l’odore della storia

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Nel giro di qualche isolato ce ne sono parecchi, a mente ne conto una decina, ed è un fenomeno che non mi spiego. Capisco al limite l’esistenza di un distretto della ceramica, una valle del silicone e un’intera provincia che pullula di mobilifici, ma non una via degli antiquari e il perché di una concentrazione in qualche centinaio di metri di così tante cianfrusaglie. Si crea una sorta di economia consortile? Si sfrutta la presenza naturale di materie prime? Si condividono infrastrutture e un polo logistico tale da abbattere costi altrimenti insostenibili da realtà medio-piccole? Si genera indotto a vantaggio comune? Non saprei, ma a naso direi di no.

Forse il fatto che nel tratto di strada che calpesto da anni tra la fermata della metro e l’ufficio sia un susseguirsi di negozietti contigui di cose d’altri tempi è una strategia marketing pensata per attirare acquirenti che altrimenti si disperderebbero, trattandosi di clienti facoltosi quanto appassionati di prodotti di nicchia. I proprietari li vedo ogni giorno fuori dalle loro rivendite a chiacchierare e fumare sigarette e a scambiarsi valutazioni su questo o quell’altro pezzo. Cose d’altri tempi, già, ma si tratta di tempi remoti, non ricordo di aver mai visto nelle vetrine pezzi dal liberty in giù, quindi niente vintage o modernariato, pochissimo novecento ma solo un tripudio di tarme. Talvolta fuori da una delle botteghe c’è qualcuno che carica o scarica un comò, l’anima del mobile in un viaggio e poi tutti i cassetti ciascuno avvolto nella carta antiurto, quella con le bolle d’aria che ha diffuso nuovi esilaranti passatempi. Ieri un negoziante si girava tra le mani un cristo in croce ma senza croce, mentre un collega/aiutante misurava quell’opera incompiuta e doppiamente nuda – senza veli e senza sostegno – con un metro rudimentale per stimare la risoluzione del problema adattando una croce non sua.

Ma al di là del valore oggettivo dei quadri, delle cornici e dei putti che fanno bella mostra nelle vetrine, un valore che non saprei quantificare ma viste le cilindrate e il lusso delle automobili che i clienti lasciano in doppia fila per concludere affari è facile immaginare (è un mercato che malgrado la crisi sembra non conoscere flessione), mi colpisce l’odore inconfondibile di quelle rivendite di passato. I miei genitori mi mandavano a pagare l’affitto a casa delle proprietarie dell’appartamento in cui risiedono tutt’ora, due sorelle mancate da poco e vissute fino a più di cento anni. Ma anche trent’anni fa io me le ricordo già come vecchine piuttosto decrepite, e i sontuosi ambienti in cui mi ricevevano erano caratterizzati da un forte odore di chiuso che non saprei come altro definire se non da casa della nonna, perché in modo meno concentrato lo ritrovavo anche là. Poi c’era la sala prove in cui ho trascorso anni di sogni, uno scantinato privo di finestre con un tasso di umidità da foresta amazzonica e ricoperto di scarti di moquette che di quell’umidità era intrisa, in cui l’atmosfera non riusciva ad essere soverchiata nemmeno dalla concentrazione di musicisti e visitatori la cui compagnia, in quell’età in cui sviluppo ormonale e sudorazione si miscelano irrimediabilmente, non è delle più piacevoli.

Ecco, se potessi classificare la miscela d’aria che si respira all’interno dei negozi di antiquariato che si susseguono in quel tratto di strada, aria che è facile percepire passando lì davanti, direi un 60% di casa della nonna unito a un 40% di sala prove dopo due ore di rock’n’roll. Io gli antiquari li vedo spesso fuori a chiacchierare, la mattina e mentre torno a casa. E forse ho capito perché.

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