pianisti su marte

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Chi è o è stato studente di quel meraviglioso strumento che è il pianoforte va automaticamente a collocarsi in uno dei due macro-insiemi che raccolgono, da una parte, quelli ce l’hanno fatta a diplomarsi al conservatorio e, dall’altra, tutti gli altri. Ora non dovete pensare che questa classificazione metta i salvati e i sommersi in antitesi, non c’è nessun giudizio verso nessuna delle due categorie e verso i loro rappresentanti. E come potrei? Di qua ci sono persone che hanno sacrificato chissà quanti pomeriggi della loro gioventù chini su ottantotto tasti mentre i loro amici si rovinavano di canne al parchetto. Di là c’è di tutto un po’ ma non solo musicisti che, come me, stremati dall’adolescenza, a un certo punto hanno gettato la spugna. Si trova anche gente che ha semplicemente realizzato che lo studio classico non è la sua tazza di tè e si è dato al jazz, al rock, all’insegnamento dello strumento a chi è alle prime armi, alla musicoterapia, o tutte queste cose insieme, e perfino chi gli è venuta la nausea.

A entrambi i gruppi va comunque il mio attestato di solidarietà e vicinanza per quei primi anni di studio in cui i risultati hanno da venire e il presente è fatto solo di esercizi e scale. Scale ed esercizi. Studi e scale. Hanon. Czerny. Pozzoli. Pura ginnastica per le dita, su è giù per la tastiera, da sinistra verso destra e ritorno. Da destra verso sinistra e via con il successivo. Dalle note basse a quelle alte, dalle ottave acute giù verso quelle gravi. Do mi fa sol la sol fa mi re fa sol la si la sol fa e così via. Mani perfettamente allineate a distanza di dodici tasti, maratone eterne per scogliere le giunture, roba che ti manda le articolazioni a fuoco a furia di usarle. Lunghi mantra sonori preparatori all’esecuzione dei pezzi veri, quelli che si devono preparare per gli esami. E sopra il metronomo imperturbabile che sancisce il tempo, il ritmo, a ogni giro una tacca più veloce. L’oblio della meccanica musicale, una corsa verso la scioltezza, la leggerezza, l’alternarsi della pressione sui tasti, ma anche l’indipendenza, le mani che vanno da sole. Pura aerobica per gli arti superiori e niente più.

E come fondisti olimpionici, i pianisti in erba lasciano lungo il percorso che porta alla battuta conclusiva dell’esercizio, dello studio, della scala, i compagni più deboli, quelli meno determinati, quelli che si fanno domande, che cercano un senso. Il senso che nella pratica dello strumento, purtroppo, non c’è, non si vede, non si percepisce fino alla conclusione della tecnica. Mani e dita sciolte consentono di avere il pianoforte in pugno. Come mi ripeteva il mio maestro, solo dopo l’ultima pagina dell’Hanon, dello Czerny, degli studi di Pozzoli, si riesce a domare lo strumento. Fino ad allora, ogni pianista è in sua balia. Ed è sempre stato così.

giusto

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Giusto è un insegnante di pianoforte, sposato da sempre con un’infermiera andata in pensione giovanissima, e ha una figlia piccola che va a danza e promette bene, ma non sembra interessata alla musica se non come corollario dei suoi balletti. Giusto ha gli occhialini tondi ed è un po’ sovrappeso, come molti papà che fanno vita sedentaria. Vive in un appartamento di un palazzo moderno in periferia, con le pareti che sembrano di cartongesso tanto lasciano filtrare i rumori: il pianoforte nello studio ha costantemente la sordina inserita, e solo le esecuzioni importanti, per esempio quelle dei suoi alunni che preparano il diploma, possono essere eseguite senza. Per questo le lezioni dei diplomandi sono organizzate in orari in cui il volume della musica non reca fastidio.

E la cosa paradossale è che l’appartamento è proprio sopra a un negozio di strumenti musicali, in cui dalle 9 alle 19, pausa pranzo esclusa, si alternano principianti che provano chitarre e ampli, magari con qualche effetto intermedio. O bassisti virtuosisti che slappano come Marcus Miller. O pianisti da night club che scelgono le tastiere con accompagnamento, quelle che permettono loro l’evoluzione, anzi, involuzione a one man band, per fare a meno finalmente del sassofonista ubriacone o del chitarrista che poi si imbosca sempre con qualche entreneuse. Quindi la giovane promessa della musica classica è lì impegnato nel dimostrare le sue sei ore di studio quotidiano a lezione, e un timido Mozart viene coperto dal riff di Smoke on the water, o Schubert sembra andare a tempo con un ritmo elettronico di beguine. Ma quello è il mestiere di Giusto, insegnarti a ascoltare solo quello che esegui: il solista è tale, e fino al titolo accademico non ci sarà altra applicazione della pratica pianistica.

Il maestro Giusto una volta suonava anche jazz. Ma negli anni dell’hard bop, del free e del jazz modale dalle nostre parti si era ancora arenati su un mainstream swingato, dove il massimo dell’avanguardia da emulare poteva essere un tempo dispari di Time Out. E giusto Giusto, di Dave Brubeck, ha una profonda conoscenza. Ma poi si sa, il piano di studi degli studi di piano è rigido, il punteggio accademico e il conseguente attestato di diploma è valutato solo a seguito di studi classici. Quindi Giusto mette lo swing nel cassetto. Ma chi è curioso come lui può sperimentare qualche autore classico un po’ di nicchia, come Scriabin o Pick-Mangiagalli da eseguire all’esame finale, qualche piccola soddisfazione prima di gettarsi a capofitto nell’insegnamento presso la scuola pubblica e le lezioni private.

Giusto è anche un compositore. Scrive pezzi per piano, per organo, per orchestra, quasi tutti in la minore, una tonalità e un modo che gli calzano a pennello. Ha composto un piccolo capolavoro, di cui una piccola edizione locale ne stampa lo spartito. E con il tempo escono numerose raccolte di suoi pezzi per piano solo, sempre pubblicati dall’edizione discogafica locale, che Giusto regala ai propri alunni, con dedica. Giusto prende alunni di terza e quarta elementare e inizia da lì il suo percorso di insegnamento. Li aiuta a crescere, vita e musica vanno pari passo. Poi i bambini diventano ragazzi, è Giusto il primo ad accorgersi sei hai fumato una sigaretta prima di entrare a lezione perché mentre suoni devi respirare e lui è lì dietro a controllare la tua interpretazione. Ed è il primo a capire quando la musica classica non è più nelle tue corde, perché il rendimento cala, le mani che guidano la tastiera vorrebbero impadronirsi di altre cose e altri suoni anziché le rigide metriche di Bach, sporcare note, sperimentare armonie. Ma quella è una scusa di qualche alunno, perché le sei ore al giorno alcuni le trascorrono a spasso, oppure sì sul piano, ma a suonare sui dischi, quando possibile.

Giusto non ne riesce a trattenere alcuni, le lezioni da una a settimana diventano una ogni quindici giorni, poi l’anno successivo quell’alunno non c’è più. Non è certo un problema economico, la lezione persa sarà rimpiazzata da un altro bambino di terza elementare, nel quale genitori distratti hanno intravisto un piccolo prodigio della musica classica. Giusto poi è diventato vecchio, ma se ti fermi a salutarlo mentre passeggia con la sua signora gli fa senz’altro piacere.