sti cazzo di minion

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A me il fatto che ci siano persone adulte che discorrono con i coetanei e fanno le stesse cose di mia figlia con i suoi compagni di classe mi turba ancora, non so magari poi è normale che ci sia gente che a trent’anni ancora si trastulla con i videogiochi. Ho conosciuto per lavoro un giornalista grande e grosso – anche un bel ragazzo, per giunta – che di mestiere recensisce console e giochi e conduce pure un programma tv dedicato, e la cosa mi lascia perplesso ma probabilmente è un mio limite, concepisco ancora un netto distinguo per esempio anche tra la letteratura per ragazzi – dove ci sta bene il fantasy, per dire – da quella per grandi, dove maghi elfi e vampiri boh. Voglio dire che fare le cose da bambini insieme a loro è edificante, dedicarvici anche da soli sa un po’ di problematicità. Stesso discorso per i passatempi, ma qui vi confesso che se avessi in casa il Subbuteo (come si diceva qualche post fa) o l’autopista o il meccano farei discorsi meno da ipocrita. Se date un’occhiata a tutti gli spippolatori di smartcosi che vedete concentrati sui mezzi pubblici scoprirete che nascondono sempre uccelli che lanciano maiali, gelatine da distruggere o l’arte orientale della frutta da affettare al volo. E questo è niente in confronto ai giochi per dispositivi touchscreen pubblicati a corollario del secondo episodio di “Cattivissimo me”, un film assolutamente geniale e imperdibile se avete dei figli, ma che si sta trasformando in un’ossessione. Mi sento infatti circondato. Mia figlia proprio in questo momento è intenta a far volare quei mostrini gialli su panorami inventati, ma vedo che non è la sola perché è un’esperienza che mi capita sempre più e molto spesso con estranei di età superiore alla scuola primaria. Riconosco le vocine e i versi dei celebri aiutanti del protagonista ovunque ci sia del tempo da perdere o qualcosa da aspettare. Soprattutto da quando è comparso uno di quei nanerottoli monoculari in casa mia. Lo sgigotti e lui fa gnè gnè gnè. Gnè gnè gnè. Non si capisce nemmeno se siano maschi, femmine, transgender. Qualche giorno fa in due (umani adulti maschi) sono andati avanti un intero viaggio in metro a scambiarsi trucchi sui modi per portare i Minion alla vittoria. E la cosa mi ha fatto riflettere perché pure mia figlia, dopo qualche partita, si annoia e si mette a fare altro.

il sesso dei blogger

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Sì, avete letto bene: oggi parliamo un po’ di voi, in questo che è una specie di post di servizio. Saprete meglio di me che con questi cosi dietro le quinte si riesce a tenere traccia di un po’ di tutto. Chi passa di qui, chi legge e che cosa legge, chi clicca e su cosa clicca, quante volte eccetera eccetera. Ora, pur tenendo questo variopinto rotocalco da un futuro tutto inventato in primis perché mi permette di esercitarmi con la scrittura su argomenti differenti da quelli che sono uso trattare per lavoro, posso constatare con enorme piacere quanto la vostra presenza sia sempre più cospicua, per non parlare di alcuni casi di una costanza commovente. Spero di poter un giorno incontrare voi fedelissimi che leggete e commentate. A questo proposito, girellando tra spazi analoghi al mio di chi lascia le proprie tracce qui, notavo quanto a volte sia difficile comprendere dalle informazioni più superficiali – come nickname o profile picture – non solo qualsiasi storia si nasconda dietro ogni individuo ma persino dati come il sesso di appartenenza. Persone che utilizzano un nick sibillino e che per capire se si tratta di femmine o maschi occorre spulciare tra scritti e commenti, e talvolta non è nemmeno sufficiente fermarsi al primo aggettivo rivolto a sé per capire il genere da un suffisso, se non altro per poter rivolgersi a loro nella maniera più appropriata.

C’è poi la rubrichetta in cui propongo link a pubblicazioni di altri blog o di varie testate più o meno conosciute, che come saprete non è una mia idea ma l’ho scopiazzata dai sodali di Sempre un po’ a disagio, che fino a qualche tempo fa erano artefici di un’iniziativa simile. È che cercavo un modo per tenermi a mente e sottoporvi cose interessanti che leggo in giro, a volte proprio di vostro pugno, e quello del segnapagine mi sembrava l’unica strada possibile. A volte qulla degli aneddoti dal futuro degli altri costituisce una attività davvero impegnativa, i feed del mio archivio iniziano a essere tanti e cerco di non lasciare indietro cose interessanti perché ne trovo davvero molte meritevoli di essere divulgate in ogni direzione. Quindi niente, mi sembrava giusto ringraziare tutti anche se questo strumento è parzialmente bidirezionale, voi ricevete la mia gratitudine e non so se vi è gradita oppure no. In ogni caso spero sia evidente la passione che mi muove, almeno quanto lo è la vostra.

a New York due uomini si affrontano nel parcheggio sotterraneo del Madison Square Garden ed uno dei due uccide l’altro decapitandolo con una katana giapponese e viene pervaso da una strana energia

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Attenzione: ci sono concrete possibilità che qualcuno di voi, come me, sia un Highlander al contrario, e questa volta non è un complotto né un discutibile slogan politico di quelli che incitano a cambiare il verso. Che cosa sia un Highlander al contrario è abbastanza intuitivo. Ho amici nati nel 72 o anche nel 70 che già mi sembravano piccoli allora e oggi continuano ad avere meno di trent’anni a differenza di me che, nato nel 67, ho già passato da un pezzo i quaranta. Altri miei conoscenti nati in generazioni limitrofe alla mia, che per un soffio non ha avuto il Commodore così a portata di mano e nel laboratorio di inglese c’erano ancora i giradischi con le Unit su vinile, ora devono ancora terminare gli studi, trovarsi un lavoro, emanciparsi. Gente che quando la frequentavo era di dieci anni più giovane, soprattutto musicisti – che sapete, è facile trovare in una band quello più vecchio che ha pochi anni in più della mamma del batterista – e che nel tempo ha preso tempo, perdonate il gioco di parole, e ha come minimo raddoppiato la distanza. Persone che ho staccato in una maniera che ha dell’incredibile. Il fenomeno è allarmante anche da un altro punto di vista, che ora mi tocca ancora più da vicino. Ci sono figli di coppie che conosco che continuano ad avere due, tre o quattro anni, poi passano secoli e quando li incontro hanno ancora cinque anni e mezzo, tutti ancora in età prescolare mentre mia figlia nel frattempo ne ha già dieci e fa la quinta. Questo non è giusto, perché significa che il gene dell’Highlander al contrario non solo è ereditario ma l’ho dato in eredità e ci sarà una dinastia che si porterà con sé questa maledizione di vedere le cose sempre di corsa mentre altrove c’è tutto il tempo per fermarsi, prendersi un caffè, fare qualche foto ricordo.

facile a dirsi

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Ora non dico che non dovremmo essere complicati. Credo però che quello che poi esprimiamo a parole sia una banalizzazione in eccesso di quello che teniamo al calduccio sotto la corroborante trapunta delle nostre riflessioni. Io me le immagino come una matassa tutta aggrovigliata di pensieri scritti come usa adesso, quelle tag cloud per le quali ci sono anche i tool in internet per generarle. Ci sono termini scritti in font giganteschi ed altri percettibili a malapena, questo dipende dalla ricorrenza dei concetti nelle nostre elucubrazioni e se un’idea marginale a un certo punto diventa una vera e propria ossessione, in ogni istante della nostra vita cosciente la vediamo lì stampata con il suo carattere bello ciccione che sovrasta tutto il resto. Ma in questo ordito delle nostre divagazioni succede che poi non facciamo mai ordine e alla fine peschiamo la risposta più evidente come in quel gioco dell’indovina che cos’è, quando si deve mettere la mano nel sacchetto e scegliere un oggetto estraiamo quello dalla forma più ergonomica, perché già c’è il mistero della pesca al buio, così se qualcosa si lascia impugnare più agevolmente ci consente di avere almeno la meglio sull’ignoto.

In pratica, quanto siamo più complessi e difficile dentro poi nessuno se ne accorge fuori, a meno di non trattarsi di un compagno di vita, di un parente stretto, un partner confermato o un collega da posto fisso che devi conoscerlo bene per sapere quando stargli vicino o evitarlo. Se poi siete abituati a leggere molto, quando vi trovate di fronte a una differenza così evidente tra quello che la gente si dice nei libri e come le persone si rivolgono dal vivo, ogni dubbio anche minimo viene fugato. Non dobbiamo aver paura. Quei dialoghi scritti che a volte non riusciamo a seguire e ci perdiamo addirittura tra botta e risposta tanto che dobbiamo tornare indietro nella pagina fino all’inizio del confronto – almeno io faccio così – e contare uno e due, uno e due per arrivare sino al punto in cui non siamo più riusciti a capire chi stesse dicendo a chi e che cosa, ecco a una situazione di questo genere tra persone in carne e ossa non vi capiterà mai di assistere. Poi c’è chi ci prova e non è assolutamente un problema di lessico più o meno forbito o desueto, anzi le persone complicate ci comunicano cose talmente elementari che finisce che escano sottovalutate dal confronto. Il problema è distinguere una semplicità apparente da una di risulta. Per questo le conversazioni più superficiali dovrebbero essere bandite, non c’è spazio per niente, e a quel punto è meglio starsene in silenzio o anzi, meglio, scrivere una bella lettera di accompagnamento alle proprie intenzioni così c’è sempre l’alibi della comprensione del testo. Un po’ come quando dovete leggere cose come questa qui.

gioventù sbruciacchiata per adulti scottati

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Per qualche ignota combinazione mi trovo al centro di una seconda o terza media in viaggio dagli outskirt verso quella grande mela in stato di decomposizione che è Milano, in piedi nel vano da cui si accede all’uscita del treno dei pendolari. Sfortunatamente si tratta di maschi e femmine ancora in quella fase in cui sono più bassi di me ma di poco, stretti a formare una calca per cui mi ritrovo a poca distanza dai loro cuoi capelluti. Ragazzini forse in visita alla mostra del cervello al museo di storia naturale per contemplare i vantaggi che ricaverebbero usando quello che gli è stato fornito da genitori come me. Questo nel migliore dei casi. Gli altri non staccheranno la loro attenzione da sé stessi e dai compagni, considerando la scala delle priorità tipica della fase di crescita in cui sembrano piombati come sopravvissuti a un naufragio.

Una ragazzina con metà testa rasata e l’altra metà coperta da una folta e lunga capigliatura sfoggia un vistoso anello alla narice destra e porge la metà del proprio auricolare a un’amica. Considerando che mi trovo in mezzo, si avvicinano tra loro mettendosi a commentare con un silente feeling espressivo a pochi centimetri dalle mie orecchie. Il display dello smartcoso da seicento euro di quella con la doppia pettinatura riporta autore e titolo, così leggo quel Fedez che con la sua cattiveria commerciale ha così tanta presa sui più piccini alle prime esperienze con l’autodeterminazione.

Faccio finta di niente malgrado inconsapevolmente le due abbiano ridotto lo spazio che mi consente di leggere il mio libro in piedi evitando che i fili delle mie, di cuffie, non si aggancino a qualche accessorio sporgente altrui. Sto ascoltando il nuovo album di M.I.A. e poco prima di essere tirato nel mezzo di quella condivisione di emozioni pre-adolescenziali mi ero distratto osservando un altro studente con loro di origini cingalesi, chiedendomi giusto se almeno lui a questo pop italiano al vago aroma di rap preferisca la cantante di origini tamil che risuona nel mio microimpianto hi-fi da passeggio, ma forse pretendo troppo considerando il suo look che trasmette una vita di stenti molto più ordinari.

Ma mi rendo conto ancora una volta che il mio criterio di valutazione consolidatosi nel secolo scorso ora non vale più. Prendete ad esempio questa qui davanti a me con il piercing al naso e la testa divisa a metà da due pettinature così antitetiche. Tanto spirito di emancipazione estetica per poi ascoltare un mediocre canzonettaro al soldo di una major come Fedez e per di più tamarro all’inverosimile. Fingere di tifare rivolta per poi assoggettarsi a MTV Italia. Ecco, questa cosa dell’hip hop all’italiana che è diventato il terreno di non-espressione dei giovani d’oggi, considerando che a breve ci sarà pure mia figlia lì con loro che di nascosto da me coltiva già quel genere di ascolti malgrado i modelli che le ho proposto costituisce l’avverarsi di una delle mie principali paure, seconda solo al rimanifestarsi di una dittatura militare dai connotati cileni. Che smacco per uno della mia generazione: dopo il post-punk, l’eroina, il no-future, dover avvertire queste oscure avvisaglie di omologazione proprio dal sangue del mio sangue.

A quel punto mi distrae lo scemo della classe, che avevo già identificato come tale perché tutto preso dai tentativi di conquistare un po’ di visibilità malgrado la sua pelle coperta dall’acne a colpi di cazzate sparate a voce alta, che alle mie spalle legge la pagina su cui è aperto il mio libro dimostrando ai compagni e tutti gli altri pendolari che non dev’essere una cima a scuola. Mia figlia leggeva così in prima elementare, giuro. Anzi meglio. Faccio per farglielo notare ma vengo anticipato da un sagace rimprovero dell’insegnante che nel frattempo si è fatta strada per avvisare i ragazzi di non scendere alla prossima, ma alla fermata successiva. Nessuno però ha riso né durante lo scherzo del libro né alla battuta della prof che comunque era troppo sottile per una generazione così deludente, e tra me penso a quante soddisfazioni mi sarei preso, io, ad avere in classe uno così idiota. Magari me lo ritroverò come infermiere quando avrò ottant’anni e la mia vita sarà nelle sue mani, una cosa che mi fa rabbrividire.

Quindi si aprono le porte e il mio viaggio è finito, per farmi passare le due ragazzine sono costrette a spezzare il filo fisico e metaforico che le unisce in quel discutibile ascolto comune ma non sembrano particolarmente dispiaciute. Lo scemo della classe approfitta del fiume di gente che se ne va per cantare una canzone che dice “mi piace la Nutella, Nutella-a-a”, e ancora una volta penso che se fossi un insegnante delle medie sarei profondamente frustrato, che già come genitore mi aspettano tempi bui.

affinità elettive e difformità elettorali

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D’altronde provate a pensarci anche voi: a quanti dei vostri amici, parenti e conoscenti concedereste il diritto di voto? A parte la cerchia più ristretta, io già avrei qualche difficoltà a mettere insieme una lista con una manciata di persone. Un tempo avevo una mia teoria, la concessione di una sorta di patentino civile da ottenere previo esame di storia e educazione civica. Insomma, devi conoscere i segnali stradali e come comportarti a un incrocio per guidare un’auto, giusto? Allo stesso modo se non sai il perché di certe cose corri il rischio di portare ogni discussione sulle foibe ancora nel 2013, di comprare i libri di Pansa, di prendertela con il tuo sindaco per il patto di stabilità e cose così. Ma oggi che la gente ha davvero raggiunto uno stato senza precedenti, e lo stato ha distanziato la gente come non mai, e dovreste conoscere sia la percentuale di individui in grado di comprendere il significato dei testi che, dall’altro lato, l’autoreferenzialità della cosa pubblica, pensare che l’accesso al sistema sia a numero chiusissimo e ridotto ai minimi termini da chi a malapena raggiungerebbe la sufficienza impone una ridiscussione dei parametri di selezione per non trovarsi tra i soliti quattro gatti che sono sempre gli stessi a fare tutte le cose. Un po’ come succede con i genitori che partecipano alle attività della scuola che sono gli stessi che incontri alle iniziative culturali che sono gli stessi che incontri alle manifestazioni e così via. Senza contare che da quando sono in auge i test a risposta multipla nel nostro sistema formativo, i dubbi sulla veridicità dei risultati di questo tipo di esami sarebbero ancora più fondati. Io comunque sono uno di quelli che vorrebbero tener duro, e non mollerei di un millesimo la definizione dei criteri di accesso alla società per mantenerla civile. Sono altresì certo che se ci fossero questi corsi obbligatori di “saper vivere in uno stato normale” non ci sarebbero più problemi legati al proporzionale o maggioritario, persino il bipolarismo perderebbe di significato, e gente come me sarebbe piena di amici e uscirebbe di casa, ogni mattina, con il sorriso sulle labbra lieta di calarsi nel mondo. Ma così non sarà mai, per questo non colgo l’utilità di iniziative elettorali persino come le primarie, perché rimettono in mano a una discreta fetta di politicamente incompetenti i destini di partiti e cittadini stessi. Ah, ovviamente stavo scherzando. Ehm.

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finalmente libero

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Dev’essere stata nostra madre a insegnarci come si telefona, se non ricordo male, a metterci al corrente dell’etichetta da utilizzare per non apparire maleducato a un interlocutore che risponde e che non è il diretto interessato da coinvolgere nella conversazione che si vuole avviare, nella richiesta di notizie che si ha bisogno di chiedere, nella semplice constatazione che va tutto bene da un capo all’altro della linea perché è un po’ che non ci si vede e non ci si sente.

Una metodologia resa necessaria dal fatto che avere il telefono in casa non era così scontato, si poteva nascere e crescere fino a una certa età senza averne uno e ricorrere a quello pubblico più vicino per le urgenze e fornire il numero di quello dei vicini di casa in caso di necessità di essere rintracciati. La mia famiglia fino a un certo punto non ha posseduto un apparecchio telefonico, come non ha avuto sempre a disposizione un’automobile di proprietà, un ascensore condominiale e persino un bagno con tutti i crismi, nel senso di doccia, vasca e bidet se non un suo surrogato di plastica componibile da riempire di volta in volta di acqua fredda, indipendentemente dalla stagione. Cose che, come si dice, non usavano.

Ed è stato così, almeno per il telefono, fino a quando mio papà è venuto a comunicarci il nostro numero di cinque cifre – trenta centoventicinque – così, senza il prefisso che nelle chiamate urbane non doveva essere messo davanti. Da lì l’esigenza del training per irrompere con la giusta e buona educazione nelle vite degli altri con uno squillo ripetuto, che in certi frangenti risuona come un disturbo dell’intimità del quale bisogna scusarsi di default. Buongiorno/buonasera sono nome cognome, parlo con la famiglia cognome? Si/No (esiste la possibilità che si sbagli a selezionare il numero). Se si: C’è nome_interessato? Grazie buongiorno/buonasera.

Poi alle richieste di chiarimenti sui compiti e agli inviti per i giochi pomeridiani con merenda sono subentrate le chiamate romantiche, quelle con le quali si occupavano gli apparecchi per ore dolci e bollette salate, con fratelli e sorelle che rivendicavano il loro diritto a un uso analogo. Tanto che per ovvi motivi di privacy io preferivo munirmi di gettoni o, più tardi, di schede e utilizzare uno dei loculi di uno di quei posti pubblici della Sip che non esistono più, con le cabine insonorizzate la cui assenza di rumori esterni dava sin fastidio.

Ma oggi la telefonata non conserva più la drammaticità dell’evento unico, raro, persin costoso. Contratti flat e dispositivi personali, per non parlare della maggiore importanza che rivestono le conversazioni scritte (male) hanno svilito il pathos del parlarsi a distanza e senza faccia. Al telefono si costruivano e si distruggevano amori, si progettavano futuri di gloria, ci si attribuiva responsabilità di attentati e sequestri di persona, ci si rendeva irrintracciabili.

Ora tutto questo ha un significato e un sapore diverso, il parlarsi è una delle tante funzionalità digitali e non ne sto dando un giudizio morale perché anzi, per certi versi è anche meglio così. Lo stordimento da conversazioni fiume, si manifestavano rare e quindi lunghe in quanto concentravano più cose da dirsi, era una sensazione postuma che rimaneva appiccicata come una morsa sull’orecchio, rosso e indolenzito per tutto quel tempo con la cornetta tenuta schiacciata per l’intenzione di un abbraccio, in fondo il telefono e la persona con cui si parlava avevano la stessa voce.

chi si accontenta, punto

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Una degli accostamenti che trovo più scabrosi e allarmanti è quello dei poveri che stanziano poco oltre gli ingressi dei negozi che più sfacciatamente conferiscono l’illusione che anche quei poveri lì che stanno fuori possono sembrare meno poveri sfoggiando le cose in vendita nei negozi davanti ai quali stanziano. Che basta un tocco del piazza italia o del nero giardini di turno per togliere quella patina di miseria che sovente è puramente intellettuale, giacché se fosse solo assenza di mezzi quei poveri non stanzierebbero davanti ai negozi che non si possono permettere anche per poco e meno male, perché quando ci riescono sembrano ancora più poveri e il corto circuito di deprivazione è deflagrante. Spero insomma che mi abbiate seguito. Si tratta di una mia paura che devo aver scritto almeno una decina di volte e soprattutto quando c’è aria di Natale, di saldi, di shopping e di grandi compere e nell’occasione di quelle due o tre volte l’anno in cui mi capita di deambulare urtato dalla folla nella confusione di un sabato pomeriggio in Corso Buenos Aires soprattutto dopo una visita in un posto di una bellezza quasi irritante come la villa Necchi Campiglio, così platealmente di classe che ti fa riflettere sulla differenza tra i ricchi e di una volta che si riempivano le pareti di Sironi e di Casorati rispetto agli arricchiti di oggi che insomma, lo sapete bene come sono conciati in quanto a gusti e interessi, pensate a gente come Confalonieri o Emanuele Filiberto.

Ora i poveri che si incontrano all’ingresso dello store della Nike e stanno lì, quasi come se un po’ della fortuna di un brand di successo potesse irradiarli anche solo con l’illuminazione sovradimensionata del negozio, mi fanno venire in mente quel gruppetto di sfigati di periferia che potreste incontrare qui dietro casa mia, in un parcheggio nascosto antistante una filiale di un’azienda che produce vernici. Sicuramente vedersi lì ti consente di rollare canne in tranquillità, altrimenti non si spiegherebbe il perché gente di meno di vent’anni con tutta la vita e il futuro davanti dovrebbe accontentarsi di un posto così, che è vero che Milano non è Berlino ma dico prendetevi un treno e andate lì nei pressi della villa Necchi Campiglio, almeno si vede qualcosa di esteticamente gradevole e il vostro gusto può trarne giovamento.

Ma dev’essere che le cose simili si attraggono, non vedo altre spiegazioni. Io che sono uno discretamente alto ogni volta che sono a un concerto mi si piazza qualche gigantone sull’uno e novanta proprio nella linea visiva tra me e il cantante. Mi capita anche al cinema. Ci dev’essere quindi una specie di magnetismo che raggruppa gli elementi con lo stesso comune denominatore, per cui se cresci in una casa in cui ti servono i cibi industriali nelle confezioni in cui i tuoi genitori te li comprano al discount e per chiederti se vuoi una cioccolata calda dicono “ti preparo un ciobar?”, quando cresci non fai più caso all’estetica in genere, tanto meno agli innesti del post-moderno sul tessuto razionalista e del novecento architettonico che in Italia è un po’ il nostro forte, specialmente in città come Milano, e anzi l’insegna della Wind accesa a colori sguaiati su un edificio anni 30 ti conferisce la sicurezza di rivedere cose che poi ritrovi alla tv grazie al panariello di turno. Anzi, a dir la verità non fai più caso a niente e finirai a “uscire” maglioni made in China su richiesta per dieci ore al giorno e a riassettare loculi di prova liberandoli di tonnellate di acrilico, provate e abbandonate dall’utenza oversize e sudaticcia consumata dalla vita usa e getta che frequenta il negozio in cui eserciterai come commessa precaria, il tutto per non aver avuto un’ambizione diversa che incontrarti con altri perdigiorno dietro casa mia.

Così potrei scendere in strada in questo momento, anche solo per distrarmi da quel bambino che si sta esercitando al flauto dolce suonando Fra Martino campanaro in fa ma con il si naturale, e chiedere alla compagnia di figli di poveri tutta presa nell’accoppiarsi il più felicemente possibile che si riunisce qui nel parcheggio davanti all’azienda di vernici, come avrei potuto chiedere ai poveri di altri paesi che osservavo far finta di non fare caso alla moltitudine di colori delle Nike dietro la vetrina alle loro spalle, quali non-programmi abbiano/avessero per il futuro. E sono certo che nessuno mi dirà che spera di diventare un esperto di qualcosa, di qualunque cosa. Perché la deprivazione generata dal temporaneo e illusorio appagamento è diventata lo specifico del nostro tempo. La vita in HD ha reso l’uomo dipendente da un’immobilità perenne dalla quale non è possibile fuggire nemmeno di un metro, nemmeno per attraversare la strada se qualcuno ci chiama fuori offrendoci una possibilità.

e quindi anche in italia si festeggia halloween?

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willywonka_halloween

vendo o affitto dimenticatoio singolo ottima opportunità uso investimento

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Il mercato immobiliare non se la passa bene, vero? Peccato, perché vorrei proprio sbarazzarmi del mio dimenticatoio. Non è proprio che non sappia che farmene, perché malgrado l’ampia metratura è ormai al limite della capienza e anzi, dovrei convincere il mio vicino di spazio a vendermi il suo. Di certo si tratta di un dimenticatoio di un certo valore, situato in un contesto signorile, dotato di impianto elettrico e posizionato al livello interrato di un complesso residenziale civile recintato. Senza contare che è stato costruito in prossimità della nuova linea metropolitana e di una futura area con analoghi spazi limitati. Ho comprato il dimenticatoio anni fa e subito ho cominciato a stiparlo di cianfrusaglie umane e inanimate, fino a quando ho commesso l’errore di lasciarci cose temporaneamente. Sapete come si dice, no? Uno è sovrappensiero e dice a se stesso che appoggia lì una scadenza, un libro che gli hanno prestato, una ricorrenza, una promessa. Ma chi ci passa poi per il dimenticatoio quando non serve? Se qualcuno di voi fa un check una volta ogni tanto per vedere se c’è qualcosa che va a male alzi la mano, di certo non io. Per questo ho la smania di tenermi tutto appresso e bene in vista, perché poi se metto qualcosa là sotto è finita.

Stamattina l’ho aperto perché non trovavo un appuntamento che avevo preso e appena ho tirato su il portellone sono stato sommerso di roba. Un macello che non vi dico. Ero di fretta e così ho rimesso via tutto un po’ alla rinfusa, tanto nel dimenticatoio alla fine ci passo solo io. Per questo lo voglio vendere. Se non avessi il dimenticatoio probabilmente farei una fatica bestia anche solo a camminare perché girerei con una borsa colma fino all’orlo di impegni, ma sarebbe meglio così perché gestirei meglio il mio tempo. Non a caso si dice “avere una memoria di ferro”. Perché quello che uno vuole nascondere nel dimenticatoio sono cose pesantissime e se conservate nella mente rischiano di ammaccare la nostra bella scatola cranica. A metterle tutte in borsa, d’altronde, ci si espone a rischio di scogliosi, gibbosi e tutte quelle altre deformazioni ossee dai nomi buffi. Ma è inevitabile. A un certo punto della vita si pensa che, oltre al box e alla cantina, del dimenticatoio non se ne possa fare a meno. E invece io preferisco fare senza, avere tutto sotto mano. Comunque se sentite qualcuno che ha bisogno di un dimenticatoio in ottime condizioni, fatemi sapere. Il prezzo è trattabile.