i robot – day #69

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L’annuario degli artisti morti ha una nuova figurina, da oggi, quella di Florian Schneider dei Kraftwerk. La musica del quartetto di Düsseldorf è da sempre nelle mie corde, almeno da quando assistetti alla loro performance a un programma RAI. Ero poco più che bambino – “The Man Machine” è del 1978 – e i Kraftwerk si presentarono alla trasmissione mettendo dei loro replicanti seduti in platea – con una meravigliosa cravatta corredata da led luminosi – a contemplare i veri Kraftwerk che si esibivano in un playback da manuale sul palco. Avevo già il disco, che fa parte da allora della mia collezione, e il messaggio mi arrivò forte e chiaro: il mio destino sarebbe stato l’elettronica. Che poi non è stato proprio così, ma è bello raccontarlo facendo finta che sia vero, tanto non ci conosciamo di persona.

Se scartabellate su Youtube comunque potete rintracciare la prova che c’è stato un tempo in cui Schneider e soci non erano per niente dei robot ma ci davano dentro con strumenti tradizionali, pur facendo musica avanti anni luce. Il punto è che il loro modo di usare i synth e gli strumenti per la composizione automatica di ritmi non è mai stato in linea con il resto delle band ascrivibili alla musica elettronica. Anzi, mi verrebbe da dire che i Kraftwerk sono tra i pochi a suonare musica elettronica mentre tutti gli altri applicano l’uso di strumenti elettronici a generi tradizionali come il rock. Prendete i Depeche Mode, tanto per fare un nome.

I Kraftwerk li ho visti dal vivo a Villa Arconati, nel 2005. L’impressione è stata quella di assistere a quattro ingegneri sul palco che, con il loro notebook, controllavano la posta elettronica mentre da tutto il resto dello spazio che ospitava lo show si propagavano le sequenze dei loro brani. E, attenzione, non si tratta di un giudizio riduttivo: questo è come dev’essere un concerto di musica elettronica. Diffidate dai suonatori di sintetizzatore che interpretano quello che eseguono come un chitarrista qualsiasi. Vuol dire che non hanno capito nulla o semplicemente fanno finta, per comprensibili motivi commerciali. I suoni di quel capolavoro di modernismo che è “The Man Machine” non sono altro che le emissioni di entità artificiali. Nessuna corda che vibra, nessuna pelle che risuona, soltanto circuiti, silicio, chip, bit, linguaggio macchina e una spruzzatina di radioattività.

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