogni volta, mi chiedo come sia possibile la sua esistenza. Il sax finale mentre lui sbraita mi ha lasciato attonito.

Il Papa
Vabbè, questa mi mancava, D’altronde è anche stato da Fazio.

Imagine
Aridatece la versione degli A Perfect Circle, di certo più adatta al momento

Giorgia
Un tripudio di rime baciate nei primi quattro versi, e così quando dice “In questa stanza buia, solo tu sei la cura” ci trova spiazzati. Giorgia ha una voce pazzesca ma gli fanno cantare canzoni inutili al cazzo. Quest’anno non si smentisce.

WIlli Peyote
Già dalle prime note si capisce che è troppo sofisticata per Sanremo, soprattutto per l’edizione caciarona di quest’anno. Da lontano sembra Peppino Di Capri e la canzone a tratti richiama Pino D’Angiò. Se vincesse lui sarei contento, tutto sommato, anche se sprizza americanata da tutti i pori. Ma c’era Luca Ravenna tra i coristi?

Rose Villain
Pop italiano estremo privo di qualsiasi briciolo di originalità, uguale a milioni di altri pezzi di Amici, altra in quota logopedia anche se è un belvedere.

Poi Carlo Conti annuncia “il grande Jovanotti”, così corro in bagno. Corre anche lui e si inciampa. Jovanotti ridefinisce il concetto di musica di merda. Arriva Tamberi ma è fuori tempo massimo, oramai l’italia vincente si chiama Paola Egonu ed è già stata ospite e l’hanno pure criticata.

Sara perché ti amo è karaoke allo stato puro, e poi finalmente arriva la pubblicità. Carlo Conti comunque non è palesemente all’altezza.

Olly
Ma chi cazzo è? Non a caso insignificante, comunque il più zarro di tutti

Elodie
Una bomba di domopack, canzone anonima quanto lei. Alle sette me ne sono già dimenticato.

Shablo e tutti gli altri inutili
Il festival degli orrori, vestiti di merda con l’aggravante del coro gospel. Un MA COSA CAZZO direttamente all’ultimo posto.

Massimo Ranieri
Quest’anno a Sanremo danno fastidio persino gli stacchetti. Tutto è equalizzato di merda. La sua è una specie di “Glory Box” in versione melodico napoletano, non mi stupirei di trovarla sabato tra i primi tre. Potrebbe essere tutto intelligenza artificiale.

Il maxispot alla Superbowl è della Tim e conferma che in Italia non c’è verso di rifare gli anni 70 bene. La pubblicità con il tipo che si caga addosso nel mezzo del matrimonio e poi carica la lavatrice nel mezzo della sala comunque mi sorprende sempre.

Raf in piazza colombo
“Self control” in versione duemila e venticinque fa rabbrividire. Rinnegare l’italodisco è un crimine.

Tony Effe
Arriva conciato da gelataio. Ma che merda è? Effe sta per Fiorini (nel senso di Lando), ma la sua forse è la peggior canzone di tutti i tempi di tutti i Sanremo.

Serena Brancale
È stata da Zoro quindi mi è simpatica anche se somiglia a Ligabue. Movimentata ed elaborata, a differenza di tutte le altre e con una spruzzata di afro beat ma forse stavo dormento e ho sognato. Perfetta per il luna park

Brunori Sas
Canta come De Gregori ma la canzone è bella e, per questo, non vincerà mai. Risulta un buon compromesso tra “C’è qualcosa di grande tra di noi” dei Lunapop e, per il resto “Rimmel”.

Modà
I più zarri i tutti e il pezzo è osceno, una merda che plagia “Ti ho voluto bene veramente” di Mengoni con una spruzzata di Negramaro ma che non gli porta dietro nemmeno le ciabatte. Un quadro di Kandinsky dove immaginarmi tutto. Ma andate affanculo.

Clara
Una canzone che non si capisce come va ma poi torna nei recinti delle Elodie e delle Annalisa, tutto sempre uguale, che due coglioni.

Lucio Corsi
Aspettative altissime, conciato da Bowie, riesco a seguire il testo perché convincente. In un universo giusto vincerebbe lui. Finalmente qualcosa di diverso con un finale struggente.

Fedez
Dopo Lucio Corsi sembra quasi uno scherzo della natura che ripropone un genere ampiamento superato. Per fortuna che queste mezze calzette la trap le ha spazzate via.

Bresh
Mai sentito prima, una versione di provincia di Rkomi, una merda ma almeno onesta.

Sara Toscano
Un brano già banale dalle prime note. No dai ragazzi non ci siamo, diamoci una svegliata, sinceramenteeeee un’altra annalisata con melodie inutilmente pretenziose.

Joan Thiele
La mia prefe in versione lick my legs. Canzone con un suo perché, nella mia classifica ideale arriva seconda dopo Lucio Corsi.

Rocco Hunt
Mi sembrava strano che la canzone napoletana non fosse rappresentata. Ma forse era meglio non rappresentarla così. Alla terza successione tra tonica minore e settima dominante vado a lavarmi i denti.

Francesca Michielin
Penalizzata dall’orario, un pezzo pessimo ma forse sono io che non ne posso più. Poi però ne rivaluto la regolarità, potrebbe essere una trovata dell’intelligenza artificiale per vincere il festival. E vincerà.

The Kolors
Inizio tra Supertramp e Tame Impala ma poi, tamarri come sono, si smascherano subito. “Mi piaci un minimo, mi aspetti a Mykonos “e poi parte la classe dritta e si sfocia nell’inconfondibile ritornello dei loro successi sanremesi. Un deja vu.

Resta il dubbio di chi canti “tutta l’Italia tutta l’Italia”. Comunque un abisso (in peggio) rispetto alle edizioni precedenti, tra le canzoni la differenza qualitativa è incommensurabile, a parte Lucio Corsi.

Liberato – Liberato III

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È il 2025 ma il segreto di Liberato, secondo solo al terzo di Fatima quanto a curiosità popolare suscitata e sacralità ispirata, ad oggi sembra lontano dal poter essere svelato. Grazie al recente documentario per il grande schermo dedicato all’artista napoletano e realizzato da Francesco Lettieri (il fidato regista dei cliccatissimi video di Liberato che, nel lungometraggio, introduce il suo alter ego musicale proprio con i misteri in questione in aggiunta a quello finto di Pulcinella) possiamo contare su qualche informazione in più, ma la soluzione dell’enigma è ancora remota.

Altro che fuochino o fuocherello. A dirla con le immagini di un’altra prestigiosa divinità locale, il regista Sorrentino (che condivide l’Olimpo, che poi per loro immagino sia il Vesuvio, con Totò, Peppino, Maradona, Troisi, Pino Daniele e qualcun altro che al momento mi sfugge), ci troviamo in acquissima, al largo del golfo, ad annaspare nello stesso liquido amniotico dell’incantevole (quanto tabagista) Parthenope.

Tant’è che io mi sono arreso. E se avete desistito anche voi e la curiosità si è consumata, i casi sono due. O l’hype del recidivo electro-neomelodico mascherato si è normalizzato oppure (e attenzione che potrebbe non essere la stessa cosa) l’anonimato di Liberato lo diamo come un dato di fatto. Il suo personaggio in outfit all-black fa parte del sistema.

Due varianti basate su un denominatore comune: chi se ne importa, per non dire di peggio. Una considerazione che non aggiunge o non toglie una virgola a un successo in costante crescita, nonostante la ricorsività della proposta artistica, dei contenuti e della forma.

Per questo fa sicuramente notizia un album di Liberato pubblicato il primo di gennaio, anziché il consueto nove maggio, quasi un buon proposito, un presagio da intendersi all’origine di un nuovo corso, o in coda a una fase di cambiamento. Liberato ha risolto finalmente lo struggimento amoroso alla base del suo progetto (lo scrivo dando per scontato che abbiate visto il film e conosciate la storia) tanto da rivoluzionare le priorità di calendario?

In Liberato III il cantante si spinge addirittura a “Novembre”, peraltro con ottimi risultati (la traccia più bella del disco, senza ombra di dubbio, pronta a diventare un nuovo classico del producer napoletano). Quindi, per farla breve, che cosa dobbiamo aspettarci?

Il terzo album di Liberato, al momento disponibile solo in formato liquido, conferma la formula vincente dei due blasonatissimi predecessori, a partire dal minutaggio d’altri tempi (mezz’ora totale di musica declinata in nove tracce, perfette dal punto di vista dell’organizzazione in lato A e lato B) e dalle sottocategorie di elettronica a cui ricondurre i brani.

Fanno molto comfort zone anche la sequenza degli accordi che si inseguono nelle canzoni, oramai uno standard se non un cliché, quelle successioni armoniche consolidate ascrivibili ad archetipi quali “Tu t’e scurdat’ ‘e me” e “’O core nun tene padrone”. Tanto che, vista da qui, la discografia di Liberato potrebbe essere travisata per un continuum, risultare un’unica opera omnia perpetua che si ripropone disco dopo disco secondo i canoni della fluidità con cui si percepisce la composizione musicale di questi tempi in cui, a quasi un secolo di pop e a fronte delle centinaia di migliaia di svilenti suggestioni sonore pubblicate ogni istante sui vari canali di fruizione audio, tutto ci trasmette reminiscenze di tutto.

Senza contare che III è un disco in linea con l’elevata qualità con cui Liberato ci vizia da sempre. Per questo corre il rischio di confondersi, in una immaginaria riproduzione random di una playlist monografica, tra tutto il resto del repertorio del fanta-cantautore napoletano.

Ancora una volta a convincerci sono il miscuglio di idiomi, i crescendo e i drop, gli stop and go, i sessantaquattresimi di hi-hat, il dub, l’uso intelligente di side-chain e ducking sui boati della cassa, i synth in levare, l’immancabile sirena, Napoli, il Napoli Calcio e il suo anno di fondazione, il 1926. Conferme che permettono ad alcune  novità di emergere in freschezza e originalità: la sorprendente attualità del sample del ritornello di “Voglia ‘e turnà” di Teresa De Sio nell’omonima traccia introduttiva, e l’incursione nella drum’n’bass (finalmente di nuovo di moda) di “‘A fotografia”, un tuffo nei break-beat degli anni zero. Per il resto, prevale la sicurezza dei botta e risposta tra la trap e l’house, per un risultato complessivo di eccellente fattura.

Non possiamo quindi che promuovere, anche questa terza volta, il progetto Liberato, un diamante nello scadente e noioso panorama musicale del pop italiano, quello sì davvero anonimo. Ma immaginarlo tutt’ora chiuso nella sua cameretta, con le sue diavolerie elettroniche cheap e il Microkorg (proprio come lo abbiamo visto illustrato nella versione anime della sua vita dal film di Lettieri) a suonare e registrare cose di ordinaria amministrazione, risulta ormai riduttivo per il talento ad ampio respiro che dimostra di saper esprimere.

Liberato ha tutte le carte in regola per raggiungere lo status di The Weeknd europeo. Dovrà solo scendere a qualche compromesso con i vincoli imposti dalla sua auto-narrazione culturale e geografica, ma la voglia di tornare, di percorrere i vicoli di Napoli, lo sappiamo, nun se ferma mai.