the shame was on the other side

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Intanto ascoltate qui sotto, poi ne parliamo.

Ci siete? Ok. Uno dei brani più celebri della storia del rock, se non di tutta la musica di ogni genere. Ingiustamente solo 46esimo nella top universale che Rolling Stone ha compilato nel 2004. Se non altro perché è un pezzo che ha segnato la storia dei miei ascolti, come quelle di tanti altri, stabilendo una sorta di punto di partenza e di arrivo, l’alfa e l’omega. Prima di continuare: se volete tutti i dettagli sul perché e il percome e chi ha suonato in studio con Robert Fripp e Bowie, andate qui.

Heroes è innanzitutto la vetta artistica del periodo berlinese di Bowie, esce nel culmine degli anni ’70 (il 1977), parla di una storia che si svolge sullo sfondo del monumento all’umanità (nel bene e nel male) più significativo del dopoguerra se non del ‘900 (il muro di Berlino). Tutto questo in un brano rock/pop, non è cosa da tutti i giorni. Incarna perfettamente l’estetica e lo stile, oltre i contenuti, come abbiamo visto, di un momento culturale e artistico, con un pizzico di moda. Vogliamo parlare della copertina dell’album e del diametro diverso delle pupille di Bowie e della sua posa e del giubbetto di pelle che indossa nel video? Ma torniamo alla musica.

Una delle sue particolarità è che piace a tutti, e non perché si tratta di un brano dozzinale. Piace ai fan di Bowie, ovviamente, agli amanti della musica dei ’70 perché rappresenta uno spartiacque e apre le porte del pop al post-punk. Piace ai rockettari perché vi colgono il lato malinconico del rock e ai più decadenti (ieri dark, oggi emo), perché vi trovano un punto di appoggio. Ai cultori della musica raffinata perché è prodotta da Robert Fripp, agli altri perché è stata emulata in più edizioni di X Factor. Piace a me, perché mi riesce facile inserirla in qualsiasi tipo di playlist.

La versione uscita come singolo, che è quella che avete (spero) appena ascoltato sopra, è più breve, rispetto a quella sull’LP. E di molto. Un tempo erano rari i radio edit, potrei fare decine di esempi. Per esempio Tunnel of love dei Dire Straits. Heroes è un precursore della brevità radiofonica? Manca così tutta la prima strofa, che oltre ad essere fondamentale nella simmetria del testo in quanto viene ripetuta come quarta strofa, un’ottava sopra, è anche fondamentale nella lirica stessa. Manca poi un passaggio troppo intenso:

And you, you can be mean
And I, I’ll drink all the time
‘Cause we’re lovers, and that is a fact
Yes we’re lovers, and that is that

Tutto questo per suggerirvi di ascoltare sempre e solo la versione completa, contenuta nell’LP. Ve ne prego. Non lasciatevi prendere dalla fretta quando si tratta della storia della musica. E poi sono sono solo poche frazioni di mega in più.

Ma Heroes è anche una colonna sonora formidabile. Uno di quei pezzi epici che sta bene su tutto. Hai un video che manca di pathos? Mettigli su Heroes. L’esempio più eloquente è la sua presenza nella colonna sonora di “Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”, il film di Edel del 1981. Dubito che l’abbiate perso, comunque date un’occhiata qui (anche se è un tono sopra):

Questo stride non poco con altri successivi accostamenti suono-immagine in positivo, forse fatti per compensazione, almeno per chi, come me, considera queste scene con vero e proprio videoclip del brano. La bella morte – sono modelli negativi quanto volete, non ne sto facendo una questione morale, ma pur sempre modelli – dei tempi era così. Immaginate la mia perplessità quando Bowie stesso ha voluto celebrare con Heroes i martiri in divisa dell’11/9, a New York. Una piacevole eccezione è costituita dalla sigla del programma di Raitre Sfide, l’effetto decontestualizzante generato dall’accostamento con il calcio risulta quasi piacevole.

Heroes è, infine, uno dei pezzi più difficili da suonare. Nel senso da riproporre come l’originale. Bowie stesso e la sua band non ci sono mai riusciti, a partire dalla versione contenuta nell’album Stage del 78, che ad oggi continua ad essere la più vicina a quella in studio. Il piano è troppo in evidenza, non si amalgama con il feedback della chitarra che intrecciata al synth è riuscita a generare quel suono così freddo e così inimitabile. Non rende il volume del ride di accompagnamento, con una sequenza ritmica che probabilmente in studio si mescola a tutto il resto. Cassa e rullante stessi, dal vivo, danno subito un’impronta eccessivamente rock a un pezzo che è tutt’altro che rock, nel senso puro del termine.

Così Bowie, non potendo attenersi al suono originale, prova versioni e arrangiamenti, piuttosto discutibili. Questa, per esempio, è segnalata dalla critica come una delle migliori versioni live. Tsk. Malgrado la presenza del very pretty Thomas Dolby ai synthesizers and keyboards. Ma si sa, il suono degli anni ’80 ha dovuto per forza di cose porsi in antitesi a quello precedente, figuriamoci se non c’è stato il tentativo di negarne il principale manifesto. E le successive e quelle del Bowie più recente, che ha avuto comunque un rigurgito di Berlino, non sono meno kitsch. Purtuttavia si tratta di uno dei brani più coverizzati della storia, quasi più di Enjoy the Silence. E senza dubbio alcune cover sono meglio delle versioni live di Bowie: per approccio quella dei Wallflowers, per ricchezza emotiva la più recente di tutte (almeno credo), interpretata addirittura da Peter Gabriel.

Brano consigliato per smaltirne l’effetto: Sense of Doubt. Nello stesso album, ti riporta direttamente con i piedi per terra. Giuro.