l’autodidattilografo

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Che poi scommetto che nessuno di noi ha mai approcciato l’uso del personal computer, è irrilevante in quale momento storico o fase della sua evoluzione, facendosi dei problemi sul fatto di non essere un valente e preciso dattilografo. Non so so se sia tutt’ora una materia di studio in certe scuole superiori di avviamento alle professioni amministrative o di segretariato, sempre che siano professioni ancora in auge, ma ricordo benissimo ragazzi che mentre noi si collezionava voti prossimi allo zero assoluto in lingue morte e trapassate, loro si esercitavano sulle macchine da scrivere per riportare testi inventati per simulazioni pratiche sui fogli con tanto di carta carbone per le multi-copie. Che cosa tenera. Oggi se esistono ancora le ore di dattilografia ci si cimenterà sulle periferiche di input per digitalizzare numeri e parole, l’anticamera del data entry e di ore interminabili su file Excel.

Io come tutti voi sono invece un autodidatta, anzi, possiamo coniare il neologismo autodidattilografo. Non ho nessuna impostazione e ogni volta che ci rifletto – non è che mi capiti spesso, eh, ho sempre qualcosa di meglio a cui pensare, fortunatamente – ogni volta che ci rifletto mi vengono in mente quei musicisti che imparano da soli con tecniche sommarie e tutte inventate. C’è un celebre aneddoto su The Edge, per esempio, un chitarrista di tutto rispetto che si è fatto da solo a cui è stato poi impedito di andare a lezione di chitarra perché sussisteva il rischio che la tecnica tradizionale cambiasse il suo stile e, quindi, portasse alla rovina il sound degli U2. Il problema è sempre lo stesso e antico quanto la storia dell’uomo. Rientrare in binari già rodati per fare qualcosa ci impedisce di ripercorrere errori già appurati e risolti ma, allo stesso tempo, limita il progresso, la nascita di metodologie nuove. Ci sono le scuole di pensiero, come sapete.

Comunque, prima di diventare l’affermato professionista della cialtronaggine che sono, mestiere per esercitare il quale schiaccio tastini qwerty otto ore al dì, trasmettevo caratteri e simboli ai programmi utilizzati e comandi DOS con una lentezza sorprendente, considerando che ogni volta perdevo tempo a scorrere tutte le file dalla prima all’ultima per trovare i tasti meno battuti. Non solo: al massimo impiegavo uno o due dita, entrambi gli indici per lo più.

Ma nemmeno all’ingresso nel mondo del lavoro come si deve mi è stata richiesta l’abilità di digitare sulla tastiera del PC con determinati parametri di velocità e resa, ai tempi le competenze informatiche erano già inerenti la perizia in questo o quel software e oggi più che mai diamo per scontato che chiunque perda tempo in Internet dal mattino alla sera sia in grado di utilizzare le dita per scrivere nel migliore dei modi.

La mia fortuna è stata che nella precedente esperienza di programmatore dovevo scrivere sempre le stesse lettere, quelle delle istruzioni del codice, tanto che dopo un po’ sono diventato bravo a lavorare guardando solo lo schermo e ora non vi dico come sono migliorato. Sì, qualche refuso scappa sempre. Ma vedete tutte queste belle parole? Le sto scrivendo in questo modo che a pensarci bene mi spaventa, un procedimento automatico per il quale penso una frase o un termine o il suo sinonimo e lo metto nero su bianco simultaneamente e se mi accorgo di aver sbagliato qualcosa vado di tasto per cancellare. E la cosa che più incredibile è che me ne accorgo scrivendo se faccio un errore, perché è come se le dita di muovessero da sole e il riflesso che arriva dal cervello comprendesse una sorta di verifica di rimando in tempo reale se il tasto che ho premuto a conseguenza dell’ordine impartito dalla volontà di scrivere una certa parole corrisponde a quello giusto nella mappatura della tastiera che ormai ho nella memoria e che sicuramente ha preso il posto di alcuni piccoli movimenti che tanto non servono più. Come leccare il dorso di un francobollo, usare le graffette per raccogliere insieme fogli stampati, sottolineare un libro con la riga e la penna, fare quei giochini con i numeri da uno a cento per riempire un quadrato da dieci per dieci quadretti che si facevano alle superiori quando c’era qualcosa di noioso nell’aria, impostare i canali su un televisore.

Anzi riesco a usare sia la destra che la sinistra e le mie dita da pianista dal pollice sulla barra spaziatrice ai mignoli per l’enter, gli alt e i tab, consapevole che alcuni tasti sono di qua e altri sono di là, quindi mentre scrivo sento gli emisferi che lavorano come dei forsennati trasferendo ordini alle mani ed è tutto uno sferragliare di informazioni. Ma invidio tutt’ora quelli che in Parlamento usano quella specie di pianola a un’ottava o poco più per trascrivere in tempo reale tutti i dibattiti, strumento che le persone che hanno trascorsi di sintetizzatorista come il sottoscritto vorrebbero tanto provare, almeno una volta nella vita, per vedere l’effetto che fa suonare le parole altrui, che dev’essere un po’ come ballare di architettura e tutte quelle assurde comparazioni attribuite a Frank Zappa.