chi fermerà la musica, l’aria diventa elettrica

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Vi siete mai chiesti cosa fanno i tre o quattro ragazzi, chitarre e synth e batteria alla mano, quando per la prima volta decidono di incontrarsi in un luogo insonorizzato per suonare insieme? Un gruppo si decide a tavolino quando a uno o due del nucleo originario gli viene in mente che fare una band è la risposta. È la domanda che non è ben chiara. Cioè dove scatta il passaggio per cui le cose non è più abbastanza farsele da solo ma occorre trovare compagnia. È un po’ come quando decidi che quella deve essere la tua ragazza perché ha i capelli così e il seno cosà e in quel periodo anche se non c’è la scinitlla ci si può accontentare, anche perché i parametri comunque sono quelli corretti e intanto cominciamo con il frequentarci, l’amore verrà da sé. Ben altra cosa è il colpo di fulmine travolgente, quello ti investe che poi non ne puoi fare a meno e non mangi e hai lo spleen che manda all’aria tutto il resto dei piani, la tua band compresa. Già, perché poi raramente i rapporti sentimentali continuativi e i gruppi musicali possono essere conciliati, ma questa è un’altra storia. Quella cosa lì che è un po’ come il primo amore funziona che si è in quattro adolescenti e non sembra ci sia altro da fare che mettersi insieme a suonare. Punto e basta. Quando sei più grande e disincantato sulla mitologia che gira intorno alle affinità elettive i gruppi li fai con gli amici degli amici che ti hanno detto che cercano il tale strumentista oppure, in tempi più recenti, con quel grande mare aperto che è il web in cui è a portata di mano il traffico di mogli dai paesi più poveri, figurati qualche musicista deluso dalle luci spente della ribalta che cerca il finto anonimato nei social network per rockettari. Perché poi arrivi già abbastanza esperto e disilluso sull’approccio da tenere proprio come agli appuntamenti combinati con le ragazze, quelli in cui sai come si fa a baciarsi e le tecniche per palpare o per procurare piacere come hai già esercitato precedentemente o hai visto fare nei documentari, chiamiamoli così. Allo stesso modo con quelli che hai contattato per metter su la band ti guardi pronto a parlare quel linguaggio che sai a memoria da solo, la lezione che hai ripetuto a casa ennemila volte sul dischi dei tuoi gruppi preferiti ma poi quando c’è da produrre qualcosa di tuo come si fa, se il tuo è il frutto di un lavoro a più mani? Per questo la convenzione più diffusa è iniziare con le cover, come il primo bacio con la lingua che dai è tutta tecnica e poca passione. Si decide al telefono o via e-mail un pezzo che piace a tutti, ciascuno si prepara in solitario proprio come si fa con le proprie parti del corpo per vedere se nel momento giusto sono ancora reattive, quindi qualcuno batte quattro – raramente è un pezzo dispari a rompere il ghiaccio – e già dopo qualche minuto, se non se più un ragazzino, l’esito è bello che servito. Ti accorgi subito se ci sono le basi per un rapporto duraturo o se è meglio finirla subito. L’equivalente del solo sesso non c’è, al massimo in certi stili da suonare solo di pancia nei posti in cui si suda e tutti si fanno canne dall’inizio alla fine. È dato per scontato che l’idillio non esiste, ci sono tutta una serie di compromessi che però prescindono dalla corretta percezione dei generi musicali. L’indicazione o i generi e gruppi di riferimento la si dà sempre, e sta negli altri che acconsentono a non bluffare in eccesso perché poi ti sfido a provare due o tre volte alla settimana per due ore roba che proprio ti fa schifo e non c’è verso a cambiare l’indole con il tuo approccio da salvatore del mondo e, in questo caso, della musica vera che è quella che intendi tu. Ci sono però dei parametri al di sotto dei quali capisci che le persone che hai scelto sono cool oppure no. Se fai rap e ti trovi uno che fa il gesto delle corna con la mano, tanto per fare un esempio. Quello è una distorsione del modo di gesticolare degli afroamericani che le parodie del genere hanno portato fino alla sintesi per caratteristi da rete ammiraglia televisiva come Gigi Proietti, che l’abbiamo visto tutti scimmiottare l’hip hop con il cappellino alla Jovanotti. Oppure quelli che pensano che per fare house sia sufficiente cadenzare note con il synth a distanze di semitoni che poi tutto sembra un eterno remix di “19” di Paul Hardcastle, con la drum machine da break dance sostituita con l’un-tz un-tz del caso. Chi si ricorda poi del moto dissacrante verso il genere più distruttivo di tutti, quel punk che in Italia ha preso piede con le lamette e le spille da balia che nemmeno a carnevale, mentre alla radio passavano parodie come “Pus” di Andrea Mingardi. Per questo poi alla fine c’è sempre il capo orchestra, che nel rock e i suoi derivati ha sicuramente un job title più sexy e adatto all’ambiente, che fa tutto da sé e sa imporsi. Arriva in sala prove e dice giustamente a tutti cosa devono fare, le parti che si amalgamano alla perfezione perché sono già tutte incise nella sua testa. Fino a quando poi scopri che tanto vale sfruttare le conoscenze informatiche e i programmi multitraccia per lavorare in proprio. Usare il te stesso polistrumentista che tanto con gli strumenti finti è facile alla fine fare tutto. Molto meglio così che attendere la fine di un solo di chitarra che non arriva mai, rincorrere cassa e rullante in costante accelerazione, bassi che seguono scolasticamente l’armonia con sfoggio di cose come lo slap. Ecco, sono giunto alla conclusione che il sistema c’è, ed è quello di pagarsi turnisti e scrivere per filo e per segno le parti, ma lo so, i più dicono che è come andare a puttane.

un tot a metro quadro

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Non fatevi  ingannare dalle apparenze. Se oggi vedete tastieristi di gruppi indie suonare chini su strumenti come il Microkorg, che ha l’ingombro e il peso di una tastiera da pc. O se vi è capitato di assistere a un concerto dei Kraftwerk di recente, in cui i quattro sound engineer tedeschi calcano le scene muniti di un iMac a testa e nient’altro, be’ sappiate che non è stato sempre così, proprio per nulla. David Thomas, il cantante dei Pere Ubu, una volta ha detto che il rock consiste per lo più nello spostare enormi scatoloni neri nel bagagliaio dell’auto da una parte all’altra della città, una massima che calza a pennello con il destino di chi suona cose come i synth o giù di lì. Perché le tastiere sono tra gli oggetti più ingombranti e pesanti del mondo, e a lungo andare uno ci lascia la schiena. Non ci credete? Chiedete a chi ha avuto a disposizione gioielli elettronici vintage come il Korg Polysix con i suoi bei componenti in legno, o cose più moderne come il Roland JD-800 che se gli metti una tovaglia sopra ci mangi in sei, per non parlare di certi Oberheim che oltre a costare un occhio della testa ti fanno pagare l’imposta di occupazione del suolo pubblico. E non è tanto solo il trasportare il tutto in macchina in sé, che già uno comunque alla fine sceglieva l’auto in prospettiva di quello che ne avrebbe dovuto fare, quindi modelli ad ampia cubatura con sedili posteriori facilmente reclinabili per ospitare tutti quei pezzi da museo. Una volta per recuperare un piano Fender Rhodes che avevo preso a noleggio per un concerto ho dovuto chiedere in prestito il Fiorino pick up del padre di un amico perché sulla mia Ritmo non ci stava, a meno di non far guidare lui, il piano Fender Rhodes intendo. C’era anche il fattore carico e scarico, che ripetuto più volte a settimana faceva risparmiare almeno la spesa della palestra, se non fosse che trasportare quei madonnoni in custodie a una maniglia ti sbilanciavano nella distribuzione dell sforzo e finivi come siamo finiti tutti noi tastieristi spilungoni e di corporatura media, con una bella spina dorsale di profilo fatta a c, grazie ad anni di studio del piano, e vista da dietro a forma di esse, grazie ai nostri strumenti.

E il loro possesso, oltre a essere particolarmente antieconomico, genera anche il problema di dove tenere il tutto, soprattutto se condividi, come spesso succede, la casa con una moglie e dei figli. Perché finché vivi da solo lasci tutto montato e cablato e collegato al computer riservando al tuo set una stanza intera, come è giusto che sia. Poi cambiano le priorità e quella deve diventare la stanza dei bambini, e a meno che tu non sia trilionario e possa traslocare in un quadrilocale sei costretto a scendere a compromessi, quindi smonti il tutto e sistemi le cose in cantina, ben protette nelle loro custodie anti-umidità. E poi subentrano altri fattori. Hai sempre meno tempo, hai mille cose da fare, e ogni volta che scendi a riporre le scarpe della stagione appena passata ti chiedi a cosa servano quegli enormi scatoloni neri – che in auto non ci starebbero più, con il porta bebè o il seggiolino dietro – e perché togliere spazio utile ad altre cose di pari grado di inutilità, che ce ne sarebbe tanto bisogno. Senza contare che poi gli strumenti elettronici vintage a tenerli a lungo spenti si smemorizzano e possono rovinarsi per sempre. E arriva il giorno in cui provi a sollevarne uno così, solo per uno di quei giochi patetici che si fanno per misurare il proprio tasso di giovinezza interiore,  e ti accorgi che il tempo è finito. Tanto vale liberarsene. Al massimo fai appunto come quei musicisti indie che si comprano un Microkorg dal peso e dall’ingombro della tastiera di un pc, ma finisce che lo tieni nello sgabuzzino, sullo scaffale in alto, tra l’aerosol e la scorta di Scottex.

moog2

chi ha stabilito la legge dell’uno su mille

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A chi di voi è mai capitato di dover fare un provino? Ecco, a quelle tre barra quattro mani alzate che vedo. Se avete voglia, aggiungete qui sotto la vostra esperienza e mettiamola in confronto con la mia. Intanto vi svelo subito come è andata così non faccio perder tempo a chi legge solo per sapere come va a finire, e l’esito lo si più evincere dal fatto che sono qui a tenere un blog di minchiate come questo e non in giro per il mondo a trastullarmi con groupies discinte e consenzienti in hotel di lusso. Anche se poi la band per la quale mi sono candidato di strada ne ha fatto davvero poca, anzi a dire la verità non è proprio nemmeno uscito nulla di nuovo dopo quel singolo che qualche successo aveva mietuto e a seguito del quale il gruppo in questione aveva pubblicato, su un sito per addetti ai lavori, l’annuncio di ricerca per un tastierista che completasse l’organico.

Faccio un passo indietro, perché il provino in questi casi si dice più propriamente audizione, e in teoria uno lo fa da giovane quando pensa di voler fare quello nella vita. A me invece l’occasione è piovuta per caso quando giovane non lo ero più, diciamo che a quasi quarant’anni uno pensa ad altro. Ma pensavo anche di poter dire ancora la mia come musicista, in più avevo una strumentazione molto di moda – pur essendo d’epoca – e che tutti mi invidiavano. Poi, diciamocelo, ero anche bravino e ricco di inventiva. Venivo poi da un ambiente in cui ero addirittura tenuto in considerazione e di certo non avevo bisogno di audizioni per essere ingaggiato. Questo anche a discapito dei gruppi con cui poi suonavo, perché poi magari non ero per nulla adatto per quel genere e, insomma, forse era meglio mollare il colpo. Ma avendo un po’ di tecnica e soprattutto una buona dose creativa mi ero ritagliato un mio spazio di credibilità che comunque, sia chiaro, non mi aveva mai portato a nulla se non a qualche soddisfazione locale ma davvero niente di che.

E così quando ho letto quell’annuncio di quel gruppo di cui avevo visto pochi giorni prima il video su un canale tv musicale, con il cantante che ammiccava e il chitarrista che sembrava uscito da un vinile post punk del 78 ma traslato nel nuovo millennio, ho risposto senza pensarci su e a breve giro ho ricevuto una manciata di mp3 da studiare e ci siamo scambiati i contatti telefonici. E a dire il vero non pensavo proprio che mi rispondessero subito, voglio dire non ho un curriculum e non sono nessuno, probabilmente il recruiting non andava molto bene e hanno, come si dice, raschiato il fondo. Fatto sta che mi sono impegnato per presentarmi preparato, ormai ero in ballo. Non disponendo di un locale adeguato, ho installato tutta la mia attrezzatura in salotto per qualche giorno e ci  ho dato dentro con la massima serietà. Perché se già un po’ mi sentivo ridicolo così fuori quota, almeno volevo evitare figuracce collaterali.

Così mi sono presentato presso la loro sala prove dove sono stato ricevuto con la freddezza di prassi, se sapete come funziona. Un’audizione è molto più complessa di un colloquio. C’era ovviamente il gruppo al completo, il più grande aveva almeno dieci anni meno di me, c’era una specie di manager e un paio di fidanzate o aspiranti tali. Avevo fatto del mio meglio, addirittura quel giorno l’avevo preso di ferie per arrivare più concentrato, e i risultati si sono visti subito. Mi ero preparato le parti già registrate e poi, giusto per far sentire il mio stile, avevo pronta una versione personalizzata con suoni autoprodotti che è stata molto apprezzata. Alla fine i musicisti li ho visti soddisfatti, la specie di manager – uno di quelli che per fare il manager di gruppi così la dice lunga sulle sue possibilità di mantenersi senza lavorare – invece metteva le mani avanti.

Ho smontato tutto, non vi dico lo sbattimento, e siamo rimasti con un classico ti facciamo sapere. E già il giorno dopo avevo ricevuto una e-mail. Che ne dici di fare un’altra prova? Ti inviamo altri pezzi da preparare. Ora io non è che avessi tanto tempo da perdere, nel senso che prepararsi tre o quattro brani in pochi giorni significa dedicare davvero tutto il tempo disponibile e già lì mi era sceso l’innamoramento della situazione. Comunque mi sono rimesso al lavoro, ho ri-allestito la mia sala prove domestica e ricominciato a togliere ore al sonno, rimanendo fino a tarda notte in piedi a imparare le nuove canzoni. E la seconda audizione non è stata così convincente. Forse ho risentito della stanchezza accumulata, forse perché i nuovi pezzi erano molto meno belli degli altri, diversi dal singolo che mi aveva spinto a candidarmi e poco indicati al mio modo di suonare. Più canzonette, con pianoforti e archi e meno elettronici, meno sintetizzatori. Una vera schifezza, insomma, che mi avrebbe causato un disagio non indifferente. Dividere il palco con gente più giovane a suonare robaccia pop. E come il finale della celebre fiaba della volpe e dell’uva, ho ritirato la mia candidatura prima di avere un responso.

un amore di gruppo

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Ho deciso che se rinasco e mi viene data l’opportunità di rifare tutto da capo, cosa di per sè molto probabile, non cambio la mia vita nemmeno di una virgola se non alla voce “hobby e interessi”. Già. Penso che anziché imparare a suonare uno strumento musicale, nel mio caso pianoforte, tastiere, sintetizzatori analogici e ogni diavoleria sonora immessa sul mercato con l’avvento del digitale, connettibile al pc tramite interfaccia midi, prima, e usb, in tempi più recenti, mi dedicherò a un passatempo meno costoso, che so, la Formula Uno, e meno carico di aspettative, che so, fare il blogger. Continua a leggere. (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 1/04/2011)

Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.

gli artisti anche dopo

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Non è certo quello che, chi non suona, immaginerebbe come la fine perfetta della serata di un concerto, ma chi suona e non si chiama Mick Jagger sa che una volta smontati gli strumenti restano solo i buoni per i drink, l’unica cosa che ci è concessa consumare nel locale. Ma quella sera, era pieno agosto e in giro di facce conosciute nemmeno una, io e Peo – Peo era una specie di bassista – e anzi quella notte perché in estate si comincia sempre tardi a suonare e non si sa mai quando finisce, io Peo sulla via di casa ci siamo fermati in un forno che spacciava focaccia senza scontrino e fintamente di contrabbando perché non avrebbe potuto vendere al dettaglio fuori dall’orario degli esercizi commerciali. Comunque abbiamo abbondato perché era un po’ che non passavamo un po’ di tempo insieme, almeno cinque anni che non ci capitava di suonare più sullo stesso palco, e altrettanti da quando entrambi non vivevamo più da quelle parti. E come ogni rievocazione storica che si rispetti, abbiamo seguito alla regola la degna conclusione di una serata inconcludente, proprio come quando quello faceva parte del nostro mestiere. Focaccia e birra, due bottiglie a testa da 66 cl a temperatura glaciale, e poi via sugli scogli per quella colazione da campioni. E non sapevamo nemmeno che ora fosse e non l’avremmo mai scoperto se a un certo punto non fosse schiarito tutto. L’alba su due amici che a malapena si erano riconosciuti qualche ora prima, e che ora sembrava proprio tutto uguale ma no, non era poi così bello nemmeno allora.

se ami qualcuno lascialo libero (almeno così dicono)

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Avete presente quando due si lasciano, e voi siete uno dei due, diciamo quello che è stato scaricato ma non necessariamente. E più del fatto di essere stati abbandonati non vi capacitate che il vostro ex partner si sia messo immediatamente dopo, o anche trascorso un periodo di tempo variabile, con una persona completamente diversa da voi. A me è successo e la prima naturale cosa che ho pensato e che pensano tutti è che l’ex partner non ne potesse davvero più di me per mettersi con uno agli antipodi. E agli antipodi di me, come potete immaginare, ci sono quei tipi rozzi e ignoranti che leggono Libero, guidano Smart o gipponi o le mini modello olgettina, praticano sport estremi e si ricordano a memoria le battute de “Il signore degli Anelli”. Fermo restando che ci vorrebbe una legge a tutela della dignità dell’essere umano tale che gli ex, terminata l’esperienza che li ha resi ex di qualcuno, non instaurino nessun rapporto successivo con nessuno altro per qualche decade, proprio per non ferire l’altrui ego con inutili comparazioni. Ma questa è un’altra storia, perché quello che succede è che analoghe dinamiche si sviluppano anche negli ambienti dei gruppi musicali.

Vi faccio un esempio. Corteggi per qualche anno un bassista che guida una vespa con un adesivo dei Joy Division. Avete letto bene. Un bassista che non te la mena con Jaco Pastorius o con Sting o con Tony Levin e i suoi bassi assurdi a tre corde da suonare con le bacchette ma che strattona quel meraviglioso strumento sufficientemente da cani e con il plettro per poter accompagnare una band aspirante post-punk. Il colpo di fulmine è inevitabile. Trascorri qualche anno nell’idillio sonoro e poi le cose finiscono come da copione. C’è il cantante che vuole fare il solista, il batterista che tra i suoi quindici gruppi in cui milita decide che per te non ha più tempo perché occupi la sedicesima posizione, il chitarrista ritmico che ruba la fidanzata al chitarrista solista eccetera eccetera, insomma i cliché dello scioglimento di un gruppo. Vi faccio solo notare che dei tastieristi non si può dire nulla, da sempre sono le persone più serie e vi sfido a trovare un addetto alla macchine elettroniche testa di cazzo.

Comunque la fine della band in questione è segnata e il bassista rimane così traumatizzato che entra in una formazione di gente che fa cover dei Doors e dei Deep Purple e gira con le Harley Davidson tarocche. E si fa crescere pure i capelli. Poi ti chiama perché nel gruppo in questione nessuno è in grado di metter per iscritto una nota su un pentagramma ma ha bisogno di depositare una manciata di pezzi originali alla SIAE e tu in virtù degli antichi fasti ti offri di occupartene. Ti metti al lavoro a trascrivere le canzoni e ti rendi conto che non si può fare, non hai mai sentito una musica così di merda.

Non so, è come se – tornando alla metafora della storia d’amore – incontri la tua ex dopo un anno e la trovi dipendente da una droga potentissima e in pericolo di vita e così pensi che è un segno del destino e devi salvarla. Devi rapirla e portarla in un luogo sicuro e farla tornare pulita come prima. Così decidi di mettere in salvo il tuo ex bassista, che nel frattempo si è messo anche a studiare sodo per diventare uno che te la mena con Jaco Pastorius e Sting e Tony Levin, e ti presenti al concerto del suo nuovo gruppo mescolato tra la folla. Ed ecco cosa succede. Intanto c’è la folla, che ai vostri concerti post-punk non c’era mai. Poi l’abbondanza di pubblico femminile non depresso, idem come sopra. Non ti è chiaro quale sia il vero bene per lui, e pensi sia meglio prendere una birra e pensarci su. Magari dopo aver fatto quattro salti su Roadhouse Blues.

amore vigliacco

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È impossibile ipotizzare una stima precisa, ma partendo dagli anni ’60 a oggi avere un gruppo rock – genere inteso in senso lato, avrei fatto meglio a scrivere avere una band – e farne una professione è stato un sogno per centinaia di migliaia di ragazzi, giusto per rimanere in Italia. Il problema, se lo vogliamo intendere come tale, è sintetizzato nella celebre massima “uno su mille ce la fa”, e il fatto che a cantarla sia stato Gianni Morandi potrebbe già dare a questo incipit la dignità di aver centrato le cause di una moria di talenti senza precedenti e più o meno a ragione. Può risultare interessante scoprire che ne è stato degli altri novecentonovantanove.

Se volete farvi un’idea di quello che rimane sotto al fortunato che emerge, o nella batteria immediatamente più bassa, a filo con l’acqua – se vogliamo utilizzare la metafora dell’iceberg – e che passa una parte della sua vita in odore di vittoria e che solo una botta di fortuna, in quella posizione, potrebbe farlo emergere. Oppure quelli affogati sul fondo, schiacciati da tutta la massa di aspiranti che li sovrastano senza lasciare lo spazio per tutta una serie di meriti, giustamente. Chi è più bravo, chi è più paraculo, chi ha i contatti giusti, chi ha dei numeri. Ma a qualsiasi livello di questa indagine stratigrafica c’è una qualità trasversale che in taluni casi costituisce l’elemento decisivo, in altri, pur essendo presente in dosi anche elevate, non riesce a fare la differenza. Si tratta dell’impegno, della costanza e della disponibilità al sacrificio di chi ci vuole davvero provare. Un investimento a fondo perduto, nella stragrande maggioranza dei casi.

Si sa, nello spettacolo in genere c’è un elemento, che è il gusto del pubblico – inteso anche come i quattro ubriachi unici ad ascoltarti nel pub di periferia mentre suoni – che ne ingigantisce l’imprevedibilità. No, purtroppo non è un lavoro come gli altri, che già hanno la loro precarietà. Questa è una peculiarità della categoria “saranno famosi”.

Ma chi sono tutti gli altri, i sommersi, quelli che ci provano e non ci riescono? Che fine fanno? Che ne è stato del loro lavoro, delle composizioni, delle demo? Che cosa non ha funzionato, malgrado l’abnegazione? Quando si capisce che arrivato il momento in cui non si può fare altro che mollare il colpo?

S. è stata per quindici anni la cantante dei C., un gruppo ormai sciolto che ha seguito l’iter standard di chi opera in ambito musicale ai tempi del web. Le origini, la fase di costruzione di un’identità, le prime composizioni. Poi la ricerca di locali per concerti, le manifestazioni, la partecipazione a concorsi. Si registrano le demo, gli studi di registrazione pagati da mamma e papà, i cd autoprodotti. Quindi la musica condivisa su tutti gli spazi social più comuni, verticali e non, si diffonde la propria arte, si cercano contatti. Nel frattempo si cresce, e nel momento in cui si deve scegliere che fare della propria vita si sceglie un lavoro sufficientemente flessibile da non ostacolare l’attività musicale. Bisogna essere sempre pronti a partire per suonare magari a 400 chilometri di distanza, quindi si prediligono gli impieghi su turni. Fino a quando ci si rende conto che è tutto vano e si ripiega su una attività più amatoriale, ci si dà lo status di gruppo di nicchia, lo si era anche prima ma si anelava al grande successo. Nel frattempo non è più tempo per una carriera altrove, non è più tempo per una famiglia, magari. E il rock non ha ripagato. Casi di questo tipo sono numerosissimi quanto le varianti. C’è chi non demorde, magari sfrutta un equilibrio con il proprio lavoro vero, e continua imperterrito anche mentre i coetanei spingono le carrozzine dei nipotini al parco.

E c’è infine quel mausoleo che è Internet, un luogo infinito che risuona in ogni dove di band ormai morte e sepolte. Siti o pagine dei social network più diffusi tra gli emergenti che proclamano l’ultimo aggiornamento avvenuto quattro o cinque anni fa. Tonnellate di canzoni caricate su server in ogni dove di cui non se ne farà più nulla, un cimitero della creatività dall’atmosfera spettrale indipendentemente dal genere di appartenenza dei reperti in cui ci si imbatte. Provateci, fate un giro a caso su Myspace, prima che sparisca come la maggior parte dei suoi utenti.

E non credo che nel caso dei ragazzi che non ce l’hanno fatta sia stata una congiura del mondo verso il gruppo in questione. Magari erano proprio scarsi. Non è nemmeno il caso di drammatizzare, forse non è così importante. Ma, ribadisco, può essere comunque un’esperienza edificante sfogliare tutte quelle pagine autocelebrative, immaginando di attraversare i corridoi di quegli immensi stabili adibiti a sale prove, con tutte le porte che si affacciano allineate e dai cui pannelli isolanti si percepiscono i rumori di sogni che si infrangono, sogni di ogni genere (musicale), con distorsore o senza.

p.s. il titolo del post riprende quello di una canzone di gruppo di tantissimi anni fa, una band che si è sciolta quando non solo non c’era ancora Internet, ma non esistevano nemmeno i cd, in cui si parlava proprio di questo. L’amore vigliacco, inutile dirlo, era la musica. Anzi, il rock’n’roll.

sul bel danubio blues

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Ieri sera canticchiavo a mia figlia l’aria di noto valzer viennese, uno di quelli che la tradizione vuole eseguito come sottofondo mentre si consuma l’opulento pranzo di Capodanno. Uno di quei balletti che amiamo seguire un po’ frastornati dall’ora tarda che ci ha visto coricare la notte prima e già scettici sul superfluo eccesso di zelo con cui il direttore d’orchestra, da lì a breve, condurrà musicisti e pubblico in ghingheri nella marcetta che, al di qua del lombardo-veneto, celebra da un secolo e mezzo una delle débâcle dei Savoia. Le canticchiavo la melodia del valzer imitando per quanto possibile tutti gli strumenti mentre lei, imbracciando la camicia da notte felpata come se fosse un partner da guidare lungo la sequenza di tre movimenti in cui il ritmo si suddivide, simulava la danza in coppia, spinta dal timbro principesco che quel brano, avulso dalle immagini di Kubrick, mantiene inalterato.

E pensare che una riduzione di quel valzer per intrattenimento da balera faceva parte del repertorio standard dell’ultima orchestrina con cui mi sono guadagnato da vivere quando, agli esordi della mia attività professionale che svolgo tutt’ora, uno stipendio non era sufficiente a un’esistenza decorosa in una abitazione dotata di energia elettrica e altre utilities basilari, per intenderci. Ma per onorare gli impegni con gli altri orchestrali avevo dovuto interrompere la collaborazione con una band con cui si era lì lì per “sfondare”, come tutte le band con un contratto major ma trattate dalla major stessa come ultima ruota di un carrozzone poco fruttuoso, per loro. Non avendo più tempo da perdere, decisi per il denaro facile di un impiego tradizionale, con prestazioni da “volgare” musicista da festa in piazza di contorno per arrotondare.

Perché era così che quel mestiere veniva percepito da chi era in grado di permettersi la sussistenza solo con un presente precario e un futuro illusorio di successo ma basato su patrimoni altrui. Ogni compromesso con l’arte commerciale e retribuita sembrava un tradimento alla causa. Tanto che, nel corso di una delle prime esibizioni nella mia nuova veste di musicista folk – diciamo così – colui che teneva redini del gruppo da cui avevo dato le dimissioni, non capacitandosi di una scelta così lacerante per il proprio orgoglio, fece capolino tra il cerchio di anziani timidi raccolti intorno alla pista a seguire invidiosi la sfrontatezza dei loro coetanei, lanciati in evoluzioni lungo l’area dedicata al ballo, sottostante il palco. Le note erano quelle di Strauss, il tema eseguito con una sezione di archi campionata e riprodotta da un dispositivo molto in voga tra i tastieristi all’epoca. E ricordo il gesto delle sue dita a forbice sul secondo e terzo tempo di quel ritmo cadenzato, a sottilineare che la versione ufficiale del mio commiato, di cui lui  e i miei ex soci si erano convinti e avevano divulgato, era che io ero stato “tagliato” fuori da loro, e che l’onta della preferenza accordata al ballo liscio non sarebbe mai stata più lavata.

Il brano volge al termine, la mia voce produce un rallentamento e una chiusura inesistente nella versione originale, ma ormai è tardi e bisogna mettersi a nanna. La camicia da notte, quella con il gufo disegnato sul petto, trova la sua giusta collocazione e ci mettiamo tutti ai nostri posti, pronti a lasciar libera la testa a quello che ci pare. Io mi sto per raccontare una nuova storia che, fino a pochi minuti prima, avevo rimosso, chissà perché.

o almeno chiamarci con il suo nome

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Al primo ascolto non mi sembra così male, qualche chance che è un po’ la birra media e un po’ le aspettative che ho portato con me da casa. Ma è solo il primo pezzo, poche battute e parte il cantato in italiano, come pensavo il testo mi mette a disagio. Occulto la smorfia di disappunto all’istante. Dal sedile del passeggero, la macchina è ferma parcheggiata sul marciapiede antistante il pub, vedo il resto del corpo che ha dato vita a quella discutibile melodia. Il cantante del gruppo chiude gli occhi, con la nuca sfiora il poggiatesta del posto di guida di quel fuoristrada vero, in un’epoca in cui qualunque veicolo di dimensione superiore è chiamato così, e assapora per la milionesima volta, suppongo, la sua creatura sonora rendendola tangibile lì sul volante, con le mani che battono il tempo. Finisce il primo ritornello, estrae la busta di tabacco e rolla una sigaretta, io ne approfitterò subito dopo.

Non diresti che il ragazzo è cileno, i suoi genitori sono fuggiti da Pinochet un paio di decenni fa, io stesso non l’avrei capito se non me l’avesse raccontato poco prima, rompendo il ghiaccio del nostro primo appuntamento. Siamo lì per capire se lui e suoi compari sono la band che fa per me e viceversa. In effetti la loro musica non ha nulla degli Inti Illimani, per chi pensa che uno che è cileno debba per forza fare quel genere lì con gli zufolotti. Anzi, se devo dirla tutta, il rock elettronico che mi sta sottoponendo non è poi così male, potrei davvero divertirmi a programmare tutto quel ben di dio analogico. Ma le parole, diamine, proprio non ce la farei mai. Non è difficile calcolare il coefficiente di compatibilità già tra la prima e la seconda traccia di quell’album che dopo mi sarà lasciato come supporto da ascoltare con calma, a casa, per pensarci su.

Potrei tranquillamente dare subito il responso negativo se non venissimo entrambi distratti da una folla che va radunandosi nella piazzetta poco più avanti e da un’ambulanza che irrompe alle nostre spalle, a sirene spiegate, la intravediamo negli specchietti retrovisori. Non mi preoccupo nemmeno di chiudere con eccessiva forza lo sportello di quella jeep militare, sono già in strada mentre lui ancora armeggia con i comandi dello stereo per mettere in pause un presunto capolavoro.

Una bambina di quattro anni, tutti i dettagli e le dinamiche le scoprirò solo il giorno dopo sul sito del Corriere, è volata giù dal balcone del suo appartamento al terzo piano, è stato un incidente e lei non ha avuto scampo. Io ho una figlia poco più piccola e mi sento male all’istante per lei che mi aspetta a casa, per quel corpo simile al suo che invece è caduto, per i due genitori protagonisti già smarriti in una trama scritta per errore ma che non conoscerà editing meno tragico di quello.

Quanto a me, so per certo che da domani cambierò abitudini. Passo di lì praticamente tutti i giorni per andare a pranzo in quello stesso pub in cui ho appena bevuto una birra media con un cantante e frontman italo-cileno. Ma anche lui si rende conto che non è giornata, non è proficuo ciò che non nasce sotto una buona stella.

se c’è un motivo

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Il processo creativo corale in musica, mi riferisco ancora a quella deformazione della personalità che i più definiscono con l’avere una band, è un fenomeno che non ha eguali in nessun altro campo artistico. Lo ammetto. Questo senza tener conto del risultato e della qualità del prodotto. L’atto in sé del comporre è uno spurgo di stati d’animo individuali senza precedenti e stupisce sempre il loro amalgamarsi con facilità con quelli altrui, sia in stato di comprensione o empatia dei musicisti con cui ci si accompagna che in quello di fraintendimento o mera versatilità da un’indole “di mestiere” e commerciale di un produttore dietro al software da home studio di turno. Gli spunti possono nascere ognuno imbracciando il proprio strumento in sala prove, l’alchimia della scintilla che genera il capolavoro è possibile ma non così semplice. In questo è di fondamentale importanza l’ambiente in cui si crea, non dico che occorrerebbe disporsi con gli strumenti secondo il feng shui, di certo più si è a proprio agio, come in tutte le attività, più piacevole sarà il lavoro. Nella mia ultima esperienza di esecuzioni collettive, la sala prove era un box rettangolare e in cinque eravamo costretti praticamente in fila indiana. Senza contare l’insonorizzazione solo parziale e il gruppo reggae nel box a fianco che si percepiva distintamente tra un pezzo e l’altro, annientando quella piacevolezza che si prova con il silenzio dopo aver suonato una canzone nel migliore dei modi. Non è durato a lungo.

Più frequente la condivisione delle proprie bozze, che ciascuno leviga e struttura apportando il proprio valore aggiunto fino all’opera compiuta, a volte specchio della prima release, a volte completamente stravolta. Il rischio è quello di pensare l’ensemble a disposizione a propria immagine, avere già ben delineato in mente il risultato finale di cosa si va a proporre e di respingere i tentativi di ciascuno di fare propria l’idea altrui. Qui gioca un ruolo decisivo la personalità di ciascun elemento e la predisposizione alla condivisione delle proprie produzioni, che è come dare in pasto se stessi agli altri. In questo occorre essere pronti alla vita in comune e il feeling deve essere a livelli elevatissimi. Se suonate lo sapete meglio di me, avere un gruppo è come avere una famiglia. Ci sono le stesse dinamiche, possessione, gelosia, inclinazione a far soffrire o a sacrificarsi, voler comandare, parlare senza far nulla eccetera eccetera. E per chi come me ha smesso, ogni tanto qualche nostalgia emerge pur nella accertata soddisfazione dell’aver realizzato l’impossibilità oggettiva di portare avanti coerentemente un progetto musicale. Ho appena letto un’intervista ai The National qui (via Slowshow, naturalmente) circa lo stato già avanzato del materiale per il loro prossimo album. Matt Berninger, fornendo qualche dettaglio sul loro modo di  far nascere le nuove canzoni, mi ha permesso di ricordare quella rara sensazione, che nella mia lunga esperienza mi è capitata solo una volta, di serenità nel confronto tra teste diverse e, soprattutto, adulte. “Aaron has given me about 10 ideas so far. He seems to be in some sort of really weird creative space. He recently had a baby, so maybe it’s a lack of sleep. He’s wired differently. The songs he’s given me are much less cerebral and academic and much more immediate and visceral than usual. I’m in love with them. I just spent all night listening over and over to some things he sent. I think they’re some of the best things he’s ever written. And I think it might be because he’s not thinking about it that much. He isn’t putting everything through the filter of Important Music as he has in the past. The music just seems to be working on a pure gut level“.