nove nove nove nove nove…

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Le maestre dicono che nel primo quadrimestre non danno i dieci anche a chi come te li meriterebbe visto che pensano tu sia molto brava e, come si diceva una volta, diligente. Così usciamo dalla consegna delle pagelle e dal colloquio individuale davvero fieri e contenti ma non è tanto per i voti, è proprio sentir parlare così bene di te e in questi termini. Al di là del profitto sono il comportamento, la cura e il modo in cui ti rapporti con gli altri che ti viene riconosciuto, ma il merito è tutto tuo. Sappi che è davvero un piacere essere tua madre e tuo padre. Grazie.

brit post

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Toh, i Blur, ai Brit Awards 2012.

in prima linea

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La fermata del tram coincide con un incrocio dal quale si imbocca una rotonda piuttosto grande e trafficata, capire la dinamica dei semafori non è un gioco da ragazzi, probabilmente nemmeno da tramvieri, sicuramente non da passeggeri. Un ragazzo un po’ strambo occupa quasi due posti sulla panca di legno con il suo giubbotto overzsize e ascolta una radio commerciale a tutto volume dal telefonino, gli auricolari poco isolanti non lasciano dubbi. Ogni tanto risponde allo speaker guardando nel vuoto e parlando a voce alta, ma se non gli fai caso potrebbe essere una persona qualunque intenta in una chiamata, le cose che dice non sfigurerebbero con un interlocutore dall’altra parte della conversazione.

Il tram è immobile da un paio di minuti buoni, dal bar di fronte alla fermata esce un signore vecchissimo ma distinto e, soprattutto, agile, che si affretta non appena nota il mezzo con le porte aperte e in pochi balzi attraversa il controviale, sale sul marciapiede e si aggrappa alla barra di sostegno dell’ingresso anteriore per tirarsi su. Una suora, che stanzia a fianco del conducente, gli porge la mano ma lui fa un inequivocabile cenno, no grazie me la cavo da solo e poi mai da una donna per giunta suora, affronta l’ultimo gradino alto quanto il doppio della sua falcata e si mette a sedere. Una signora di mezza età distoglie l’attenzione da uno spesso tomo nella cui lettura è immersa per seguire gli sviluppi, ma ha chiaro scritto nella sua espressione che è più forte di lei preoccuparsi di chi le sta intorno, chiederebbe ad ognuno se ha bisogno di qualcosa, e solo nel caso fosse tutto sotto controllo riprenderebbe a fare quello che stava facendo, ma lasciando una sonda in stand-by, pronta a cogliere eventuali anomalie.

Dal bar esce di gran carriera un giovane cameriere. Guarda alla sua destra, alla sua sinistra, poi si precipita anch’egli sul tram. “Avvocato, avvocato, il suo resto!”. L’anziano signore che non si è ancora ripreso dal gesto atletico si apre in un sorriso e tende il palmo a recuperare una manciata di monete dal ragazzo in maniche di camicia e grembiule. “Grazie, è stato gentilissimo”. Ma proprio in quell’istante il conducente chiude le porte e mette in marcia il veicolo. Il cameriere sorpreso dalla manovra improvvisa e dallo strattone fa un passo laterale per salvare l’equilibrio e soffocare la sorpresa per reagire avvisando qualcuno che lui è lì per caso, deve scendere, è senza biglietto. Ma è questione di un attimo, e il tram ha già oltrepassato l’incrocio con il suo eloquente scampanellio. A qualcuno scappa da ridere.

L’avvocato si rammarica del sacrificio del suo benefattore, che si è portato immediatamente all’uscita dopo aver prenotato la fermata, commentando l’accaduto alla persona seduta al suo fianco, un tizio sulla quarantina che ha appena estratto da una borsa un po’ malconcia una bomboniera in tulle arancione e cerca di districare il fiocco che la chiude. Quindi dipana l’incastro di veli colorati e si porta un confetto alla bocca, poi accenna di offrirne uno all’avvocato ma ci ripensa, probabilmente porta la dentiera, meglio non metterlo in imbarazzo.

riavvia il sistema

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L’ultima volta che mi è successo mi sono messo a dormire, erano le tre del pomeriggio ma mi sono coricato lo stesso e ho dormito tutto il giorno e la notte fino alla mattina successiva, non mi sono svegliato nemmeno per la cena. Avevo diciassette anni in meno di ora. Ogni tanto aprivo gli occhi ma capivo di non aver avuto sufficiente ristoro, quindi li chiudevo e incredibilmente mi addormentavo di nuovo, come se fossi in grado di comandare perfettamente il fisico. In quel periodo però soffrivo di incubi perché passavo le giornate a macinare codice e di notte sognavo di risolvere i miei problemi personali con le funzioni e le routine, se stai per perdere il lavoro fai un ciclo for(i = 1; i <= myChances; i++) in cui la variabile myChances contiene il valore di quanto hai seminato e quello che puoi raccogliere come ti insegnano i grandi saggi, quelli che ti danno i consigli perché non sono nella tua situazione. L’affitto del monolocale e le rate del PowerPC erano il rimando alla realtà, ogni volta in cui in quel loop onirico si ripartiva con una volta in più c’era una minima consapevolezza che essere un programmatore non retribuito non ti risolve nulla. Questo per dire che aspettare immobile non era tanto una forma di protesta contro gli eventi, ma un modo per ricominciare almeno con le pile cariche. Ma avrei continuato così se non mi fosse capitata nel giro di qualche giorno una nuova occasione, quella che stavo aspettando, perché è incredibile ma a un certo punto succede qualcosa di bello e ti stupisci che agli altri invece no, era squillato il telefono, ero stato convincente con un nuovo datore di lavoro, e da allora fortunatamente non mi sono più fermato. Ora non ho un affitto perché nel tempo sono riuscito ad acquistare una casa, non ho rate perché il Mac costa troppo e mi sono convertito ai più economici PC, e soprattutto posso affrontare un periodo di ricerca di un nuovo impiego non più da solo. Tenere famiglia, come si usa dire, è una preoccupazione in più, ma in questi casi è anche un bel genere di conforto.

alle calcagna

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A dieci minuti dalla partenza sarebbe già tornata indietro, il panorama dal pullman era tutt’altro che interessante e l’unico diversivo possibile era spostarsi verso i sedili in fondo come tutti. Ma l’ultima volta che aveva viaggiato dando le spalle al senso di marcia aveva sofferto, la nausea e tutte le conseguenze delle strade tortuose. Era passato un anno, ma meglio non rischiare. La fronte appoggiata al vetro, fuori l’autostrada e il paesaggio indefinito tra nebbia, oggetti in movimento e i riflessi da fuori, giocare con le pupille finché non fanno male. Ma dall’altra parte, il posto a fianco, sarebbe stato peggio. Era finita per caso vicino a una ragazza dell’altra sezione, chiusa nel suo bozzo fatto di kefiah e occhiali da sole, in una postura inequivocabilmente da sonno. Sperava nel ronzio dell’automezzo e nei brevi ma ripetitivi loop dei rumori, l’alternarsi dei guardrail e le barriere di insonorizzazione per i centri abitati, i veicoli in fase di sorpasso, l’asfalto drenante e i giunti sui viadotti. Da dietro, nella fessura tra i due poggiatesta, spunta una mano con una cuffia. Tieni, io faccio un pisolino, le dice il compagno di classe seduto dietro, che poi siede dietro di lei per davvero anche in aula, ma in prima superiore non ci si conosce per nulla e poi c’è quella cosa alla gola che non fa uscire nemmeno una parola. Non aveva mai posseduto un walkmen in vita sua, non aveva mai pensato nemmeno a farselo regalare perché la musica lei l’ascoltava con la porta chiusa della camera e le luci spente, la stessa cassetta ogni sera con cui prendere sonno. Per intuito capisce come si accende mentre l’amico da dietro le regola le cuffie sulle orecchie lottando con i capelli informi e i muscoli irrigiditi dall’imbarazzo e poi si getta a rannicchiarsi nel suo sedile. Qualche secondo e inizia un pezzo, nella fessura trasparente si legge una parte dell’etichetta della Tdk C90 scritta in corsivo a pennarello blu in cui si intuisce solo una parola che finisce per “dinista”. Rimane a bocca aperta, si gira per dirgli qualcosa, ma lui dorme già.

ma che mu

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Le domande di Cesare Picco su Il Post, visto che di musica, in Italia, se ne dovrebbe occupare come minimo Chi l’ha visto.

Un appello non è stato fatto dal palco di Sanremo. Dal palco dal quale si vende in mondovisione l’immagine della nostra musica popolare, doveva partire una semplice domanda: perché nel nostro paese non si insegna regolarmente la musica? Un piccolo quesito magari anche a bassa voce, senza neanche aprire discussioni o siparietti abbassa-share. Di questo avrebbe magari dovuto parlare Celentano. Per poi mettersi a cantare e a posto così. Pensate che rivoluzione, parlare di musica a Sanremo.

Il resto qui.

puerto escondido

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Non sei il primo che dice di invidiarmi l’aver trascorso un’ampia parte della mia vita in una città affacciata sul mare. Chissà quante volte sarai andato al tramonto a rilassarti camminando sulla spiaggia, chiudere gli occhi e ascoltare le onde che si infrangono sugli scogli, sedersi sulla sabbia e aspettare che acqua e cielo finiscano per confondersi l’un l’altro, seguire i voli dei gabbiani. A dirti la verità, mai. E faccio fatica a condividere l’idea romantica che tu e tutti gli altri che quando sanno che ho origini liguri si affrettano a commentare il salto in qualità negativo che ha compiuto la mia vita, avete dei luoghi in cui sono nato e ho vissuto, perché avere a disposizione una costa non significa essere alle Seychelles. E non è nemmeno il fatto che avere qualcosa di speciale sotto mano ne riduca il fascino. Ma non ricordo di aver mai pensato al mare – quel mare – in questi termini, un luogo in cui scaricare tensioni e liberare la mente. Anzi. A Ponente, poi, non c’è metro in cui il panorama non sia sgombro di ciminiere a strisce o navi da carico che transitano non così tanto al largo. Poi basta voltarsi e l’incuria con cui si è costruito a ridosso delle spiagge è più che esemplare, in quanto a cattivo gusto. A questo, in estate, si aggiungono i chilometri di stabilimenti balneari che si susseguono disordinatamente, di rado si trova un metro di natura non dico incontaminata, ma almeno non affidata a privati con concessioni commerciali da barzelletta. Insomma, a mettere i piedi nell’acqua al tramonto si corre il rischio di chiudere la giornata innervosendosi, quindi è meglio fare come fai tu, provare l’ebbrezza della riviera da milanese un paio di weekend ogni tanto, pronto a rimetterti in coda e tornare nella landa delle polveri sottili.

santigold – disparate youth

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con tutti i confort

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No, non era esattamente così. Intanto l’interno su cui aveva sempre fantasticato era diverso. Ripensando all’edicola della giornalaia con il cappello di lana colorato, dentro avrebbe avuto a disposizione tantissime cose da leggere, fumetti e settimanali di musica pop per non parlare di alcune riviste da adulti che avrebbe potuto esaminare di nascosto dallo sguardo dei clienti una volta chiusa la saracinesca e riposti tutti i portariviste dentro, anche se non arrivava a capire che, una volta riempita quella piccola postazione con tutto quello che c’era fuori, non ci sarebbe stato più spazio per nessuno.

Tuttavia quella rimaneva la più ambita residenza in cui sognava di vivere da grande, quando tornava da scuola e si affacciava oltre la bacheca delle figurine senza però acquistare nulla. Un posto su misura, anche senza lo spazio per sdraiarsi e dormire o una cucina per prepararsi il cibo per non parlare del bagno dove fare quelle cose che si fanno in bagno. Bastava una sedia e la stufetta elettrica per scaldarsi nella brutta stagione.

Se proprio nessuna edicola fosse stata disponibile si sarebbe accontentato di un confessionale, uno di quelli dinanzi ai quali si inginocchiava per inventarsi peccati da espiare con preghiere imparate a memoria a catechismo da Suor Emma. Le tendine e il cuscino porpora sul sedile, la penombra e l’odore d’incenso, il raccoglimento e l’estasi, anche se il tutto soggetto agli orari della parrocchia. Anche quello rientrava nei suoi parametri di abitazione, un parallelepipedo stretto e alto a sufficienza per stare seduto a leggere e a consumare cibo che qualcuno gli avrebbe portato, con regolarità agli orari dei pasti.

E ora, costretto per due ore in questo posto di guardia di fronte alla porta carraia di una caserma, riscaldato a malapena da una maglia di lana e con la neve fuori, un fucile in mano con cui aveva poca dimestichezza anche da scarico, in un cubicolo poco più grande di una cabina telefonica di quelle che ormai erano tutte a schede e che usava per chiamare a casa, ora d’improvviso gli era tornato in mente il ricordo di quel modo particolare di intendere il posto in cui aveva sognato di stabilirsi, in un momento remoto dell’infanzia. E non era esattamente così. Ma in quella microsocietà che stava sostituendo temporaneamente il suo mondo, che era la caserma in cui prestava servizio di leva, in quel luogo autorefenziale che viveva di sé e in cui tutti facevano tutto insieme in pochi metri quadrati con un lessico interno inaccessibile da fuori, solo in quel momento e in quelle condizioni riuscì a comprendere come mai si fosse riaccesa proprio lì la sua smania di chiudersi in un luogo ancora più piccolo.

l’astronauta

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Mia figlia e la sua compagna di classe/amichetta del cuore non riescono a parlare e camminare allo stesso tempo, finisce che loro sono davanti e le sento chiacchierare mentre imbocchiamo il vialetto pedonale che porta verso l’ingresso della scuola e se rallentano perché entrano nel vivo di una conversazione mi spiace dover ricordare loro che la prima campanella sta per suonare, perché corro il rischio di distrarle dall’argomento che stanno dibattendo. Stamattina si discorre di grandi progetti. “Mio padre dice che le donne non dovrebbero fare lavori come guidare i camion della spazzatura, proprio non ce le vede”, dice l’amica. “Perché? Non ci sono lavori da maschi o da femmina, ognuno può fare il lavoro che vuole”. Poi mia figlia si gira verso di me, e mi svela il segreto. “Lei vorrebbe fare la stilista di moda”, riferendosi all’amica.
Mica male, penso ad alta voce, e le chiedo se sia vero. “Sì, mi piace disegnare e cucire, una brava stilista deve sapere anche disegnare molto bene. La Matilda invece vuole fare la pasticciera”. Mia figlia le fa notare che il sogno della comune compagna di classe non è semplice da attuare, perché magari prepari i bon-bon, così li chiama, e poi ti cadono tutti mentre li sforni e devi rifarli da capo. Non capisco da chi abbia preso questo velato pessimismo cosmico. Quindi ci mette al corrente dei suoi piani. “Io ho tre possibilità: l’attrice, la maestra o la dentista. Così potresti venire da me a farti curare, e io con il trapano TRRRRRRRRR un dentino! TRRRRRRRRR un altro dentino! TRRRRRRRRR ancora un altro dentino!”. Le lascio intente in questa drammatizzazione di non so quale cartone animato, e mentre mi allontano resta il tempo per togliere un dubbio. “Ma tu hai scelto il lavoro che fai o volevi farlo davvero?” mi chiede la sua compagna di classe, e mi scappa da ridere perché formulata così la domanda lascia una finta alternativa di risposta. Ma forse la bambina ha ragione, non ci sarebbe stata via d’uscita. Non a caso ora, in cui la situazione è quella che è, sempre più precipitevole e apparentemente senza futuro, tento una proiezione ma non saprei proprio da dove ricominciare. Anche solo per raccogliere aneddoti, un minimo di prospettiva ci vuole, no?