una vita da gruppo spalla

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Avevo dedotto che avevano suonato prima dei Negrita perché i due fratelli giravano per il centro storico con una maglietta evocativa del gruppo ed era strano, perché ampiamente eretico rispetto ai canoni dell’abbigliamento hip hop che entrambi seguivano piuttosto fedelmente. Ma il dogma poteva essere parzialmente messo in discussione in un caso come quello, in cui lo sfoggio delle vestigia riconducibili a un evento ad ampia visibilità avrebbe riservato anche a loro qualche stralcio di fama di risulta. Li ho sentiti commentare il concerto della serata precedente che probabilmente era stata un’esperienza di quelle da annoverare nel curriculum da allegare al cd demo. I due fratelli, che condividevano il ruolo di front man e cantanti in quel complesso tutto sommato di buona qualità e dal sound innovativo, stavano ripercorrendo i momenti più significativi con alcune ragazze che avevano trovato un canale per compiacerli, quello dell’alimentazione del loro ego, la chiave giusta per anelare a qualcosa di più. Il più giovane dei due non ne aveva certo bisogno, stava già con una che sembrava una modella. L’altro, quello più grande, che andava un po’ a rimorchio, in una di quelle dinamiche anomale che si sviluppano quando un fratello maggiore si accorge che il più piccolo se la cava meglio e cerca di recuperare, parlava prodigo di particolari sulle modalità in cui l’essere risultati simpatici ai Negrita avrebbe potuto essere l’inizio di una fruttuosa collaborazione. L’illusione che hanno tutti i gruppi emergenti quando annusano quel poco di popolarità che spetta alle rockstar alternative di casa nostra, che già le conoscono in quattro gatti. A me per esempio Pau, il cantante, è simpatico ma solo perché ho letto che ha dato un paio di ceffoni a quella sagoma di Andrea Scanzi, per dire. I Negrita probabilmente non hanno mai avuto il successo meritato. Il gruppo dei fratelli nemmeno, dopo un po’ si sono sciolti come tutti, la maglietta dei Negrita era sparita dal loro abbigliamento già qualche giorno dopo, per un gruppo di hip hop mostrarsi condiscendenti con dei rockettari allora, come adesso, è considerato disdicevole.

una volta qui era tutta musica alternativa

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La maggior parte dei ragazzini oggi si avvicina alla musica perché ha un padre come me che, se non fosse per il pudore di salire su un palco con capelli e barba grigia che nemmeno i New Trolls, si immolerebbe tranquillamente in stage diving o altri riti da pop star. Ci sono poi le famiglie che pensano ancora che la musica sia un hobby da coltivare per i propri figli e così li spingono verso quelle scuole che ci sono oggi in cui, chi si fa due maroni così con il setticlavio e la tecnica tradizionale, può sfogarsi con quegli stili né carne né pesce grazie ai quali ciarlatani del calibro di Allevi poi si fanno i milioni sfruttando la vostra disinformazione. Ma indipendentemente da come uno inizia, non capisco perché tutti poi quando si mettono insieme per fondare un gruppo, suonano rock metal. Chi più verso il post-grunge, chi più verso l’heavy-pop alla Muse, chi più verso il prog metal tipo Dream Theatre, moltissimi un po’ di tutto questo con batteristi infervorati e inutilmente rumorosi, chitarristi che scappano in velocità che è un piacere, cantanti urlatori e tastieristi con costosissime pianole multifunzione tutti testa bassa e magliette da necrofilo a snocciolare cover con pessimi risultati. Proprio ieri sono stato costretto a subire un’esibizione di tre gruppetti a una festa dell’oratorio e vi assicuro che erano tutti così. Ma provate a dare un’occhiata agli annunci di ricerca musicisti e mi darete ragione. Ragazzini che si tingono i capelli di verde e blu per poi suonare i Queen o i Metallica. Sicuramente il rock è il genere più facile da suonare e in grado di dare gratificazione immediata. Poca riflessione, gusto scolastico, scarso senso critico ma tanta tecnica e dinamiche armoniche rassicuranti. La musica dilettantistica è quanto di peggio uno possa trovarsi di fronte, davvero, ed è molto meglio vedere ragazzini, anche scarsi, che praticano del sano sport. Qualunque, eh, anche il calcio.

prisencolinensinainciusol

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Fino a quando, un giorno, sarete chiamati a tradurre in italiano i testi delle vostre canzoni dall’inglese approssimativo in cui le avete composte. Sarà un trauma perché sarete costretti a dare un senso ai vostri pensieri e non solo un verso che ci sta bene con la metrica, considerando che a scrivere liriche in inglese, come fanno molti gruppi italiani che cantano in inglese, ci riesce anche mia figlia. Ma tanto noi italiani siamo agevolati dal fatto che all’estero non ci incula nessuno e quindi, rivolgendoci a un pubblico locale che a malapena sa come si dicono i colori, i numeri e i giorni della settimana, ci facciamo pure la figura degli esterofili. Ma se avete la fortuna che un produttore mette gli occhi su di voi siete fregati, perché a nessuno interessa un progetto che, fuori dall’Italia, anche nell’era di Internet, non avrebbe la minima possibilità di emergere. Tanto vale spartirsi quelle poche centinaia di incalliti scopritori di novità underground che però vogliono poter utilizzare i vostri aforismi come arma di seduzione nei commenti su Facebook. Insomma, dovreste tutto sommato essere contenti, perché di tradurre i testi in italiano ve lo chiede la casa discografica, ve lo chiedono i vostri fans. La società intera. Dio stesso. Il sacro fuoco delle parole con un significato riconoscibile e compiuto alimenterà la vostra arte mandando a monte i vostri esercizi di anglofonia, tutti pieni di quelle parole tronche che, del rock, sono la morte sua. Perché di monosillabi come qui, tu, più, su, te, già, giù, sì, là, lì, no non è che ne abbiamo tanti, e già dalla seconda strofa ogni paroliere fa fatica. E poi vi voglio vedere a rendere in italiano i phrasal verbs anche se, usandoli a cazzo, nemmeno vi eravate accorti che non hanno un significato corrispondente all’azione del verbo puro da cui derivano e quindi, già di per sé, volevano dire un’altra cosa da quello che intendevate. Per questo si fa prima a parlare d’amore, nelle nostre canzoni. “Ti amo” e “I love you” occupano, più o meno, lo stesso spazio nella bocca di chi le pronuncia. Purtroppo dire “cuor” invece di “heart” non vuole più nessuno, sono finiti i tempi di Claudio Villa.

nuovi contributi a sostegno della teoria secondo cui è meglio smettere

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Sul palco c’è una cover band intenta nel sound check, una di quelle prove del suono sfortunatissime perché sotto il palco ci sono già molti se non tutti quelli che poi si fermeranno per il concerto, almeno fino a quando non saranno stufi. E ho scritto “sul palco” anche se il palco in realtà non c’è, cioè c’è un rettangolo alto quanto un pallet con un telo di risulta sopra, giusto per dargli un tocco di stranezza voluta in modo da far passare in secondo piano la stranezza oggettiva insita nel fatto di far suonare un gruppo in una via del centro chiusa al traffico praticamente al livello della gente. Tanto di gente ce ne sarà poca.

Ci sono io che passo di lato con mia figlia per mano e faccio finta di non conoscere il chitarrista che è anche il fondatore della cover band. Abbiamo suonato insieme a metà anni novanta in un gruppetto acid jazz, uno di quei progetti che si fanno giusto per cavalcare la moda musicale di un momento e aver più possibilità di suonare nei locali facendosi pagare almeno lo sforzo di essere contestualizzati al periodo storico. Per questo, passando di lì, faccio finta di niente, perché oggi il mio ex chitarrista, che comunque non mi riconoscerebbe perché per fortuna sono pesantemente invecchiato, ho la barba bianca e ho una bambina per mano, suona a quarant’anni suonati – almeno mi pare di capire dalla prova suoni – versioni hard rock di pezzi che erano già hard rock quando sono stati composti. Vi faccio un esempio? Highway star dei Deep Purple però avulsa da quella matrice ruvida dell’hard rock primitivo originale e resa inutilmente più fluida e più tecnica, come se a suonarla fosse uno di quei gruppi perfezionisti nerd di metal che ci sono adesso.

Il guaio è proprio che la cover band da cui mi allontano per rispetto di mia figlia, della musica, del tempo e anche dei Deep Purple sebbene a me i Deep Purple fanno cagare quasi più dei Queen, no scherzavo, nulla mi fa più cagare dei Queen, diciamo che i Deep Purple stanno comunque tra i primi cinque, dicevo che questa cover band che spicca sul non-palco della via del centro chiusa al traffico per non so quale manifestazione dei commercianti (siamo in una perfida cittadina di provincia) intanto è composta da tre ingegneri su quattro e ingegneri amici miei non me ne vogliate, ho il massimo rispetto per voi, ma nella mia esperienza (devo aver scritto qualcosa in proposito proprio qui, devo solo andarlo a cercare) non mi sono mai trovato a mio agio con ingegneri musicisti per di più abbienti e in grado di appagare senza pudore ogni minimo desiderio di estensione del proprio set di strumenti.

Si tratta inoltre di musicisti del secondo turno, cioè di quelli già di una certa età, più o meno la mia, che avevano già smesso proprio affinché l’attività musicale non intralciasse il successo nella loro professione (ah, ecco, mi è venuto in mente: di gran lunga peggio degli ingegneri sono i musicisti avvocati) e poi, rendendosi conto della giovinezza che va via, hanno pensato lustri dopo di darsi una seconda possibilità.

In più il gruppo in questione manca di un tastierista, un sacrilegio voluto per dare una maggiore flessibilità alla line-up, trasportare meno strumenti, velocizzare il corrispettivo del time-to-market in ambito musicale, ovvero essere pronti a fare concerti in minor tempo, e per potersi permettere sound check come quello a cui sto assistendo involontariamente passando di lì e dando loro le spalle per diminuire ulteriormente le possibilità di essere riconosciuto. Senza contare che Highway star dei Deep Purple senza l’assolo di John Lord è fallimentare in partenza, se non dovessi nascondermi in quel frangente mi fermerei ad ascoltare l’esibizione solo per alzarmi e andarmene al momento dell’assolo mancante di Hammond o, peggio, della sua sostituzione con un surrogato eseguito dal chitarrista ritmico.

Da qui in poi è tutta immaginazione, ma vale lo stesso la pena di fermarsi e osservare quello che succede. C’è una ragazza seduta in prima fila, molto carina ma tutt’altro che appariscente a cui sono certo che il cantante sta dedicando qualche attenzione mentre interpreta Ian Gillan con una spruzzata intenzionale di Ligabue. Io la conosco perché è la protagonista di un libro che vorrei scrivere, prima o poi, di cui non svelo la trama per ovvi motivi di segretezza, mi limito solo a questo particolare.

La ragazza, che sarà la protagonista della storia che ho in mente, ha una curiosa inclinazione personale e che è quella di convincere le persone che suonano a smettere di farlo, gli scrittori che tanto non pubblicheranno mai una riga a dedicarsi di più alle loro famiglie, i pittori a smetterla con le esposizioni nelle piazze di paese e così via. La conosco perché davvero ha capito tutto di come vanno le cose e vuole indurre le persone a non perdere tempo, buttare via soldi, ammorbare relazioni solo per perseguire una illusoria realizzazione di una personalità inutilmente esuberante.

Possiamo considerare questa ragazza, che poi è una donna che va verso i trenta, in missione? Sì, diciamo di sì. La ragazza, che non vi sto a descrivere ma poi, se il mio libro uscirà sempre che lei non mi convinca a smettere di scrivere prima – io l’ho conosciuta proprio così, vuole farmi desistere dalle mie velleità di affabulatore – avrà tutti i suoi spazi dedicati in cui saprete come ha i capelli, la corporatura eccetera eccetera, la ragazza approfitta di una pausa della prova suono e però si deve sbrigare perché tra il pubblico ho visto anche lo scemo del paese, che lo so che non è politically correct definire un ragazzo con problemi psichici lo scemo del paese e che è una consuetudine dei tempi dei miei nonni, ma per brevità concedetemelo.

Insomma, lo scemo è già pronto ad attirare su di sé l’attenzione dei musicisti che finalmente hanno appurato che ci si sente bene sul palco e da lì a poco il concerto può cominciare, e la ragazza approfitta di una pausa della prova suono e chiama a sé proprio il mio ex chitarrista ingegnere e vedo che inizia a parlargli. Ora, non so ancora in che modo e quali argomentazioni usi per raggiungere il suo obiettivo e dissuadere chi ha appena ricominciato a suonare dopo anni di meritato inutilizzo della strumentazione e a rivedere la sua posizione di ex-ex musicista, questo devo ancora deciderlo, ma la osservo e la vedo seriosissima nel suo seguire il filo di un discorso che non fa una piega. Mi rende così felice e speriamo che ci riesca davvero a convincerli, mentre mi allontano dalla scena il mio ex chitarrista sembra proprio cambiare espressione e sembra ascoltarla anche se sorpreso della cosa, vi saprò dire poi come è finita.

fenomenologia del sound check

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Il sound check preliminare a un concerto con più gruppi condensa una serie di dissapori inaudita perché è raro raccogliere in un unico agone tante piccole rivalità fuori dall’ambiente sportivo e in un ambito che non è un concorso. Non c’è nessuno che può vincere o arrivare secondo o classificarsi all’ultimo posto perché è già tutto deciso. Ci sono gli headliner, i supporter, si sa già a priori chi inizia per primo e chi gli succede, e forse è per questo che certi attriti sono palpabili. Le ingiustizie arbitrarie non possono essere vendicate in nessun modo e si accetta la dura legge degli organizzatori e dei direttori di palco, che non è detto che sia corrispondente al giudizio popolare, un po’ come nella politica. Ma ai concerti con più gruppi bisogna prendere o lasciare, già ci sono poche occasioni per esibirsi e quindi potrebbe sembrare meglio che niente.

E mentre poi durante il live degli altri gruppi è bene starsene appartati dietro le quinte a scaricare la tensione, il sound check è un momento per fare squadra seduti di fronte al palco e studiare il nemico. Il suo suono, la tecnica, la strumentazione, qualche anticipazione sui pezzi anche se è una regola implicita quella di non eseguire i cavalli di battaglia ma di bruciarsi le retrovie del proprio repertorio per poi sbaragliare i giochi quando si farà sul serio. Ed è preso come un tradimento alla causa l’allontanarsi dagli altri membri della band mentre si osservano gli altri gruppi mentre provano, si tratta di un momento delicato per il morale collettivo e mai in questo caso l’unione è in grado di fare la forza.

La regola vuole poi che il sound check venga eseguito a partire dall’ultimo gruppo che si esibirà per concludersi con il primo a salire sul palco, in modo che i tecnici – ai quali almeno in teoria dovrebbe andare il plauso di tutti considerando la mole di lavoro in tali frangenti – possano lasciare mixer e varie impostazioni inalterate alla fine della prova del suono e partire con il primo gruppo già con tutto a posto.

I comportamenti poi sono abbastanza standard. I batteristi sotto il palco osservano i batteristi che provano piatti e tamburi e normalmente maggiore è la differenza tecnica in favore di quelli sotto il palco – il che significa che il batterista che sta facendo il sound check suona con un gruppo ritenuto più importante ma è uno strumentista oggettivamente più scarso – maggiore sarà il livore per i propri compagni. Il batterista più bravo ma in forza al gruppo meno capace penserà che la sua posizione inferiore sia a causa del resto della sua band. Ma poi, una volta iniziato il live, sarà evidente che a fare la differenza è l’insieme dei musicisti, anche con strumentisti meno in gamba. Sono le canzoni e l’insieme che contano. Se un gruppo suona più tardi degli altri, nel clou della serata, un motivo ci sarà.

I chitarristi sono sempre i più difficili da gestire perché richiedono di provare tutte le sfumature del loro suono: pulito, con effetti, poco distorto, molto distorto, solista, ritmico, in arpeggio, il wah wah, la seconda chitarra, l’acustica, l’accompagnamento mentre fanno la seconda voce. E quando non sono loro intenti nel sound check, osservano gli altri cercando di dissimulare l’effetto sorpresa dovuto al riconoscimento della superiorità.

I bassisti si giocano invece tutte le carte in poco tempo, provano l’intesa con il loro compagno di sezione ritmica dietro ai cassa e hi-hat, e a meno di richieste particolari hanno poche pretese. Nell’ascolto altrui sono quelli più nerd, si avvicinano per scrutare da sotto pedaliere e amplificatori e ne fanno spesso tesoro.

Più complessa la situazione per i tastieristi a cui nessuno è abituato. Ci sono quelli con più strumenti che occupano troppi ingressi nel mixer e vengono accusati dal tecnico del suono di non essersi attrezzati adeguatamente con un pre-mixer personale. C’è poi anche il problema del cablaggio a seconda degli spinotti per non parlare del posizionamento sul palco, se ci sono altri gruppi bisogna poi spostare tutto e non è come per gli altri strumenti che certe parti possono essere condivise. Ognuno ha i suoi synth e i suoi suoni. Nel complesso sono i più umili, riconoscono lo strapotere economico che consente un set più ricco e, conseguentemente, maggiore qualità. Fanno domande e si scambiano impressioni, sempre con il dovuto riconoscimento reverenziale all’ordine nel cartellone.

I cantanti invece sono i peggiori, da questo punto di vista. Si vergognano ad andare oltre il SA SA SA PROVA SA UAN CHECK UAN TWO CHECK CHECK e quelli al mixer impazziscono per capire l’intensità con cui sbraiteranno al microfono. Li riconosci anche perché hanno la fidanzata sotto il palco che tiene in mano una macchina fotografica puntata verso di loro. I cantanti arrivano comunque per ultimi, sono quelli meno propensi a confrontarsi con la concorrenza e raramente, durante la loro prova, danno il meglio. Il loro apporto è frutto dell’ispirazione, mica si devono allenare prima, loro.

Nel complesso, si tratta di comportamenti che valgono per tutte le band, dalla più scrausa alla più professionale, da quella esordiente alla più popolare, da quella più giovane a quella con maggiore esperienza. Il copione è sempre lo stesso, e la cosa divertente è che un buon ottanta per cento del tempo impiegato per il sound check, che nel caso di concerti con tanti gruppi porta via anche un pomeriggio intero, non serve a nulla. Niente. Il concerto inizia ed è tutto da rifare, perché nel mezzo c’è stata una cena con abbuffata, qualche birra di troppo, l’umidità, senza contare la scarsa considerazione dell’eterogeneità degli stili di ogni band, il non aver fatto i conti con la sala o l’area senza il pubblico che assorbe i bassi, la tendenza dei musicisti ad aumentarsi a cazzo il volume sul palco, un po’ di errore umano dovuto alle distrazioni a cui i mixeristi sono soggetti e il gioco è fatto. Se il concerto con più gruppi è una merda lo si vede anche solo dal sound check.

101 modi per non dire al vostro amico che la musica che suona è imbarazzante

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Avete amici musicisti? Conoscete compositori che alla domanda “che musica ascolti” ti rispondono “quella che faccio io”? Non passa giorno che vi vengano sottoposti direttamente o via socialcosi giudizi su pezzi e canzoni originali? Ecco qualche suggerimento su come essere diplomatici e mantenere i buoni rapporti con parenti, amici e semplici conoscenti nel caso il materiale che vi è stato sottoposto faccia oggettivamente cagare e sentiate la necessità di non arrivare al punto. Sempre che sia questo il vostro obiettivo.

  1. Non è il mio genere, comunque complimenti
  2. Siete riusciti a decontestualizzare le tematiche più seriose
  3. Non mi piace molto il cantante, per il resto mi sembra che i pezzi girino
  4. Il batterista è mostruoso, che tiro!
  5. Molto ansiogeno questo suono
  6. Se proprio proprio devo trovare un difetto, la chitarra qui mi sembra un po’ calante
  7. Niente male i fraseggi
  8. Non ascolto molta musica italiana, però sembrate professionali nell’esecuzione
  9. Fantastica l’apertura
  10. Che tecnica!
  11. Siete migliorati dall’ultima volta che vi ho sentito suonare
  12. Ma questa è la chitarra o il synth?
  13. Qui riempirei di elettronica
  14. La progressione in questo punto ci sta tutta
  15. Ok, l’ho scaricato e stasera me lo ascolto
  16. I testi li scrivi tu?
  17. Allarmante come piace a me
  18. Guarda non ho più il lettore CD, mi spiace
  19. Sai che cosa mi ricorda? Quel gruppo… che aveva fatto quel pezzo… (ad libitum)
  20. Che ritmo!
  21. La salita di un tono alla fine è degna del miglior Sanremo!
  22. Si sente che avete ascoltato Kid A a manetta
  23. I pezzi sono registrati benissimo, a che studio vi siete rivolti?
  24. Torna un attimo indietro
  25. Avete qualche contatto per promuoverlo?
  26. La traccia 3 mi ricorda più i Suicide che i Pere Ubu
  27. Hai la versione in mp3? Mettimeli su un ftp per scaricarli
  28. Secondo me l’ultima traccia è di più e correte il rischio di sembrare prolissi. Tenetela per il prossimo cd, no?
  29. Ipnotico quanto basta
  30. Peccato per il fruscio
  31. Alzerei un zic il volume del cantato, in alcuni punti non si comprendono le parole
  32. Una strofa in più ci stava tutta
  33. Un ritornello in più ci stava tutto
  34. Siete un po’ troppo puliti per i miei gusti
  35. Siete un po’ troppo ruvidi per i miei gusti
  36. Il batterista suona con il clic in cuffia anche dal vivo?
  37. Avrei lasciato un po’ più sotto la voce, a volte sembra un po’ a sé rispetto al resto
  38. Non starebbe male mixato dopo i Daft Punk
  39. Il piano acustico fa sempre la sua figura
  40. La linea di basso mi ricorda un po’ quei pezzi che si suonavano nelle jam session anni 70
  41. L’intro sembra uscita da The dark side of the moon
  42. Ma è il primo cd che fate? Non eravate anche su una compilation della Mescal?
  43. Si sente che avete usato strumenti vintage
  44. Questo l’avete fatto con un sequencer, però!
  45. Di questo pezzo già mi immagino il video.
  46. Sai che su iTunes non riesco ad ascoltarli? Cosa hai usato per comprimerli?
  47. Suonate da tanto insieme?
  48. Certo che con l’home recording si riesce a fare di tutto, oggi. Sai ai miei tempi che sbattimento?
  49. Dovreste però cantare in italiano
  50. Dovreste però cantare in inglese
  51. Dovreste però provare ad aggiungere una voce sui pezzi strumentali
  52. Quante copie avete prodotto?
  53. Non mi intendo molto di jazz ma mi sembrate bravi
  54. Il metal è agli antipodi dei miei gusti, però avete un retrogusto grunge che tutto sommato vi rende attualissimi
  55. Più che new wave direi post punk
  56. Più che post punk direi no wave
  57. Quando esce il disco?
  58. Non ho capito che cosa dice nel ritornello
  59. Il cantante è napoletano?
  60. Si sente che componete chitarra e voce e poi aggiungete gli arrangiamenti
  61. Si sente che componete coralmente e poi rifinite in studio
  62. Si sente che c’è una mano sola che scrive i brani
  63. Ma è già iniziato il pezzo?
  64. Ma si è bloccato il file o finisce così?
  65. La cassa in quattro è sempre una certezza
  66. Gibson o Fender?
  67. Per che etichetta incidete?
  68. Peccato che è solo un EP, avrei sentito volentieri altri pezzi
  69. Questa l’ho già sentita, la suonavate anche l’anno scorso?
  70. Il timbro del cantante è molto particolare o sono gli effetti sulla voce?
  71. Ma riuscite a riprodurre queste atmosfere dal vivo?
  72. C’è lo zampino di un produttore, vero?
  73. Ci vedrei uno stacco drum’n’bass
  74. Ci vedrei un solo di chitarra
  75. Si sente però che il Moog l’avete riprodotto con un virtual synth, ma per una demo va bene così
  76. Sembra molto più di una demo, davvero
  77. Mi fai venire voglia di rimettere su la band, cazzo
  78. Il flanger sul rullante l’avete preso dai Japan, confessa!
  79. Il distorsore sulla voce l’avete preso dai Ministry, confessa!
  80. Ma avete una sala prove vostra?
  81. Molto anni 90
  82. E vai di riff!
  83. Con il video rende ancora di più
  84. Fammi sentire solo la traccia audio, il video influenza l’ascolto
  85. Il bassista suona senza plettro, vero?
  86. Fossi in voi inserirei uno strumento a fiato
  87. Puoi lasciarmi il cd che me lo ascolto con calma?
  88. Avete fatto bene a sfumare alla fine
  89. Avete fatto bene a finire di netto
  90. Adoro il wah wah sul piano Fender
  91. Mancano le percussioni e poi ci sono tutti i preset del Sound Canvas 😉
  92. Non avrei messo il tappeto di archi qui, forse riempie un po’ troppo
  93. Avrei messo un tappeto di archi qui, mi sembra troppo scarno
  94. Ora che la risento non è male
  95. Questo piacerà sicuramente al mio collega che ascolta roba tipo i Carcass
  96. Perché non ne fate un edit più radiofonico?
  97. Questa me la ricordo
  98. Ti devo far conoscere Giugu, fa un genere simile e secondo me insieme potreste trovarvi bene.
  99. Ho colto la citazione dei My Bloody Valentine. Era voluta, vero?
  100. Sembra di essere a Manchester nel 78
  101. Continuate così!

ecco perché dovreste smettere anche voi

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Vivo il mio aver smesso di suonare un po’ come penso accada a quelli che dopo aver passato la vita da eterosessuali a cinquant’anni esplodono in tutta la loro gayezza e fieri sbandierano il loro coming out a supporto dell’equilibrio finalmente ritrovato. Uno passa decenni a pensare che inondare i propri spazi con suoni autoprodotti sia la chiave per assimilare la realtà e restituirla fuori sotto forma di rapporti armonici, melodici e ritmici, realizzando quindi il proprio sé con l’emissione di vibrazioni dirette al prossimo e poi quando decide di darci un taglio si accorge che no, il turbamento che lo ha accompagnato sin dalla comparsa dei primi peli pubici derivava proprio dall’incompletezza e dall’inadeguatezza alla dimensione musicale come canale espressivo. Voglio dire, non è che la mancanza di un referente in grado di gratificarti con feedback di comprensione sia l’unico aspetto che conferisce allo suonare uno strumento i caratteri del coito interrotto spingendo l’individuo a volerne sempre ancora perché impossibilitato a portare a termine almeno una prestazione. Le frustrazioni sono molteplici, e quando ti sei liberato di un passa-perdi-tempo così poco costruttivo ti accorgi di quanto sia bella la vita fuori dalla cantina, lontano dai compagni di gioco, dall’altra parte del palco a potersi liberamente inorridire dei problemi irrisolti delle adolescenze altrui. Forte di questa superiorità morale mi sento autorizzato a pensare, ogni volta che accendo la tv e c’è la classifica italiana di MTV, ogni volta che clicco play su qualche canzone postata di gruppi o cantautori locali su Facebook, ogni volta che qualcuno mi dice sai suono in una band, ti faccio sentire i nostri pezzi. In tutti questi frangenti mi parte in automatico un commento che solo la mia buona educazione mi consente di tenere represso, anche se vorrei guardare negli occhi artisti e ascoltatori e dir loro, in tutta franchezza, ma cos’è questammmmmerda?

i panda, come nome per una band, non è un granché

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La leggenda diceva che si fosse rintanato in sala prove con l’obiettivo di imparare a suonare il basso e ne fosse uscito bassista. Era uno di quelli che sapeva strimpellare ogni strumento. Suonava il piano molto meglio di me, per esempio. Eseguiva a orecchio l’intro di piano di Firth of Fifth che è già un macello fare la parte con la destra – Tony Banks mica scherzava eh – potete immaginare accompagnare il brano con la mano sinistra e con i bassi corretti, con la scala in ottave e tutto il resto. Senza spartiti e senza nessun supporto elettronico, erano tempi di bobine e di valvole. Che invidia rispetto alla mia versione a cazzo. L’ho sentito fare una volta anche una serie di ragtime di Scott Joplin e per prendersi in giro si era messo un sigaro in bocca come i pianisti del far west, quelli che non dovevi sparargli addosso ma avrei potuto anche farlo. D’altronde per la musica bisogna essere portati, anche io ho chiesto un passaggio ma probabilmente sono stato abbandonato all’autogrill. Era una battuta, spero l’abbiate capita. In quel periodo io e l’amico batterista siamo andati a trovarlo proprio nello stesso studio un sabato pomeriggio. Con la scusa di un giubbotto dimenticato ci siamo proposti per una jam session. Mi piaceva quel posto perché era tutto ricoperto di moquette verde e aveva le pareti grigie e, a differenza della nostra cantina da musicisti poveri, non puzzava né di umidità e né di fumo. Ricordo che ci siamo divertiti con tutto quello che conoscevamo delle Orme e della PFM, lui si era stupito che due new wave comunque se la cavassero con roba così superata. Dopo qualche mese, come tutti quelli che avevano velleità di successo in campo musicale, aveva però lasciato la provincia addormentata e si è trasferito a Milano. Noi invece eravamo rimasti lì e dalla noia ce la prendevamo con tutto e tutti, erano gli anni di Tondelli e potete immaginare il perché e ciò che accadeva di conseguenza. La cosa più divertente c’era capitata proprio ancora in quella sala prove rivestita di  moquette verde. Siamo capitati lì per caso, c’era una pila di ellepi freschi di stampa di un gruppo metal locale – noi il metal giustamente lo odiavamo – e mentre nessuno badava a noi ci siamo  messi a firmare con le chiavi di casa sia il lato A che il lato B per poi rimettere i vinili violati nelle copertine. Nel frattempo la leggenda vivente, quello che aveva seguito un corso di basso autodidatta e in una settimana sapeva fare le parti dei Weather Report e si era trasferito a Milano, era stato ingaggiato da un gruppo dal nome oltremodo discutibile. Aveva accettato giusto per fare serate e potersi mantenere con la musica. Buttare via il tempo in piccoli vandalismi da idioti nichilisti come ostacolare la carriera di capelloni tamarri ricordo che al confronto ci era sembrato, tutto sommato, un passatempo più dignitoso.

l’uomo rende l’occasione ladra

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L’ultimo anno, ti parlo di almeno tre o quattro anni fa, l’ho passato a cercare il gruppo perfetto. Mettevo annunci e rispondevo a inserzioni sui siti dedicati perché ero consapevole che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrei potuto suonare con una band emergente prima di svalicare verso i sommersi, quelli che non hanno pudore nel condividere la sala prove contemporaneamente con membri i cui genitori sono loro coetanei o si ritrovano in band di cover della musica del passato di generazioni più vecchie delle loro. Che poi non ho mai capito se è perché ci sono musicisti vecchi dentro comunque anche quando sono giovani, come quei ragazzi di paese di una volta che trascorrevano il tempo al bar con il nonno o il papà e i loro amici e finivano per vestirsi da adulti, bere vino e fumare sigarette con ampio anticipo e ad avere gusti di altri tempi, parlare di star del cinema degli anni 50 per esempio, Lana Turner o Katharine Hepburn che comunque, quando ero ragazzo io, non appartenevano quasi più nemmeno alle generazioni prossime alla mia.

Comunque ti dicevo che cercavo il gruppo perfetto che è una cosa difficile da spiegare ma ci provo lo spesso. Doveva essere un gruppo già avviato e intenzionato a virare verso una matrice più elettronica il proprio suono elettrico. Ne avevo le tasche piene di partire da capo, di comporre e arrangiare, di scendere a compromessi stilistici, di convincere gli altri a fidarsi del mio gusto. Avevo come principale elemento ispiratore i Tv on the Radio e ogni volta che mi arrivava un link o un mp3 in ascolto e in valutazione lo aprivo gonfio di aspettativa confidando nel fatto che fosse la volta buona. Ma poi il pezzo o il video su youtube partiva e non era difficile individuare gli elementi che mi avrebbero spinto a chiudere il file rinunciando già alla fine del primo ritornello. Il livello tecnico, la rigida osservanza di un cliché di italiani che vogliono fare gli inglesi, l’effetto gatta morta della voce con il cantato tendente al parlato o, al contrario, melodie fedeli all’armonia sotto come automobiline comandate su una pista giocattolo. E se non erano questi, i contro, c’erano le facce, l’abbigliamento, le pose e le posture, lo smaccato provincialismo, l’età media, l’ubicazione geografica e via dicendo. Cercavo canzoni come quelle dei dischi che scaricavo a tonnellate, mi dicevo che se ci sono migliaia di gruppi di un livello che ritenevo soddisfacente, uno mi sarebbe capitato a tiro prima o poi. Perché non è come per altre scelte per le quali scrivi su un foglio i lati positivi e quelli negativi e poi calcoli la differenza di peso. Quando decidi che ti rimane solo un’ultima possibilità il computo finale dev’essere cento a zero. Si tratta di un’impresa che ritenevo impossibile in partenza, sapevo che avrei fallito e così è stato. Il gruppo perfetto in cerca di un addetto alle macchine e ai sintetizzatori non è mai esistito o, se c’è stato, non me ne sono accorto in tempo.

e poi uno dice perché si viene su complessati

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Il concerto è quell’esperienza senza confronti in cui tu rimani sempre lo stesso e ogni volta cambia la gente che hai davanti e il posto in cui ti esibisci. Il gruppo o l’artista ci mette se stesso che è in parte il prodotto da presentare in giro e la sostanza è sempre costante, una sorta di matrice, mentre si modifica il materiale umano davanti anche se si trova lì per lo stesso motivo di quelli dell’esibizione precedente. Un concetto tutto sommato elementare e dettato dal più semplice dei rapporti causa-effetto, ovvero che se viene a mancare una componente sostanziale di un principio così banale il risultato può essere clamorosamente impattante. Come quando si dice che un’azione è facile come bere un bicchiere d’acqua. Provate a immaginarne l’esito in assenza del bicchiere o dell’acqua o con l’occlusione degli organi che ne favoriscono la discesa nel nostro apparato digerente.

Nel nostro caso i tre fattori che consentono la condizione necessaria e sufficiente per la riconoscibilità di un live sono 1) gli esecutori e tutto ciò che è pertinente a loro e che va dal valore artistico intrinseco alla strumentazione personale. 2) Tutto ciò che rientra nelle competenze del luogo in cui il concerto si manifesta e che comprende il club o lo spazio che lo ospita, la controversa figura del gestore e del tecnico del suono nonché l’infrastruttura (chiamiamola così) di amplificazione d’insieme. 3) La presenza di persone anche in aree del luogo adibito a musica dal vivo non identificabili come il bancone del bar, l’eventuale biglietteria e il palcoscenico. Lo trovate banale? Bene, sappiate che non è così scontato perché sovente viene proprio a mancare uno o più di questi elementi fondamentali.

Chiaro che difficilmente  il gruppo si sottrae alla prova anche se può capitare che un componente dia forfait con preavviso insufficiente. Può capitare invece talvolta che la location non soddisfi le aspettative. Fai centinaia di chilometri in furgone per raggiungere un locale e poi ti trovi a montare gli strumenti nel garage della villa di un tizio, a suonare per lui e i suoi amici con un ampli dove far convogliare tutto. Inutile ricordare, nel caso di concerti all’aperto, il gioco di forze impari tra la volatilità degli impegni contrattuali presi di fronte all’imprevedibilità delle condizioni meteorologiche. La natura esercita il suo potere sull’arte proprio come un tempo l’uomo era impotente verso la grandine, le inondazioni, il fuoco. Tutto ciò non ha però proprio nulla di romantico, e chi organizza eventi all’aperto nel duemila e rotti in Italia, che ormai ha lo stesso clima delle regioni continentali, andrebbe rimosso dalla carica senza se e senza ma.

I gestori invece richiederebbero un capitolo a sé, mi preme solo evidenziarne alcuni aspetti legati a filo doppio con il terzo punto. Come avrete intuito, è infatti il pubblico a fare la differenza in questo delicato sistema di equilibri e ad avere un impatto decisivo sulle sorti degli attori in causa. Lo studio del comportamento della massa – anche se gli esecutori si accontenterebbero persino di numeri esigui, quindi non immaginatevi grandi trasmigrazioni epocali ma basta quella cinquantina di persone seduta ai tavolini a chiacchierare dei fatti propri – è antico quasi quanto l’uomo. Il fattore presenza è soggetto o all’abitudinarietà con cui la gente frequenta quel posto o quel festival indipendentemente dai nomi in cartellone, oppure dipende dall’artista o dal gruppo chiamato a esibirsi. Su questa base possono verificarsi pericolosi equivoci. L’organizzatore che ti chiama da tre regioni di distanza dalla tua pensando ingenuamente che tu sia in grado di generare profitto, con il risultato che il locale è deserto e torni a casa ubriaco comunque ma con le spese a malapena rimborsate. Viceversa, il gruppo o l’artista che è costretto a pagare per suonare in posti in cui c’è ressa a prescindere, e il gestore che è uno sgamato è abituato a spremere contanti da ogni dove e non si fa scrupolo di approfittarsene. D’altronde nessuno ti regala nulla, giusto?

Chiaramente, e mi avvio alla conclusione, tutto questo va visto nell’ambito del semiprofessionismo o in quello del dilettantismo, di chi suona per  passione, insomma. Se la musica è il tuo lavoro non hai nemmeno bisogno di fare tutte queste considerazioni, tanto meno di scriverle in un blog. E alla fine restano solo due momenti indelebili che nessun calcolo economico potrà mai soppiantare. Metterei cioè al secondo posto di questa classifica quell’istante in cui ti accorgi che qualcosa sta cambiando perché qualcuno, sotto il palco, sta cantando i tuoi pezzi mentre li esegui e i tuoi amici sotto si stupiscono del fatto che ci sono estranei che, probabilmente, hanno comprato il tuo cd o se lo sono copiato. Che è un po’ come quando ti accorgi di essere corrisposto in amore. Alla prima posizione va infine il primo concerto, anzi il primo pezzo della primissima esibizione, anzi l’istante in cui per la prima volta alzi lo sguardo se ci riesci dallo strumento e guardi oltre il palco, che è come scalare uno scoglio che dal mare sembra alla tua portata per un tuffo ma poi, dalla cima, le distanze cambiano e i metri in più devi coprirli con il coraggio.