Quando si era bambini e il secondo conflitto mondiale era finito appena da trent’anni, che non sono poi così tanti se pensate che si era bambini più o meno trent’anni fa, proprio nel periodo in cui si diffondevano finalmente tutte le argomentazioni a favore del pacifismo e del fatto che comunque combattere con armi ed eserciti non è quasi mai la soluzione migliore, la guerra, pur nella sua ripugnanza, manteneva intatto il suo fattore umano. L’uccidere in sé è fortemente proprio del nostro genere. Guardavamo nei reportage in bianco e nero dello sbarco in Normandia o della battaglia di Montecassino le moltitudini di uomini lanciarsi contro altre moltitudini di simili, passare oltre o cadere sul campo. Una visione che molti trovavano addirittura romantica. Le lunghe marce ordinate degli invasori, il cui incedere regolare e marziale è poi la metafora stessa dell’ordine imposto con la coercizione e la morte del vinto, era nell’immaginario collettivo la sintesi dell’epilogo di qualunque conflitto risolto con la forza, un carattere comune ai vari regimi nazifascisti e militari della seconda metà del novecento in Italia, in Spagna, nei paesi del Sudamerica. A questo, dicevo, ci siamo ispirati un po’ tutti perché si trattava di un modello più facile da idealizzare, quando ci si chiedeva di descrivere a parole, con immagini o con la musica il male dell’uomo. Il paese che invade i confini di quello limitrofo o, ancora peggio, una nazione che si spacca in due e le metà se le danno di santa ragione, e la chiamano pure “civile”. Non so, se mi chiedessero di descrivere la guerra ancora oggi d’istinto mi viene in mente l’esercito di martelli che marcia al ritmo di “Another brick in the wall” dei Pink Floyd, che è la rappresentazione cartoon del passo dell’oca della gioventù hitleriana. O, ancora, sentendo il testo della celebre “Guerra” dei Litfiba d’antan e gli “uomini neri” cantati nel testo, a noi che in tv vedevamo le battaglie sul campo era il confronto diretto tra corpi che, alla fine, faceva più paura. Poi però a tutta questa fisicità d’azione è subentrato un nuovo modello di fare la guerra, anzi, di esportarla. Perché non c’è dubbio che da allora in poi i protagonisti della storia militare sono stati gli americani con le loro battaglie da trasportare partendo dal loro territorio, così ai margini rispetto alle zone tumultuose del pianeta tanto da aver bisogno di basi sparse ovunque. E parallelamente la ricerca in questo settore si è evoluta proprio seguendo questo modello, armi e mezzi pensati per portare la guerra lontano, fuori dai propri confini. Tutto questo per dire che ieri sera ho visto Zero Dark Thirty, il film di Kathryn Bigelow sull’operazione della CIA che ha portato all’uccisione di Osama Bin Laden. Ora, sicuramente dall’11 settembre in poi ma anche prima ci saranno stati centinaia di film di guerra moderna con l’esercito statunitense e i suoi corpi speciali protagonisti che io non ho visto, non amo il genere avulso dallo spirito di una regia come quella della Bigelow. Ma se la guerra oggi si fa così, con elicotteri invisibili e soldati tutti conciati che uno si chiede come si faccia a camminare con quell’armamentario da palombaro. Con azioni cronometrate al centesimo e preparate per mesi con satelliti e tutto il resto, a me sembra più la simulazione di uno di quei videogame sparatutto a cui l’opinione pubblica dà la colpa ogni volta in cui un ragazzo entra in un college e fa strage di coetanei. Ancora una volta è la tecnologia a disumanizzare l’umano che nel nostro caso è l’impeto, la furia che ti scaglia in avanti per colpire il nemico, un tempo con la stampella pur di avanzare e oggi dietro strati di indumenti antiproiettili. Ci si protegge di più ma si è più efficaci in bersagli colpiti, cioè si uccide con maggior precisione. Meglio o peggio, trattandosi di un qualcosa che, nel duemila e rotti, sarebbe il caso di far cessare del tutto? Non facciamo come il PD, evitiamo gli appelli contro la guerra che tanto non servono a nulla come quelli contro la povertà. Quello della Bigelow mi è sembra così più un imperdibile film di fantascienza, una storia di alieni che sbarcano su un pianeta di primitivi in cui le donne, giusto per dirne una, anziché guidare truppe all’assalto sono ancora schiave e invisibili, soggiogate da culture antiche quanto la miseria.