la legge di Murphy (Peter)

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I MGMT hanno realizzato una cover più che accettabile di quel gran pezzo di canzone che è “All We Ever Wanted Was Everything” dei Bauhaus. Via.

e pupe

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Papà, ma quando tu andavi a scuola esistevano i bulli?”. Con mia figlia si sta parlando di un nuovo compagno di classe, un dono inaspettato che arriva fresco fresco da un’altra scuola da cui probabilmente o è stato allontanato o, palesando il dissenso con la linea didattica del comprensorio, è stato ritirato dai genitori stessi. Un dono di cui è stata omaggiata la terza di mia figlia, l’unica terza a essere priva al momento di casi problematici. E in realtà il pacco in questione, per insistere sulla metafora del regalo, non è che sia un bullo, bensì un piccolo cretinetti viziato, con un vocabolario di scurrilità alimentato a grandi fratelli, strisce le notizie e mediasettate varie. Uno di quelli che appena la maestra si assenta dall’aula comincia con il suo show di “bombe atomiche” (che non oso pensare in cosa consistano) e insulti gratuiti, anche pesanti, anzi fortunatamente talmente fuori misura da non essere colti nemmeno dai compagni di classe (papà, cosa vuol dire titoloirripetibile?), che già l’hanno bollato come uno svitato. Ma che talvolta “alza le mani”, probabilmente perché a casa nessuno gliele ha mai “scese addosso” abbastanza. Così, non riuscendo a capire il motivo per cui l’armonia di un gruppo debba essere guastata da un cane sciolto – cara mia, mi vien da dirle, ricorda che questo sarà una costante della tua vita sociale – mi chiede come si stava da studenti in quella dimensione atemporale che è il passato dei suoi genitori.

A pensarci bene, i bulli non esistevano nella mia scuola, perché se fossero esistiti sarebbero stati annientati dai piccoli delinquenti che la frequentavano. Ben altre complessità. Il quartiere in cui vivevo condivideva la scuola elementare e media con uno dei peggiori agglomerati urbani della mia città, popolato da famiglie numerosissime, la maggior parte immigrate dal sud, dai cognomi tanto pittoreschi quanto allarmanti e spesso presenti sulle pagine di cronaca locale e noti per una gamma completa di crimini comuni. Il tutto in un’epoca in cui non esisteva alcuna sensibilità per questo tipo di disagio, né a tutela degli interessati e né a difesa di quelli che, come me, lo subivano. Ricordo in prima media compagni di classe di 16 anni, pluri-ripetenti con cui lo scontro individuale era fuori discussione a priori, sia per la differenza di età sia per il fatto che erano ragazzi costantemente muniti di coltello a serramanico e catene. Stesso discorso con quelli più abbordabili dal punto di vista fisico, con il rischio di vederli poi tornare accompagnati dai numerosi fratelli maggiori, in scala come i Fratelli Dalton. E la partita non poteva essere certo sospesa per manifesta inferiorità dell’avversario. I professori stessi erano a rischio, ricordo casi in cui il limite non è stato superato di poco. Non vi dico il trattamento per quelli un po’ babbionelli come me. Sì, mi direte, anche questo è bullismo, ma il materiale umano dava adito a poche speranze di recupero, tanto che in molti hanno seguito, come da copione, lo stesso destino che la famiglia di origine aveva loro riservato in alcune varianti: con eroina, quindi morte entro i trent’anni o conseguenze croniche sulle spalle della collettività, o senza droghe pesanti ma con un maggior orientamento al crimine, quindi carcere o affini, ancora sulle spalle della collettività.

Da qui, la mia risposta è stata che il bullo in questione, con i capelli dritti sulla testa e le scarpe che si illuminano quando corre, è sicuramente da tener sotto controllo, ma la sua pericolosità è relativa è può essere annientata dalla vostra intelligenza, dalla coesione di tutti contro uno, dal ridurre al minimo lo spirito di emulazione degli altri maschietti e dall’evitare che il fascino della cattiveria possa essere motivo di attrazione anche dalle bambine. No papà, mi dice mia figlia, a me sembra solo un deficiente. Ecco, brava, penso io, lascia perdere i deficienti.

mari e monti

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Leggendo la lista degli incarichi per la formazione della nuova legislatura, mi viene da ridere. Ma si tratta di una risata isterica, perché ripenso ad alcune scelte dei precedenti governi. Castelli è stato ministro della giustizia. Già, Castelli. E ha ricoperto quella carica anche Mastella. Già, Mastella. Poi vabbè, la formazione che è appena stata licenziata è tutta una farsa e di certo non ci mancherà, una per tutti Mariastella Gelmini. Ma non dovrebbe essere sempre così? Voglio dire, la scelta dei ministri non dovrebbe sempre cadere su persone che ne capiscono di quella materia lì per la quale sono chiamati ad amministrare un Paese? Di fronte a scelte importanti la tecnica e l’esperienza dovrebbero supplire all’assenza di visione politica. In altri ambiti è un modo di dire che si usa, no? Dove non riesci “vai di tecnica”, o “ci arrivi con l’esperienza”. Che poi non è vero, perché una visione politica c’è sempre anche quando non è espressa a priori. E non sarebbe male che si formasse proprio con una sorta di metodo empirico: persone che lavorano per una finalità che è anche un’urgenza, da cui emerge un consenso e un’opinione pubblica a supporto (sempre che gli incaricati facciano le cose per bene), quindi la squadra si propone anche come modello politico e amministrativo per il futuro, una visione non a due ma a cinque, dieci, vent’anni, o il tempo sufficiente a farci dimenticare che abbiamo avuto Castelli alla giustizia. Già, Castelli. E che ha ricoperto quella carica anche Mastella. Già, Mastella.

col piffero

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Per darvi un’idea della portata sperimentale e delle potenzialità innovative della scuola elementare in cui mia figlia frequenta la classe terza, ecco qualche dato sull’insegnamento della musica. Nella scuola di mia figlia, che è la figlia di un musicista, mica cazzi, non si persegue uno di quei approcci a dir poco obsolescenti alla cultura delle sette note – anzi dodici – attraverso, che so, l’uso di software didattici, di quelli che offrono infinite possibilità per mettere in risalto l’aspetto ludico della materia in questione. Oppure l’avviamento alla pratica dell’esecuzione con una proposta tra strumenti ritmici, armonici e melodici, variando timbriche e tipologie stesse tra le singole classi in modo da abituare l’orecchio degli alunni a una musica di insieme diversificata, formando piccoli ensemble in cui lasciar coesistere musicisti in erba, in grado di ascoltare e, soprattutto, ascoltarsi reciprocamente cogliendo tutte le peculiarità di strumenti a fiato, a percussione, a corda. Niente di tutto questo. La scelta volta a lasciare un solco di apprezzamento indelebile nelle anime dei bimbi cresciuti a suoni di plastica e a hit da baby dance è lo studio del flauto. Capisco il vostro stupore: mai nessun programma di così alto livello aveva permesso alla musica di superare finalmente l’immeritato status di cenerentola delle materie scolastiche. Solo uno strumento dalle così ampie possibilità, così flessibile e in grado di dare ai bambini gratificazione immediata può far nascere la passione e competere con gli stimoli sonori ai quali i nostri figli sono avvezzi. Penso all’audio hi-fi degli home theatre, per non parlare degli impianti di amplificazione dei cinema, con quei subwoofer che ti pettinano e ti fanno ribaltare sui sedili. Niente di tutto questo. La scuola pubblica che non può contare sulle proprie risorse e che demanda ormai alle famiglie e all’iniziativa privata la copertura economica di tutte le attività collaterali al leggere, scrivere e fare di conto, è pronta a cogliere la sfida della modernità e a vincerla, sulle note di Fra Martino Campanaro, suonato rigorosamente all’unisono.

p.s. e per essere propositivo, mi chiedo, non era meglio il glockenspiel che è più facile da imparare, costa uguale, è polifonico e ha più di un’ottava?

per te che ho conosciuto

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Io li avevo visti, i Perturbazione, proprio in quella tournée lì. Anzi, a onor del vero, era il “Tora tora tora”, il maxi-festival che metteva insieme le menti musicali più energiche dei tempi. E che tempi: era il 2002 ed ero con quella tipa che poi sarebbe diventata mia moglie e quei due che già allora erano amici nostri strettissimi. Ed era una bellissima sera d’autunno, a Nizza, e tutto sembrava prendere quel corso pieno di felicità che poi si è rivelato tale. Per quello rimasi folgorato dai Perturbazione sul palco, tanto che non persi tempo e corsi ad acquistare il cd alla bancarella. Ne fui così piacevolmente sopreso che cominciai pure a molestarli via e-mail facendogli tutti i complimenti che mi sembrava giusto fare, come fanno i ragazzini con i loro idoli pop. Ma era tutto così perfettamente omogeneo che “In circolo” si prestava perfettamente ad essere la colonna sonora di quei pochi mesi di quiete che precedettero il vorticoso decennio successivo, fino a qui. Quindi evviva tutto, evviva i Perturbazione e come è stata la mia vita, splendida, da allora.

chiedimi come

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Ecco, ogni volta lo sforzo lo faccio e cerco di autoconvincermi che chi vi partecipa sia portatore di pace e di fraternità. Ma a me le celebrazioni in pubblico di riti religiosi di gruppo o l’osservazione di pratiche di preghiera individuali mettono a disagio. Chiaro che la processione con la cassa e le prefiche più che essere allarmante la trovo lugubre, perché in realtà è il connubio tra giovinezza e credo (per non dire integralismo) che mi fa rabbrividire. Anche se, in tutta onestà, devo ammettere di trovarmi in disaccordo con qualunque crocchio di persone intento a seguire i propri ideali indipendentemente dall’ambiente circostante quando tali ideali sono diversi dai miei. Voglio dire, assistendo qualche giorno fa a un incontro di fanatici giocatori di ruolo di non so quale gioco, di fronte a tanta gioventù emaciata e deviante, ho quasi rimpianto le compagnie che un tempo si dedicavano con meticoloso spirito autodistruttivo all’eroina. Ma, ancora in ambito fantasy e tornando ai credenti, trovarsi a fianco di una distinta pendolare sui venticinque anni che, al posto del libro del Connelly o Ammaniti di turno, legge e sussurra a bassa voce il Terzo Mistero Doloroso, quello dell’incoronazione di spine, alternato al consueto check dei messaggi in arrivo sul BlackBerry. Oppure veder una ventina di studenti del Politecnico che si riuniscono sotto un portico dell’università a una certa ora del giorno per recitare non so quale preghiera tutti insieme, beh, mi fa pensare al peggio. Tipo qualcuno che si fa esplodere, o esagitati con forconi e torce che piantano crocifissi in aula magna e così via. È che non inizierei mai la mattina con il rosario, tantomeno riunirei tante persone intorno a me in pubblico, se non per un brindisi. Ma nessuno mi dà retta, e il mondo continua a scendere irreversibilmente la sua china.

sosta

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Stamattina fa freddo, meglio tenere il finestrino aperto solo due dita, il minimo indispensabile per fare uscire il fumo della sigaretta. Che già fumare a quest’ora, chiuso nell’auto accesa per riscaldare l’abitacolo ma ferma nel parcheggio sotto il portone, significa omaggiare il resto del pianeta di una dose doppia di smog. I due scarichi gassosi si mischiano fuori alla nebbia e insieme avviluppano l’utilitaria malconcia, nascondendo alla vista dei passanti come me la passeggera seduta dietro, che poi è la figlia dell’inquinatore consapevole. Nata con un deficit intellettivo di una percentuale abbondante oltre la metà in una famiglia che, messi insieme, non riesce a colmare l’altra, da sempre sfrutta l’ausilio delle strutture di sostegno e ora, mentre tutti i suoi coetanei sono quasi adulti, aspetta come ogni giorno nella sua dimensione infantile scomoda in un fisico indeciso sulla categoria a cui appartenere il furgone dei volontari che portano un nutrito gruppo di meccanismi difettosi ai rispettivi impieghi, reali e fittizi. Il padre, al posto di guida, tra una tirata e un’altra non muove un muscolo della faccia, l’espressione probabilmente bloccata da sempre come un calco nel gesso da quando ha ricevuto la notifica che la vita normale, da quel momento, mai più sarebbe stata. Ma non è un buon motivo per affumicare una persona anche se non è del tutto registrata e anche se lei, dietro, sembra non curarsi della cortina che si addensa dentro e fuori l’abitacolo. Per la ragazza non fa differenza nemmeno quello, finché il furgone affianca l’auto, il padre ne esce e trasborda quell’enigma che occupa una stanza del suo appartamento su un vettore più adatto, accudita da mani più esperte, in una dimensione più a misura di disagio. Lei si getta sul sedile a fianco dell’autista, che alla fine è il più rassegnato di tutti. Il padre risale in macchina e questa volta mette la prima e parte, in perfetta sincronia con i saluti della figlia, che non restituisce.

Il posto macchina ora è libero, nemmeno un minuto e ci si fionda una fiammante city car multicolore, una di quelle auto che sembrano progettate da un pasticciere. Dentro c’è l’impiegata dello studio del geometra ubicato di fronte, tira il freno a mano ma nemmeno lei non spegne il motore. Dallo specchietto retrovisore nota che l’ufficio ha ancora le serrande chiuse, ne approfitta per accendersi una sigaretta, lasciar sfumare la canzone di Vasco Rossi – che è appena all’inizio, riconosco la strofa – e cancellare dallo smartphone un po’ di messaggi obsoleti. A differenza di chi ha stanziato in quel punto poco prima non apre il finestrino, lascia che il calore non tracimi e nemmeno il fumo, chi se ne importa. Nello studio lavorano in due, lei e il geometra che è sempre fuori a controllare i condomini che amministra. Non ha colleghi, in ufficio è sola quasi tutto il tempo. Vive in un paese sulla stessa circonferenza esterna alla metropoli, tanto che è impossibile recarsi in ufficio con i mezzi a meno di non dover passare per il centro e poi tornare su per un raggio diverso. In auto è a pochi minuti da casa, invece, che diventano più di venti nelle ore di punta e che trascorre in compagnia della radio. Da periferia a periferia. Sul cruscotto e sul divanetto posteriore un’orgia di animali di peluche di ogni ordine e grado, sdraiati in posizioni innaturali, sicuramente impregnati di nicotina e di silenzio, come la loro proprietaria umana. Che apre la portiera e getta la sigaretta sull’asfalto e la richiude, il geometra non è ancora arrivato è c’è il tempo per mettersi il rossetto.

lo sballo del qua qua

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Compagnie canaglie: secondo Al Bano Carrisi è stata la droga a distruggere il suo matrimonio con Romina, che “ha sempre frequentato gente che fumava”. La droga in questione è marijuana, da cui il paradosso nel paradosso. Possibile che nessuno si sia mai chiesto la natura di tutta quella Felicità?

p.s. inutile aggiungere che con una analoga dichiarazione di Massimo Ranieri sarebbe stato tutto più facile.

una sensazione come di assorbimento

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I mezzi di emergenza, di soccorso e delle forze dell’ordine viaggiano preceduti dal suono della sirena e seguiti dalla sua alterazione doppleriana anche di notte, quando sulle strade non ci sono code da saltare, incroci da oltrepassare a tutta birra, pedoni e automobilisti da avvisare del passaggio e del rischio che corrono. Dopo mezzanotte infatti non c’è nulla – o poco – di tutto questo, eppure le sirene sono altrettanto spiegate. E io non capisco lo stesso, già mi addormento a fatica, vivo nel terrore del telefono che irrompa dalla porzione di casa vuota, il cosiddetto living, che sta di là oltre la zona notte, il cosiddetto sleeping, perché non c’è nulla che mi spaventi di più del rumore che fa breccia nel buio. Quando qualcuno mi racconta di aver voluto installare un sistema di allarme in casa, io penso che sia matto. Perché se suonasse alle tre del mattino potrebbe essere letale per me, sono certo che mi verrebbe un coccolone.

Così se mi raggiungono le note ad alta definizione della ambulanze mi sveglio immediatamente con il cuore in gola, penso a che sta succedendo, se stanno venendo da questa parte. Ne passa una, poi una seconda, una terza, deve essere successo qualcosa di grave, forse stanno chiamando a raccolta il quartiere. Svegliatevi! Accorrete! Ma poi si incrociano e proseguono sulla provinciale verso l’ospedale, probabilmente hanno già raccolto i feriti e i contusi. E mi lasciano qui, per fortuna, solo che ormai la sessione di riposo me la sono giocata. Così mi metto a leggere e aspetto.

Aspetto che vada in onda il rumore che fa Milano la mattina presto. Si tratta di un graduale crescendo che arriva dalla città probabilmente con un effetto valanga. Un’automobile che si accende chissà dove, magari in centro, il rumore che si propaga e raccoglie un clangore, uno sferragliamento, una frenata o un clacson. La bolla cresce e si sposta, altri scalpiccii, il boato di un camion, poi la tangenziale Nord che si sveglia, avvolge il tutto e ne aumenta il diametro, fino a quando la massa è più pesante dell’aria e come un’onda (innocua, eh) si infrange su casa mia e allora game over. Diventa insostenibile quel qualcosa là fuori che, quando ho preso sonno, non c’era. Non è più notte.

Poi lentamente il mio udito si abitua, aiutato dal fatto che altri rumori più familiari si aggiungono al bordone di fondo: uno sciacquone dai piani alti, la tapparella elettrica del vicino, e quando mi butto già dal materasso già non ci faccio più caso. Ed è incredibile perché in ufficio, durante il giorno, cerco di cogliere il rumore del pomeriggio, per esempio, ma non esiste. Solo a tarda sera, quando mi corico, le orecchie mi si ripuliscono di tutte le sciocchezze sentite in giornata, le lascio colare fuori con gli orpelli sonori che ti restano addosso come la puzza di ogni altro tipo di inquinamento.

imburrato solo da un lato

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