Ho accompagnato qualcuno – probabilmente mia sorella, visto che è disoccupata cronica nonostante abbia sessant’anni suonati e sia categoria protetta – al suo primo giorno di lavoro nel negozio di roba usata in centro, principalmente abbigliamento, un esercizio in franchising di una catena che poi investe i profitti in beneficenza. A fare che non lo so, probabilmente la commessa o qualche mansione più umile, risistemare i capi nel retrobottega prima di venderli o cose così. Il proprietario/gestore però mi ha riconosciuto immediatamente come cliente e mi restituisce – estraendola dal mucchio di capi impilati dietro il bancone all’ingresso – la mia giacca di pelle preferita, un tre quarti scamosciato marrone dal taglio inconfondibilmente anni 70 che avevo acquistato nel 93 o giù di lì alle bancarelle di San Lorenzo a Firenze, durante una vacanza che non dimenticherò facilmente. Ero con Alessandra e alloggiavamo alla pensione Parodi, una bettola decisamente economica considerato il posto, chissà se esiste ancora ai tempi di Airbnb e della riconversione dei centri storici in quartieri per il turismo mordi e fuggi. Una notte una zanzara l’aveva punta sulla palpebra e il mattino dopo si era svegliata con l’occhio vistosamente gonfio, tanto che alla reception – chiamiamola così, anche se si trattava di un servizio molto alla mano – senza tanti complimenti avevano messo in dubbio la mia estraneità all’accaduto, considerando l’eventualità che l’avessi presa a pugni in faccia. Ma vi sembro il tipo?
Comunque la giacca tre quarti in pelle marrone scamosciata mi ha accompagnato per più di dieci anni fino a diventare completamente lisa e mi ha fatto piacere riaverla indietro, almeno nel sogno. Ero convinto di averla gettata una volta diventato padre insieme a tanti altri indumenti e accessori poco opportuni per un adulto maturo e figura di riferimento per un figlia. Non mi trovavo a mio agio in situazioni pubbliche – per esempio in attesa fuori da scuola con gli altri genitori in giacca e cravatta e le mamme con quelle scarpe assurde che uniscono la forma sportiva a una foggia elegante – conciato come un frequentatore dei centri sociali. Non ricordavo invece di averla portata nel negozio per farla riparare e chissà da quanto tempo, so solo che la fodera e le tasche, a furia di indossarla in ogni stagione, si erano completamente distrutte.
Il gestore dell’esercizio, dopo aver spiegato alla persona che ho accompagnato lì le sue mansioni, mi presenta il conto. Non vi nascondo che sperassi che ci fosse del lavoro anche per me, avevo ben altre aspettative che essere trattato come un cliente qualsiasi, ma probabilmente anche il settore del vintage sta risentendo della crisi internazionale, delle guerre, dei dazi di Trump e chissà cos’altro, sempre che la scena sia ambientata al presente. Forse la gente non compra più roba usata a causa della fast fashion, o semplicemente si tratta di un cambio culturale a causa del quale il second hand viene ricondotto all’indigenza e, di questi tempi, nessuno vuole passare per povero.
Una commessa imbusta la mia giacca, mi dice quant’è ma non colgo il costo della riparazione, la ragazza alla cassa biascica le parole come i miei bambini di prima nonostante le abbia chiesto più volte di ripetere proprio come faccio in classe con Giada che parla con un filo di voce e ha il taglio della bocca rivolto verso il basso, come una perpetua espressione di disgusto. Che sfortuna.
Devo pagare forse trentun euro o, come spero io, undici. Il punto è che, nel sogno come nella realtà, non ho mai una lira in contanti nel portafoglio perché sono abituato a utilizzare la carta di credito. Vi dirò di più: sono uno di quei moralisti bacchettoni che criticano i clienti dei supermercati con i carrelli stracolmi di cibo spazzatura alle casse quando estraggono dalle tasche mazzette di contanti per pagare duecento euro e passa di spesa. Ultimamente, tanto sono vecchio e posso permettermelo, mi spendo addirittura in spocchiose paternali con le cassiere, tanto loro ci sono abituate a fare conversazione forzata con gli anziani rincoglioniti in fila.
La cosa strana è che il negozio vintage non ha il POS, tantomeno Satispay, o forse lo fanno apposta per non tracciare l’operazione ed evitare lo scontrino. Così sono costretto a fare una cosa che odio e che è mettermi alla ricerca di uno sportello automatico, e la cosa curiosa è che la commessa mi segue per sincerarsi che io effettivamente prelevi abbastanza contante per pagare la riparazione della giacca. Una precauzione che non sta né in cielo né in terra: se non pago, la giacca resta al negozio. Poi capisco che il problema è che loro non se ne fanno nulla, probabilmente è irrecuperabile, da buttare via, o comunque, di certo, non è possibile metterla in vendita, nemmeno lì non interesserebbe a nessuno.