Nel film a lui dedicato chiaramente la musica gioca ovunque un ruolo preponderante, e non potrebbe essere che così, ma l’inizio è sensazionale. La telecamera inquadra per qualche secondo una porzione di uno studio televisivo vuoto ma molto illuminato e con un effetto glitterato. Parte la sigla che è “Sugar baby love” dei The Rubettes, con quell’intro con i cori che sovrappongono le quattro note dell’accordo di settima dominante che poi risolve nella tonalità: il piano si allarga e a ogni nota un membro della band, prima di spalle, si gira di fronte con un solo balzo a ritmo fino a quando il solista si lancia nell’acuto in falsetto che ha reso celebre quel pezzo. Ma al posto dei musicisti veri ci sono tre ragazzini. La batterista è seduta su una sedia e muove le mani percuotendo con un paio di bacchette invisibili tamburi inesistenti. Il pianista pesta le dita su un tavolino. La cantante tiene un manico di scopa inclinato di fronte a sé e lo muove avanti e indietro, seguendo il tempo, con un battipanni a tracolla. Non è nemmeno finita la prima strofa che la canzone e le immagini si fondono in tutt’altra atmosfera. Il pianista ora ha un vistoso set di sintetizzatori davanti, è evidentemente cresciuto, e accompagna dal vivo un cantante che, inquadrato subito dopo, urla al microfono un lamento d’amore ripetendo “I can’t feel love no more”. Non c’è più traccia di quella luminosità glam delle immagini precedenti. La luce è asettica per trasmettere meglio la realtà della nuova scena: un gruppo in concerto male illuminato davanti a una platea di una manciata di persone che ascoltano scettiche una musica troppo poco conosciuta. Ora riprendo la visione così poi vi dico se vale la pena andare a vederlo al cinema o tanto vale aspettarlo alla tele.