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Milano, linea rossa, direzione Duomo. Non è l’ora di punta, si trova ancora qualche posto a sedere; il tragitto, una decina di fermate in tutto, non è brevissimo, posso dedicarmi al mio libro, l’ennesima storia di squallore nella provincia statunitense. La temperatura è torrida, l’aria ai limiti della respirabilità, il sedile bolle sotto il mio abito poco indicato alla stagione. Si chiudono le porte alla stazione successiva a quella in cui sono salito io, ormai sono in trance, immerso nella lettura. Il convoglio riparte, e sento che c’è qualcosa che mi disturba, come un’interferenza che mi riporta alla realtà. Qualcuno sta cantando, a pochi passi da me. L’intrattenimento musicale sotterraneo è una forma espressiva piuttosto comune, un trend in crescita, se così lo si può definire, multiculturale e trasversale. In taluni casi rasenta il meltin’ pot, capita infatti di assistere a esecuzioni di brani della peggio tradizione melodica italiana, o sole mio, per fare un esempio, per violino solo con ghirigori e abbellimenti esotici. Il risultato non è male. Ma, per dirla tutta, la maggior parte delle volte la tecnica dei strumentisti non è granché, oggettivamente. Capisco che l’intento di questi spettacoli itineranti sia la massima resa con il minimo sforzo, suonare Paganini per otto ore nella ressa di folla che si sposta sottoterra potrebbe essere impegnativo. E io mi sono imposto di versare un obolo – non più di un euro, duemila lire, non dimentichiamolo – solo se la qualità, la tecnica, l’estro, la fantasia vanno oltre l’improvvisazione free jazz (la categoria che mi sembra più attinente) per strumenti ad arco o melodica a bocca.

Dicevo, qualcuno sta cantando, a pochi passi da me. E l’interferenza cattura la mia attenzione perché ciò che percepisco è piuttosto distante dalla cultura gitana cui siamo avvezzi. Alzo lo sguardo dal mio libro e noto un uomo sulla settantina, forse meno, molto distinto, in camicia a maniche corte di lino bianca dentro un pantalone jeans cartonato tipico da persona agée e mocassini. Capelli corti bianchi e barba rasata di fresco. Con la mano sinistra si regge all’apposito sostegno verticale, la destra è stretta in un pugno a tenere un invisibile microfono rivolto verso la bocca. Ha il capo leggermente chino e gli occhi socchiusi, una perfetta interpretazione di quello che sta cantando: “Strangers in the night exchanging glances, wondering in the night what were the chances, we’d be sharing love, before the night was through“. Leggo un po’ di imbarazzo nei volti delle persone che stanno condividendo con me l’esibizione di quel crooner della Martesana, nessuno potrà negare una mancia di fronte a cotanta miseria urbana. Ecco l’ennesimo pensionato che non arriva a fine mese, che prova ad arrontondare mettendo sotto i piedi (e sotto terra) la propria dignità facendo quello che sa fare, cercando di vendere alla bontà del prossimo il suo orgoglio e piuttosto che chiedere l’elemosina fuori dal supermercato di quartiere perlomeno di impegna a guadagnarsi onestamente un pasto. Questo è il domino di banalità che assumono le sembianze di punto interrogativo sopra la mia testa e si uniscono al pensiero unico che si va formando più o meno all’altezza della fermata di Loreto. Io scendo tra due, metto mano al portafogli ed estraggo il mio gettone da un euro (duemila lire, non dimentichiamolo mai). Ma a Loreto il convoglio si ferma, si aprono le porte e il nostro Frank Sinatra esce, continuando la strofa dello slow con cui ci stava dilettando senza chiedere nulla. Il convoglio riparte, lo vedo dal finestrino infilare la scala mobile, non lo sento più ma osservo le sue labbra intente nell’allungare la vocale dell’ultimo verso, accompagnato da un ispirato e languido movimento del capo. Sorrido al mio vicino di posto, che non ricambia, ripongo il libro in borsa, rimetto l’euro in tasca e mi appresto a scendere, fischiettando il refrain di Strangers in the night.