risate a denti stretti

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Qualche giorno fa mi sono trovato seduto in un banco di scuola, nella terza fila di una classe di quarta elementare, mentre la maestra dava gli ultimi dettagli di una esemplare lezione sulle equivalenze e io mi trovavo perfettamente a mio agio anche se, con il mio metro e ottantasei e in quelle mini-sedie, forse le due bambine dietro di me non ci vedevano molto bene. Sbirciavo il mio compagno di banco mentre, con la matita, completava con naturalezza un esercizio sul libro e seguivo la spiegazione dell’insegnane con attenzione perché, comunque, sentivo di dover imparare qualcosa.

Ma è stato il passaggio successivo a farmi riflettere, molto più del fatto che considerassi quei ragazzini di dieci anni non molto diversi da me e, a dirla tutta, mi sentissi uno di loro. Lo smodato confronto verbale con cui i bambini si sono cimentati in un lavoro di gruppo mi ha indotto a paragonare quel mondo dell’infanzia all’ambiente in cui lavoro dove, pur occupandoci di comunicazione, stiamo tutti zitti, ciascuno al proprio pc. Non scambiamo nessuna impressione, nessuno fa una battuta, non si parla di nulla nemmeno del più e del meno. Si sente solo il ronzio dell’impianto di condizionamento e le ventole dei computer.

Mi sono sentito fortunato, allora, per essere immerso in quell’innocua bagarre, e preso dalla felicità dell’occasione che mi era stata data – tornare bambino per qualche ora – ho sorriso a quella che dev’essere la prima della classe seduta nell’altra fila che ha ricambiato mostrandomi l’apparecchio. È stato evidente, a quel punto, il gap tra me e chi avevo intorno. La realtà mi ha smascherato restituendomi i miei cinquant’anni e il vero motivo per cui mi trovavo lì. L’ortodonzia, da quando facevo quarta elementare io, ha fatto passi da gigante anche in termini di accessibilità ai costi e, se è difficile trovare oggi adolescenti con i denti storti, in quel momento è risultato chi, dei due, fosse fuori contesto.

Qualche ora dopo, rientrando in ufficio, ho notato la réclame sulle vetrine di uno di quei studi dentistici di cui si sono riempite le città che da fuori è facile scambiarli per banche, assicurazioni o addirittura agenzie di pratiche automobilistiche, avete presente? La pubblicità consta in tre o quattro pannelli, uno per ogni vetrina, raffiguranti persone di età diverse che sorridono con uno slogan – diciamo così – che sottolinea la possibilità di rateizzare in esigue cifre mensili anche interventi piuttosto impegnativi. La foto della ragazzina, naturalmente, mostra una splendida adolescente con un vistoso apparecchio sull’arcata dentale superiore. Ho fatto finta, per qualche istante, che non si trattasse di una modella ma di una cliente dello studio, chiamata a prestarsi come testimonial. Ho ravvisato nella sua espressione la fiducia nel fatto che la terapia a cui era sottoposta fosse temporanea e che non ledesse per nulla la sua fiducia in se stessa, le sue attività quotidiane, la sua sfera sentimentale e la sua vita stessa. Cosa sono qualche mese o anche un anno o più di apparecchio in confronto a tutto il tempo in cui quel sacrificio elargirà i suoi frutti?

Forse è per questo che la conquista nella sicurezza di sé nei ragazzi, oggi, noi non la possiamo immaginare perché è priva di un fattore pregiudicante che non esiste più. Arrivato in ufficio, per rimettere in ordine tutto lo scompiglio che mi si era avvicendato dentro, ho guardato per l’ennesima volta il video di una cantante inglese che mi faceva impazzire quando avevo dodici o tredici anni. Una ragazza bellissima ma con gli incisivi inferiori non perfettamente allineati, un dettaglio che oggi risalta molto proprio perché mica ci siamo più abituati.

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