se siamo scialpi e infelici svegliamo questa città da una notte tragica

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Cattura

No perché l’abbiamo visto tutti, vero, ieri sera durante il programma di Crozza, il mega-refuso nell’articolo del Corriere di cui nemmeno lo show man si è accorto? O è stata solo un’illusione ottica dettata da sete di scoop, la stessa che ti fa vedere notizie dove non ce sono e ti fa inanellare figure di merda? Non è un problema, anche se ci sono grammar-nazi che fanno passare quello degli svarioni come una catastrofe biblica, cosa che farei anch’io se non fossi il primo a non accorgermi dei miei. Sapete la storia della pagliuzza e della trave. C’è la corrente di chi vorrebbe che tutto venisse straricontrollato e quella che non ci sono più gli accademici della crusca di una volta. Il titolista del Corriere, o l’addetto a Photoshop de La7 è così reo di un involontario calembour tra sciapo e scialbo. Ma non è quello il punto. Siamo davvero così apatici e malinconici, l’immagine che il Censis dà di noi è quello di un popolo alla Cigarettes and coffee e niente più. Siamo isole nell’oceano della solitudine, e arcipelaghi le città dove l’amore naufraga? Ci accarezza solo la musica?

Del resto solo noi italiani potremmo essere poeti e navigatori e allo stesso tempo gente senza fermento in una società in cui circola “troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa”. D’altronde, sempre come diceva proprio lui che è uno dei massimi esponenti della nostra cultura, non essendo né a est e né a ovest siamo i migliori e ciascuno di noi ha un posto al mondo. Questa è la nostra terra. Abbiamo perso un’occasione, perché quella canzone si che poteva diventare un inno generazionale, altro che “Penso positivo” di quel renziano di un Jovanotti. Così, in questo decorso verso l’abbassamento generalizzato dei ceti sociali, abbiamo comunque avuto la fortuna di trovare una nostra identità. Non più Ricchi o Poveri, non più Albano e Romina, ma finalmente un popolo di Scialpi, che anzi da un po’ ha cambiato nome e si fa chiamare Shalpy, lo dice persino la sua pagina su Wikipedia. E allora? E allora rocking e rolling, per resistere. Ci potete contare.

tutto quello che dovete sapere sulla rivoluzione della prossima settimana

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Pensate le peggio cose che avete fatto a diciassette anni e mezzo o giù di lì. No, non ditemele. Pensatele e basta come quei giochi delle carte che fanno i maghi. Dopo vi dico il perché. Prima però permettetemi un consiglio: è ora di staccare un po’ dalla rete. Troppa Internet e troppi socialini fanno male, come al mio collega che da ragazzino ha giocato troppo con non so quale console e gli sono venute le convulsioni, addirittura gli è successo due volte. Errare è umano, perseverare è un po’ da cretini.

Non vi dico il bisogno come cresce in questi giorni di vigilia, e non mi riferisco alle imminenti festività natalizie. I giorni precedenti le primarie del PD è tutto uno scatenarsi di appelli, coming out, intenzioni di voto, sondaggi, satira, accuse, un intero campionario di contenuti pubblicati da emeriti sconosciuti come il sottoscritto. Mi sono prestato a un po’ di contributi decostruttivisti dei miei, avete presente quando faccio di tutto con scarso successo per essere simpatico e arguto, mi sono imbarcato in alcune sterili discussioni anti-Renzi e pro-Civati, ho tentato timidamente di convincere qualcuno a seguirmi in questo cammino ma i risultati sono stati inqualificabili. Qualche like da persone che erano già convinte della loro preferenza e basta. Per il resto non credo di aver mosso una sola particella di animo politico in un senso o in un altro.

In questi giorni si consuma anche un’altra vigilia, quella della famigerata rivoluzione dei forconi forcaioli che dovrebbe avverarsi, secondo siti ufficiosi e canali ibridi tra il pentastellarismo, il casapoundesimo e le quote latte proprio a partire da domenica sera, ovviamente il risultato delle primarie credo sia indifferente sugli umori di questa fetta di popolazione. Una data attendibile tanto quanto quella dei Maya lo scorso dicembre. E uno viene a conoscenza di queste notizie quando sonda la dialettica proprio dei v per vaffanculo su Twitter. Ecco, non fatelo. Non fatevi mai tentare dall’intavolare scambi di tweet con i grilleschi. Come i più biechi squadristi di un tempo verreste subito accerchiati e messi all’angolo. Che poi a me, a quarantasei anni, sa che mi frega di spiegare a sti pischelli invasati che la legge elettorale non si può trattare come una scia chimica qualunque. Per fortuna ci sono isole di serenità anche sul web, così alla fine torno nel mio socialino preferito che è FriendFeed, dove alla peggio c’è qualche cuperliano e la cosa si chiude in caciara. Ah, la sicurezza dei propri simili.

E ora lasciamo finalmente spazio ai comportamenti più truci che avete tenuto da adolescenti, ma giusto perché sono reduce da una conversazione di quelle di circostanza con il mio barbiere, stimolata da un argomento trattato a Studio Aperto dopo la rivoluzione dei forconi della settimana prossima. Il mio barbiere, mentre mi sistemava i capelli, mi ha raccontato che suo figlio di diciassette anni e mezzo ha preso ad andare in discoteca con gli amici. Un ragazzo che non ha mai avuto sin’ora la passione per i locali notturni si è lasciato convincere dalle turpitudini dei coetanei e ora fa come la massa. Il mio barbiere si alterna con i genitori degli altri ragazzi nell’accompagnarli alle ventidue davanti al locale – devono attendere una media di un’ora di coda per superare il verdetto degli addetti alla selezione all’ingresso – e nell’andare a prenderli alle quattro. Il ragazzo, che ha un ottimo rapporto con il padre, gli racconta anche di quante ragazze riesce a limonarsi nel corso della serata, almeno due o tre. Ragazze che limonano e si fanno tocchignare con facilità, oltre a sfoggiare abbigliamenti (a detta del mio barbiere che è un testimone oculare) estremamente succinti e provocanti.

Avete capito dove voglio arrivare. A diciassette anni e mezzo, in Paesi in cui le fasi della vita hanno una differente scansione rispetto a qui, si rischia di inventare social network da fantastiliardi. Io a diciassette anni e mezzo mi riempivo di canne (scusa mamma se lo vieni a sapere così) e pensavo solo a suonare e invano a quante ragazze avrei potuto rimorchiare suonando e offrendo loro una canna. Il figlio del mio barbiere e i suoi amici fanno a gara a quante limonate riescono a collezionare. Mia figlia tra sette anni e mezzo avrà questa fatidica età, e tutti voi dovreste impegnarvi insieme a me a cambiare il mondo in modo che non solo mia figlia non vorrà andare in discoteca, ma troverà un mondo senza discoteche in cui i suoi coetanei avranno altro da pensare che tentare di metterle la lingua in bocca. Posate i forconi e pensate a un obiettivo diverso per rivoltarvi. Ma fate presto.

Ma per fortuna che c’è mia moglie che mi tranquillizza sempre in questi frangenti. Mi porta come esempio la figlia di una coppia di amici, gente molto più impegnata di noi che siamo abbastanza rilassati da questo punto di vista, una ragazza che a diciassette anni e mezzo ha trascorso buona parte dell’estate in un campo di volontariato e assistenza al seguito di una onlus in Romania. Ecco, la morale è che per un figlio di barbiere discotecaro c’è un adolescente con il sale in zucca, come per ogni grillino che si trova in rete c’è un interlocutore ragionevole. Io, per me, nel dubbio, la chiudo qui, anche se non mi avete ancora detto come sto con i capelli corti.

prendiamoli a testate nazionali

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A pranzo alla mensa di uno dei principali gruppi editoriali, ospite di un amico, mi appunto mentalmente due particolari che so che prima o poi utilizzerò da queste parti. Delle esperienze non si getta via nulla, come il maiale. Il primo è la visione di Paolo Mieli, così è facile anche capire a casa di chi sto scroccando un piatto di zuppa di lenticchie. Lo seguo in fila alla cassa con un completo blu. Il direttore prende il vassoio e si mette in cerca, come tutti, di un tavolo libero.

Noto quindi un paio di dipendenti più giovani della media motivati verso il comune obiettivo. Due venti-e-qualcosenni che si fanno spiegare dal barista come funziona il meccanismo della mensa, probabilmente sono alle prime esperienze non solo professionali. Valutano se prima occorra munirsi di scontrino o del vassoio, se la macedonia sia alternativa al dessert o al caffè. Considerando il momento storico, mi viene voglia di andare a disturbarli per congratularmi con loro di essere lì e di esserci da poco, ma non vorrei generare ulteriore confusione nel loro tentativo di osservare la procedura, sapete come sono i primi giorni negli ambienti professionali inesplorati. E vorrei anche estendere loro i complimenti per la tenacia con cui probabilmente ci sono arrivati. Ci sono più possibilità di vincere un conclave in Vaticano che di lavorare nei media e nei giornali di quel livello, quindi è encomiabile che ci siano ancora giovani che scelgono volontariamente una vita di stenti, precariato e incertezze, e credo di essere stato fin troppo clemente nell’attribuzione dei termini per qualificare il settore.

Mentre li osservo sfoggiare il giovanilismo in eccesso del loro outfit – una delle peggiori piaghe del nostro tempo che imbruttisce individui di ogni età, io parteggio per il completo blu di Paolo Mieli – mi sovviene la consueta metafora dei funamboli su un crepaccio per ottenere la più opportuna rappresentazione visuale di un lavoro molto difficile che è già difficile in partenza, quando cioè lo cerchi. Tutti vi ambiscono non solo perché si sta seduti, uno può farlo un po’ come vuole, dove e quando preferisce. Senza contare che ogni volta che un mezzo di comunicazione diventa popolare tutti fanno credere che c’è bisogno di gente specializzata, questo è successo prima con i giornali poi con la radio quindi con la tv e ora sul web. Dev’essere così che funziona l’economia. Ma lo spunto che mi ha dato l’opportunità di raccogliere queste riflessioni l’ho avuto ieri sera, quando durante il programma di Rai3 Gazebo sono stati trasmessi alcuni stralci dalla manifestazione dei pentastellari di domenica scorsa a Genova, iniziativa nota ai media – demerito quindi anche degli operatori di stampa e tv – come vaffaday o qualcosa del genere.

In più occasioni, ma non è la prima volta che accade, il movimento mascherato dal basso che più basso non si può ha dimostrato una paura immotivata  nei confronti dei giornalisti, altrimenti non si spiegherebbe l’accanimento con cui in ogni occasione vengono additati dai megafoni al soldo della coppia di capelloni canuti come i primi della lista dei nemici del popolo, mettendo nel mucchio dall’opinion leader più sovraesposto – uno come Paolo Mieli, per esempio – all’articolista meno blasonato, in un settore in cui oggi tra rete, freepress e cani sciolti c’è un livello di confusione senza precedenti.

Nella mia esperienza quotidiana, ma se cercate in giro troverete conferma di ciò, il numero di lettori di quotidiani è soggetto a un calo mai visto. Fino a qualche anno fa in una qualsiasi carrozza sul treno dei pendolari del mattino qualcuno con il Corriere o Repubblica si intravedeva. C’era persino chi ti sbatteva in faccia la sua, di faccia, una faccia molto da cazzo coperta dal Foglio, dal Giornale o da Libero. Molti di questi sono stati soppiantati con altrettanta cieca supponenza dai lettori del Fatto Quotidiano, e come non mai abbiamo cominciato a percepire il vento della cospirazione durante le trasferte quotidiane, anche con i finestrini aperti e lontano dalle toilette chimiche. Dalle ultime elezioni a questa parte, non so se sia casuale, mi accade di trascorrere intere settimane senza vedere nemmeno un lettore con un qualsiasi quotidiano aperto davanti. Ecco, il fatto che M5S abbia così paura dei giornali, oggi che i giornali non se li incula più nessuno, rimane un’incognita.

che volete che vi dica

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Non faccio il lavoro per il quale ho studiato, e su questo io e la maggior parte di voi siamo nella stessa barca. Si tratta di una visione della vita che appartiene a un tempo che non esiste più se non in qualche canale tv tematico di storia e sociologia del novecento. Quelli che venivano contattati dalle aziende ancora prima di terminare gli studi, ve li ricordate? Da ragazzino mi stupivano i fratelli e le sorelle maggiori dei miei amici per i quali veniva allestita questa autostrada esclusiva a mille corsie per il futuro, una delle tante disillusioni che le generazioni come la mia, identificate con le incognite che si usano nelle equazioni, ha dovuto sopportare. Ma quello su cui volevo soffermarmi è che uno dei limiti principali di tutto ciò è che poi ci si trova a dover argomentare scelte, approfondire tematiche o anche solo scambiare opinioni su questioni intorno alle quali non si può contare su un’adeguata preparazione teorica. Che magari poi non serve, però avere un background formativo sotto i piedi non guasta, ti fa sentire più sicuro se non addirittura legittimato da un ente certificante riconosciuto. La scuola, l’università, un istituto professionale. Ora, mentre allestisco i preparativi per il ventennale di vita in ufficio da seduto con un computer davanti acceso per otto ore al dì, ho tutte le carte in regola per definirmi un senior, tirarmela da professionista con lunga esperienza alle spalle, posso dire di aver imparato qualcosa e sono in grado non solo di sostenere confronti ma anche di fornire consulenza. Chiedetemi un parere e potrete sincerarvene di persona. Ma vi assicuro che in passato il dover in alcuni casi muovermi dietro le quinte dell’incompetenza, mandato allo sbaraglio da datori di lavoro senza scrupoli oppure solo quando è stato indispensabile improvvisare perizia mosso da istinto di sopravvivenza, ho vissuto momenti in cui ho sudato freddo. Non ho sufficiente pelo sullo stomaco, di persona sono trasparente e sono facile a essere sgamato quando dico cose non vere. Sono bello e umile. E lo scrivo perché voi non siete permeabili alle fregnacce altrui, mentre io mi bevo qualunque cosa.

Allo stesso modo, le volte in cui ci si pensa due volte prima di intervenire in discussioni su cui si è impreparati, mi riferisco alla vita privata, sono frequenti se avete la fortuna di avere intorno persone di intelligenza non comune. Già la latenza comunicativa dovuta ad abitudini lavorative e non in cui si predilige il confronto in differita degli strumenti di messaggistica digitale mette alla prova le abilità dialettiche e retoriche, almeno per me è stato così. Voglio dire, magari riuscissi a parlare in tempo reale come anche solo riesco a mettere insieme parole per iscritto, con tutto il tempo per pensarci su. In più, se siamo chiamati a esprimerci su cose che non sono così alla nostra portata, che non mastichiamo con convinzione, su cui non siamo sufficientemente informati, lo sforzo che ne deriva è sovrumano e, in taluni casi, latore di stress emotivi. Ed è meglio chiamarsi fuori che fare la figura del cialtrone.

esclusivo: ecco la verità sulle intercettazioni

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Tra le ennemila cose di cui si lamenta la gente al bar, consumando un veloce caffè all’alba con i colleghi prima di mettersi davanti a Facebook durante l’orario lavorativo, ci sono giustamente i fastidi da privacy violata. Ma come, una mette un suo selfie tutto scollacciato per impressionare la propria fan-base di spasimanti e subito c’è il collezionista di porno amatoriale che prontamente se lo scarica e se lo condivide con il mondo sul suo sito personale pieno di foto di gente comune che – cosa assolutamente naturale – si mette volontariamente in reggipetto e mutande sui social network? Che tempi, signora mia.

Ma anche l’interessato interlocutore di questo sfogo da tempi moderni ha di che lamentarsi contro il web impiccione. Dice che qualche giorno fa aveva intavolato un’accesa discussione con un paio di colleghi in metro sull’inflazione dei job title nel nostro sistema produttivo ed economico. Durante quel dialogo tra pendolari lui sosteneva che al giorno d’oggi tutti sono manager di qualche cosa. Basta sorteggiare a caso un biglietto da visita e leggere l’incomprensibile carica in inglese seguita dall’universale ruolo di manager, la percentuale di non capire che cosa uno fa di lavoro è elevatissima.

I tuttofare che girano per le sedi delle grandi aziende con la ferramenta appesa alla cintura come Dwayne Schneider, il portiere del telefilm “Giorno per giorno”, ora si chiamano Building Manager e Facility Manager. I tecnici il cui intervento viene richiesto dalle segretarie quando si inceppa la carta nella stampante o finisce il toner si chiamano IT Manager come chi gestisce il Data Center della NSA, e quando qualcuno chiede a uno di questi responsabili di quante persone è composto il suo team, può mostrargli cavetti, mouse e periferiche varie. Ma le persone con cui derideva questa impropria deriva delle posizioni apicali non erano poi così concordi, probabilmente – secondo quanto stava raccontando l’uomo alla aspirante pin up da like di autoerotismo digitale – anche loro avevano qualche scheletro nell’armadio. Basta pensare alla facilità con cui è possibile procurarsi biglietti da visita oggi, ogni due per tre cancelliamo spam di promozioni a prezzi stracciati, e il fatto che siano così frequenti implica che c’è domanda di cartoncini di auto-promozione che poi uno impiastra a piacimento.

Ma tornando al caffè e alla privacy, l’uomo sostiene di aver letto uno stralcio di quella conversazione tenuta sulla metropolitana su un blog, come se qualcuno assistendo al dialogo avesse tenuto a mente i passaggi salienti e li avesse riportati in forma di racconto. Cosa che sembra aver scoperto per caso. Arrivato in ufficio, forse con lo scopo di argomentare meglio la sua tesi sui vari *.manager che si trovano in circolazione, aveva googlato qualche parola chiave sull’argomento e si era trovato di fronte a una versione in differita e piuttosto fedele di quanto accaduto qualche ora prima, sulla linea gialla. Che cosa assurda, commenta la ragazza dopo aver ringraziato il collega per il caffè offerto, magari in proiezione di una futura amicizia su Facebook e il conseguente accesso alle foto di lei in costume da bagno. Come se ci fosse qualche folle maniaco che vive prestando attenzione a quello che dicono gli altri e facendosi gioco della gente che, ignara, si ostina a socializzare nella vita reale.

cose da uomini o uomini con le loro cose

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Non possiamo certo dirci dolcemente complicati, anche se certe giornate amare, lascia stare, le abbiamo anche noi. E per continuare con Ruggeri – perché lo sapete vero che la canzone non l’ha scritta Fiorella Mannoia – ve lo posso confermare: siamo così. Anche da piccoli. Con certi attitudini tipicamente maschili ci cresciamo fin dalla culla. Ne è una prova Federico, un compagno di classe di mia figlia per cui lei sembra avere a fasi alterne cottarelle e ritorni di fiamma. Sono dell’idea che gli amori che si consumano in quarta e quinta elementare non sono da sottovalutare, anche se i genitori sono costretti a ostentare distacco per non drammatizzare in eccesso. Sono quindi da seguire con attenzione, il che vale doppio per i papà, da sempre tacciati di essere possessivi con le proprie figlie. Non ditelo a me, che sono sono possessivo persino con i miei gatti.

Comunque la cotta che mia figlia si trascina dall’anno scorso per Federico da qualche tempo non è più ricambiata. Colui che pretende di superare il sottoscritto nella classifica degli uomini di riferimento dice però a tutti di essere innamorato di qualcuno, ma non vuole rivelarne il nome prima di sapere se è contraccambiato. Avete capito la dinamica? Quanti maschi maggiorenni e vaccinati avete incontrato che si comportano così?

Questo bellimbusto alla fine ha fatto il nome della bambina di cui è innamorato, che non è quello di mia figlia ma di una comune amica. Il mio stato d’animo è stato un misto tra un “come si permette” e un “meglio così”. Ma questa gli ha dato il due di picche perché invece ama uno che si chiama Manuel. Federico così è tornato sui suoi passi e ha detto che allora avrebbe amato mia figlia. Avete capito l’antifona. Prima vuol essere sicuro di non essere deluso, poi passa a quella dopo della lista. Mia figlia, non ancora avvezza alle schermaglie amorose, ha frainteso positivamente il gesto così le ho dovuto spiegarle come funzionano le cose. Essere la seconda scelta e un ripiego non fa per lei, è l’ABC di quell’orgoglio che conosco bene.

Quello che intendo è che io patisco persino quando mia moglie chiede al vicino di casa un aiuto per cose tipo fissare il bastone delle tende. Già, io non so usare il trapano (doppi sensi a parte). Me la cavo bene con queste cose qui, blog, socialini, parlare di figli, e informatica, ma quando si tratta di fischer e tasselli a espansione non fate conto su di me. Lei mi chiede allora come penso di risolvere l’impasse, di certo non si può rintracciare e pagare qualcuno solo per fare un buco nel muro ogni volta che c’è da appendere qualcosa. Ma lo sapete. Non è da noi maschi chiedere informazioni o ammettere i propri limiti nelle funzioni che la natura ci ha assegnato: la riproduzione, il barbeque, l’orientamento, il coraggio, la manutenzione della casa, i motori. Forse nessuno ci educa da piccoli al contrario, forse c’è un qualcosa che coviamo dentro che sprigiona questo tipo di cose, scorie che almeno con l’intelligenza e l’età dovremmo provare a espellere in qualche modo.

un post sui poster per i posteri

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Non ho nessun problema a confessarvi che se potessi mi riempirei le pareti di casa e dell’ufficio di grandi foto e manifesti, prima che di quadri, in alcuni casi molto meno costosi. Poster delle mie band preferite, come potrete immaginare, ma anche stampe di arte contemporanea come quella che ho acquistato al Bauhaus Archive di Berlino e che ora è in bella mostra nel salotto di casa mia. Fin qui non ci sarebbe nulla di male se l’autore di questo post sui poster musicali per i posteri non avesse quarantasei anni.

Che volete che vi dica. Ho cominciato presto con uno dei Beatles e la arcinota riproduzione bicromatica del Che su sfondo rosso che va sempre dritto fino alla vittoria, chiedendoli ai miei genitori come regalo in prima o seconda media. Avevo trovato poi un bel manifesto di Bob Marley che imbraccia la sua Gibson nel disco “Live” che avrei acquistato di lì a poco, e insomma in quattro e quattr’otto avevo occupato tutto lo spazio di mia competenza delle pareti che dividevo con mia sorella, più orientata su Miguel Bosè e Baglioni. Nel corso degli anni ovviamente le effigie degli eroi appesi si erano avvicendate con tutta l’invasione post-punk che non sto qui a raccontarvi, alcune addirittura marchiate dal logo di “Ragazza in” da cui non mi sono mai dissociato.

Sta di fatto che, quando sono andato a vivere da solo, i miei non si sono mai preoccupati di smantellare quel sacrario dedicato alla musica new wave, una dimenticanza voluta che mi ha causato non pochi equivoci. Un esempio? Avevo parcheggiato temporaneamente nella mia ex cameretta alcune cose come il mio Mac PowerPC 4400 tra un trasloco e un altro, in pieni anni 90. Ma dovendolo utilizzare per registrare la voce di uno speakeraggio per un cd-rom a cui stavo lavorando, e avendo organizzato direttamente lì la sessione di recording convocando un noto attore di teatro per ragazzi, costui mi umiliò senza ritegno avendo frainteso che quello fosse realmente il mio domicilio. “Ma questa è la cameretta di un adolescente!” mi apostrofò tutto indignato, come se abitassi davvero ancora lì a trent’anni. Vaglielo a dire ai miei, avrei dovuto rispondergli. Ma poiché lo pagavo a tempo non ritenni conveniente intavolare scuse o spiegazioni in orario lavorativo, e l’episodio non ebbe seguito.

Oggi conservo ancora molti manifesti che ho accumulato nel tempo sottraendoli a luoghi pubblici prima o dopo i concerti. Ma, come è facile immaginare, la scala delle priorità esistenziali mette queste futili reliquie di un passato bello che finito all’ultimo posto, ben oltre le cartelline dei disegni dell’asilo nido dei bambini, persino sotto i moduli delle tasse degli ultimi cinque anni, addirittura meno importanti delle varie vestigia iconografiche delle relazioni sentimentali precedenti, per chi non si astiene – come me – dal passarle nel distruggi-documenti insieme ai progetti andati in fumo.

Per dire, ho un paio di poster veramente belli che non stonerebbero in cameretta di mia figlia, se solo avesse gusti musicali un po’ più raffinati di quello che il mercato le impone. Conservo persino il poster maledetto. Lo chiamo io così, ma anche i miei se lo ricordano. Una gigantografia di Bowie che vegliava sui miei sonni di tredicenne e che mi era piombata sulla testa proprio la notte in cui mi ero addormentato terrorizzato da un film di paura di cui non ricordo più nemmeno il titolo, tanto ho cercato di esorcizzare quell’episodio traumatico. Esorcizzare? Vuoi dire che…?

ecco perché si dice “fare le corna” come scongiuro

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Il mio migliore amico di allora mi ha appena ricordato di quando si era giocato la benevolenza di un potenziale suocero dopo avergli detto “buona pesca” senza sapere, non essendo del mestiere, che un augurio di questo tipo ai pescatori è vietatissimo, in quanto latore di eventi nefasti che vanno da un semplice ma oltremodo frustrante rientrare in porto a mani vuote fino alle peggio sciagure da mare aperto, tempeste incluse.

Il potenziale suocero aveva lanciato uno sguardo carico d’odio alla figlia traducibile in “che cazzo dice questa leggera di fidanzato che ti sei scelto” e lei si era subito sentita in dovere di dare al suo futuro ex amato spiegazioni di quel gelo famigliare. Son cose che non si dicono perché portano iella. Ma lui l’aveva visto abbigliato con una giacca tecnica – un parka da lupo di mare verde mod che gli invidiava tantissimo – imbracciare l’attrezzatura necessaria a coltivare (per modo di dire, essendo l’acqua e non la terra il suo elemento primario ) l’hobby da weekend lontano dalla moglie e con un’espressione così carica di aspettative che raggiungerlo con il buon auspicio di far fruttare i propri sforzi gli sembrava il minimo. Si sbaglia anche così, quando si pensa di agire nel giusto.

E per sottolineare il fatto che tra le persone di intelligenza e buona cultura nessuno è superstizioso, è bene ricordare che il “buona pesca” in realtà gli si era ritorno contro. Se il potenziale suocero non aveva aumentato di una unità ittica il suo bottino medio da pescatore principiante, lei aveva appunto mollato il mio migliore amico di allora qualche settimana dopo come spesso accade per gli amori tra ventenni, che le prime settimane sembrano dover durare in eterno e poi alla prima verifica dimostrano tutti i loro limiti, soprattutto se uno dei due finisce a letto con un altro.

Ma a lui piacevano le ragazze molto alte come lei, il che peggiora la condizione di sedotto e abbandonato. Una ragazza molto alta la vedi ovunque svettare sugli altri, e quando si accompagna a un partner che non sei tu – di norma della stessa metratura – soprattutto dopo che lo sei stato tu è molto frequente e facile individuarla da distante, aumentando così le possibilità di struggimento da gelosia. Poi da vicino lei ostentava nella calca quei suoi capelli chiari, lisci e lunghi così difficili da raccogliere tanto erano sottili, metafora di un comportamento standard come se fosse naturale chiudere storie e aprirne altre, come muoversi tra stanze comunicanti, in cui l’unica accortezza è quella di non far sbattere la porta dopo aver spalancato la finestra per far sparire quella puzza di chiuso. Così la osservava allontanarsi e basta, gli sembrava poco opportuno salutarla con un augurio di buon qualcosa. Ma solo per scaramanzia.

studente è un nome primitivo o derivato?

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Pensavo che con tutto quello che ho studiato sarei stato un valido punto di riferimento per la carriera scolastica di mia figlia, avrei potuto supportarla nelle attività previste dai programmi e subentrare alle lacune didattiche dei suoi insegnanti. Pensavo che con me avrebbe avuto l’opportunità di approfondire temi, applicare regole, esercitarsi a casa per comprendere appieno gli argomenti e le materie affrontate in classe. Ero convinto che stando al suo fianco avrei stimolato la sua sete di curiosità con la mia cultura frutto di titoli di studio, libri letti, esperienze professionali. Pensavo tutto questo. Invece la mia utilità è già stata superata e siamo appena all’analisi grammaticale.

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mai una foto di una no-tav che bacia un copywriter, per esempio

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Io per dire, pur considerandomi un privilegiato perché lavoro al riparo dalle intemperie e seduto in un ufficio che ha tutti i confort, colleghi a parte (scherzo eh) lamento la mancanza di fringe benefit, lacuna che riduce all’osso la mia retribuzione mensile su cui, visti i tempi e per rispetto di ciò che si vede in giro, non ho comunque nulla da recriminare. Poter limonare con una manifestante avvenente, anche se con la protezione del caso, anzi, del casco, è un bene accessorio che non rientra tra i vantaggi gratuiti del mio settore che al massimo può aspirare ai ticket, qualche gadget di risulta tra quelli realizzati dai nostri clienti, i buffet a scrocco agli eventi e poco altro. Lo so, noi impiegati non dovremmo metterci strani grilli per la testa. Ma la colpa non è dei fotografi, ci dev’essere qualcuno che alla vigilia di una manifestazione, che già si presume a rischio di scontri, detta l’agenda setting degli argomenti che tirano tra immortalare tra coloro che tirano invece estintori e altri oggetti di uso comune. La moda del momento sono i baci su sfondo di tafferugli, sull’onda della prima foto di qualche anno fa, che poi secondo me era una scopiazzatura di un celebre video dei Chemical Brothers, o almeno dell’atmosfera del romanticismo nella battaglia di quella clip. Da allora è tutto un fiorire di smancerie tra fazioni opposte che, come ho avuto più volte modo di dire, hanno rotto il cazzo tanto ormai sono prevedibili e non smuovono più un sentimento nemmeno tra i più esagitati. Ma, ribadisco, mai che succeda a uno che fa un lavoro normale, che so, una pendolare che si appende alle labbra di un controllore per provocazione o solo per la gioia di essere giunta puntuale a destinazione.

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