in un'esplosione di emozioni e colori

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Alle fermate come Palestro, Duomo o San Babila i vagoni della metro si svuotano di quelli vestiti meglio e delle donne più alte e la cosa mi spiace un po’, ma se avessi voluto chiedere alla signora che si è precipitata fuori il significato del foulard che sfoggiava annodato intorno a una caviglia sopra un paio di tacchi vertiginosi non mi avrebbe capito perché non ho dubbi, non era italiana. Resta solo uno seduto al mio fianco, a cui la finanza lo mette così in tensione che si è appisolato su una pagina della rivista per economisti spalancata sulle ginocchia. Leggo di sfuggita una cosa il cui senso è che “il regime di paura imposto dal terrorismo annovera tra le prime e più immediate conseguenze il fatto che tutti guardano tutti con sospetto. I comportamenti stravaganti sono amplificatori delle già latenti fobie nella nostra civiltà che altri definiscono sviluppata perché viviamo in ambienti così sofisticati e, di conseguenza, delicati, per cui le tragedie sono più nell’effetto domino delle cose che abbiamo costruito quando si distruggono, piuttosto che nell’atto criminale in sé”. Qui riprendo a pensare ad alta voce io, qualora non abbiate notato le virgolette che si chiudevano, e aggiungo che la rivista ha ragione, converrete con me che un kamikaze che si fa saltare in aria su un carretto trascinato da un asino è ben altra cosa rispetto a un atto estremo in una stazione della metropolitana. Così lui – il tizio che russa qui alla mia destra – sarebbe il primo per il quale dovrei avvisare la sorveglianza. Mi piacerebbe fare un documentario di quelli che usano adesso sulle coppie di vigilantes che passano da un convoglio all’altro, perché sono tutti stranieri grandi e grossi e uniti nel nome della nostra sicurezza fisica. Che va bene, ma a loro chi ci pensa?

Nel frattempo i residui della massa impiegatizia del terziario si affollano fuori, all’ultima uscita prima delle zone più decentrate di Milano, quelle popolate da creativi e poveracci come me. Una ragazza corre con una confezione aperta di Panforte Sapori in mano e uno zainetto rosso sulla schiena, mi aspetto un’invocazione estrema da fanatismo religioso e poi una pioggia dei suoi vestiti. Chi mangia, al giorno d’oggi, il Panforte Sapori, che è quasi più fuori tempo di un Cofanetto di Caramelle Sperlari? Quando salgo sopra dalla metro, invece, piove ma acqua vera e piove come se non ci fosse un domani, anzi come se ci fosse il domani ma solo perché è stata programmata una di quelle operazioni divine per salvare, su una barca abbastanza capiente, non tanto i profughi delle guerre, che quelli non interessano a nessuno, quanto tutte le specie animali. Io non ho l’ombrello e mi appresto a pagare il mio eccesso di ottimismo. Se a casa mia è solo nuvoloso non vedo perché debba bagnarmi lungo l’ultimo miglio verso l’ufficio. Una ragazza che vedo spesso perché fa i miei stessi orari ma a cui non ho mai rivolto la parola mi offre un passaggio sotto il suo che è molto piccolo, ma lei è così bella che non me la sento di deluderla. Facciamo un paio di isolati, parliamo del cambio degli armadi, saltiamo entrambi per errore in un lago a ridosso di un semaforo, e prima di separarci – lei va a destra e io a sinistra – mi porge la mano e mi dice il suo nome. “Ah, io sono Silvia”. Ecco. Ora ho paura a stringergliela, magari è collegata a un detonatore.

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