come chi tiene il sacco

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Le aveva messo lui, Alex, la fregola di rubare, la stessa smania per la quale sarebbe stata ampiamente indulgente con sé stessa anni dopo, giustificandola come una fase in cui i bambini a un certo punto della crescita passano, tutti indistintamente. Ma dopo non era mai riuscita a trovare nessuno studio a supporto di una tesi così semplicistica e così aveva ritenuto opportuno mettere a essiccare anche questo segreto nell’apposito locale della sua memoria, insieme ai resti delle numerose ragazzate da espiare da grande con un comportamento retto e normale. Troppo facile.

Comunque alla fine Alex l’aveva convinta e anzi le aveva suggerito di indossare quella giacca di velluto con le maniche lunghissime, che portava con un vistoso risvolto quasi fino al gomito. L’imbottitura bianca di pelo acrilico copriva gran parte dell’avambraccio formando un tascone perfetto per contenere la refurtiva. Che poi, almeno questo dobbiamo riconoscerlo, cerchiamo di intenderci sul tipo di refurtiva di cui stiamo parlando. Oggetti di taglio piccolo, di valore inferiore alle mille lire e di dubbia utilità, cose tipo un mini-dizionario meno che tascabile italiano-inglese, modellini di automobili da corsa di qualità pessima, palle magiche di gomma colorata. Tutte cose che si trovavano in uno scaffale nascosto dei grandi magazzini, una palestra per aspiranti taccheggiatori la cui fama si era diffusa tra i circuiti dei piccoli ladruncoli, giovani avventurosi e annoiati figli di industriali in cerca di maggior attenzione dei genitori troppo presi dall’attività dei loro club esclusivi.

Forse quella merce finiva lì proprio perché si prestasse a essere trafugata e nessuno diceva niente, sarebbe stato più costoso mettere una persona a sorvegliare quell’area piuttosto che lasciare la paccottiglia alla mercé dei cleptomani. E ai racconti di Alex anche lei non aveva saputo resistere, i risvolti in pelo potevano essere perfetti. Una spazzola per bambole. Un portachiavi con un semaforo. Una lampada cinese da montare. Il gioco dei quindici in confezione da viaggio. Una missione dopo l’altra, un oggetto per volta, tutto finiva negli anfratti della sua giacca. Poi il conflitto tra calma e adrenalina nell’uscire dal supermercato senza farsi notare quindi via velocissimi, un angolo poi un altro e poi un altro ancora per far perdere le tracce il più in fretta possibile.

Qualche settimana dopo i due ragazzini si separarono per le vacanze estive, lei partì il primo giorno di festa per la montagna con i nonni. Il suo senso di colpa comunque latente le aveva fatto pensare che stare alla larga dal crimine per un po’ era meglio, se non altro per placare quell’inconfessabile desiderio di proibito. Aveva portato però con sé in valigia tutti quegli oggetti avuti illegalmente come se si trattasse di una collezione di preziosi. Ed è facile a questo punto indovinare il finale. La mamma, nel corso di una visita, la informò che Alex era stato colto in flagrante da una inserviente, quindi portato dinanzi al direttore del supermercato e sottoposto a una specie di processo negli uffici del supermercato, dinanzi ai genitori affranti dalla vergogna. Ma durante il racconto dei fatti, la madre sembrò dare per scontata l’innocenza della figlia, il fatto che lei potesse essere stata complice di quelle bravate. Non le chiese nemmeno se fosse a conoscenza di quel vizio di Alex, quello di rubare cose inutili senza motivo e senza bisogno per far morire di crepacuore i genitori.

Così, il giorno dopo, la ragazzina prese con sé tutta la refurtiva dal nascondiglio e andò a lanciare pezzo dopo pezzo tutto il suo tesoro tra la folta vegetazione giù da una scarpata, come a liberarsi non solo delle prove materiali. Una delle automobiline, quella blu, rimase impigliata qualche secondo tra i rami di un cespuglio molto fitto prima di cadere giù insieme al resto.

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