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Angelo è un collega con i capelli bianchi che tra due anni andrà in pensione. Insegna musica alla secondaria e ricopre la funzione di vicepreside. Si è allestito, con il tempo, un’aula attrezzatissima con pianoforte, tastiere elettroniche, impianto hi-fi e persino xilofoni e vibrafoni. Tra i numerosi compiti a supporto della dirigente di cui viene incaricato c’è anche la stesura dell’orario. Mentre il primo collegio docenti, a inizio settembre, volgeva al termine, Angelo ha preso la parola – i collegi si svolgono rigorosamente in videoconferenza – per chiedermi di fermarmi qualche minuto una volta disconessi tutti. «Abbiamo comprato un software per creare l’orario. Ci daresti una mano per capire come si utilizza?», mi ha chiesto.

Da allora ci siamo visti spesso in Meet per lavorarci insieme. Lui mi ha dettato i parametri, i nomi dei docenti, il monte ore di servizio. Mi ha seguito mentre inserivo i vincoli dovuti al fatto che abbiamo due sedi e occorre tener conto degli spostamenti, ci sono due docenti di motoria e una sola palestra, ci sono i colleghi che hanno esigenze di disponibilità particolari, quelle che ogni anno, quando alla fine tutte le combinazioni possibili tra le classi sono agli sgoccioli, sono le prime a venir giustamente sacrificate per portare a termine una delle incombenze più complicate del sistema scolastico. Il software, in realtà, non aiuta per un cazzo. Ha svolto il sessanta per cento del lavoro, e di questo gliene sono grato, ma poi il resto delle limature siamo stati costretti a farle a mano. Ha un’interfaccia utente imbarazzante e l’usabilità di autoarticolato senza servosterzo, con milioni di tabelle inutili che si generano in altrettante combinazioni di parametri. «Come faccio a vederle tutti insieme?», mi chiedeva Angelo ogni tanto. Avrei voluto rispondergli dicendo che faceva al caso nostro una di quelle sale controllo che ho visitato per lavoro nella mia scorsa esperienza professionale. Network Operation Center – così si chiamano, sale con le pareti ricoperte da monitor che trasmettono grafici e dati, con i tecnici seduti a controllare che tutto funzioni alla grande.

Angelo ed io ci abbiamo impiegato un trentina di ore in tutto. Quando gli ho chiesto quanto tempo ci mettessero gli scorsi anni a ultimarlo manualmente, mi ha risposto che per l’orario sono state sempre destinate cento ore. Se ne occupava una docente che è andata in pensione. Ci lavorava due settimane e poi passava l’elaborato ad Angelo, che in altri sette giorni sistemava tutte le incongruenze e cercava di soddisfare le richieste degli insegnanti. «Cerca di mettermi non più di quattro ore ogni mattina». «Riesci a lasciarmi un paio di giorni senza la prima ora?». «Al giovedì e al venerdì vorrei uscire alle 12». Cose così. Quanta ingenuità.

In quella trentina di ore trascorse in videoconferenza insieme ci siamo scambiati qualche confidenza. Angelo è un musicista serio, diplomato al conservatorio, mica come me che non ho mai imparato a suonare un solo pezzo dall’inizio alla fine al piano senza steccare almeno una volta. Abbiamo però una cosa in comune: possiamo vantare una carriera di musicisti di pianobar alle spalle, un’esperienza che ha i suoi pro e i suoi contro. Si finiva di suonare alle due di notte, poi si smontava, si andava a letto e, la mattina dopo, alle otto e mezza in ufficio (io) e dietro la cattedra (lui). Angelo mi ha detto che sua moglie lo accompagnava spesso nei locali in cui si esibiva. Ora, invece, la moglie lo assiste nella stesura dell’orario. Quando è tutto pronto Angelo deve trascrivere la versione definitiva sui tabelloni cartacei da appendere a scuola. Si stampa le tabelle realizzate al computer e la moglie gli detta ore, cognomi dei docenti e classi in cui si tengono le lezioni. Io mi sono un po’ vergognato perché abbiamo fatto spesso tardi, e mia moglie e mia figlia invece non si sono dimostrate così collaborative, anzi spesso si sono lamentate ad alta voce del fatto che, fuori servizio, dedicassi così tanto tempo alla scuola. Ma non è un problema. Anzi.

Mentre lavoravamo in collegamento video dalle nostre rispettive abitazioni, ogni tanto la mia gatta saltava sul pc – abitudine che non dismette mai – e si mostrava davanti alla webcam. Il fatto è che anche Angelo ha un problema di animali domestici impiccioni. Angelo è proprietario di un gigantesco pappagallo che, quando soffre la solitudine o vuole attirare l’attenzione, emette dei fischi fastidiosissimi a un volume spropositato. Riuscire a concentrarsi per portare a termine l’orario con quei versi in cuffia è stata un’impresa. Altro che acufene. I fischi erano continui ma lui sembrava totalmente a suo agio. «Vuoi vederlo?», mi ha detto un giorno. Senza attendere la mia risposta, si è alzato ed è ricomparso in video con quel gigantesco esemplare variopinto appollaiato sul braccio. A quel punto il pappagallo ha interrotto le sue strazianti lamentele e io ho potuto riprendere a tentare gli incroci possibili tra classi e docenti, tra sedi e palestre, tra vincoli e opzioni in modo efficace.

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