protagonisti

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Giacomo e la sua mamma sono i primi ad arrivare. Si muovono a piedi, sicuramente vivono nei pressi, ma non si spiega perché si rechino a scuola così presto e attendano il suono della campanella al freddo per un quarto d’ora buono. Giacomo ha la pelle nerissima e, tra il cappuccio del piumino e la mascherina, si scorge solo il bianco degli occhi. La madre cammina zoppicando e Giacomo le corre davanti perché non vede l’ora di essere pronto a incontrare i suoi compagni. Le maestre hanno deciso di far indossare a lui e al resto della classe un vistoso badge giallo, appeso al collo, con l’indicazione della sezione che frequentano, difficile comprendere il motivo della scelta. Giacomo resta vicino alla mamma e scalpita nella smania che arrivi qualcuno. Se passo e ci sono solo loro due saluto prima il bambino e poi la madre, mi sembra che occupare anche pochissimi secondi del loro tempo sia un efficace diversivo al freddo, all’attesa e alla solitudine. Preferisco però quando entro qualche minuto dopo. Giacomo e i suoi compagni sono già lì a inseguirsi in uno di quei giochi destrutturati che nascono dal niente o, meglio, da quella voglia di stare insieme che ancora non sanno cos’è. Giacomo non fa caso al mio passaggio, mentre la madre controlla che non succeda nulla al figlio. Così con una scusa qualsiasi cerco di evitare il suo sguardo. Do un’occhiata allo smartphone, mi sistemo la mascherina, prendo il fazzoletto dalla tasca. Non so se sia corretto, ma voglio riservare il saluto solo ai momenti in cui c’è davvero bisogno di farli sentire importanti per qualcuno, da soli davanti all’ingresso della scuola.

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