la mostra sui Pink Floyd a Roma io l’ho già vista a Londra l’estate scorsa

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E chi se ne importa, direte voi. Comunque, anche se non ho visto quella di Roma, e supponendo sia tale e quale, il mio consiglio è di andarci e, cercando di spoilerare il meno possibile, vi spiego perché.

Il format è lo stesso della bellissima mostra dedicata a David Bowie che ho visitato a Bologna due anni fa. Prenoti il biglietto, entri all’ora prestabilita (questo almeno al Victoria and Albert Museum) e ti metti in testa le cuffie Sennheiser perché – giustamente – una mostra musicale è giusto che abbia la musica come protagonista. Il dispositivo collegato alle cuffie consente di ricevere un segnale diverso a seconda di dove ci si posiziona. Il sistema wifi localizza infatti ogni singolo visitatore ed è possibile ascoltare un audio diverso contestualizzato ovviamente a ciò che si sta guardando. Se non sentite nulla muovetevi e sistematevi meglio, probabilmente è questione di qualche centimetro.

Il percorso della Pink Floyd Exhibition si snoda lungo stanze traboccanti di cimeli, vestigia e nostalgia secondo un ordine più o meno cronologico che, come potete immaginare, va da Syd Barrett alle ultime cose. Anche qui, come nel caso di Bowie, ci sono strumenti, foto, manifesti, oggetti, richiami alla società e alla cultura degli ultimi cinquant’anni, video e molto altro. Il sistema del numero chiuso per ogni batteria di ingressi tende all’eccesso, almeno era così a Londra. Una volta dentro puoi rimanere quanto vuoi, ma quelli che restano, sommati a quelli che entrano, rendono un po’ faticosa la visita. Pazientate per aspettare il vostro turno davanti alle bacheche e non demordete perché c’è tanta roba interessante.

Per vedere la mostra non serve essere dei fanatici dei Pink Floyd. Io, per esempio, mica lo sono. I primi dischi li trovo piuttosto difficili, adoro il periodo che va da “Meddle” a “The Wall” perché sono stati la colonna sonora del mondo quando ero bambino o poco più, non ho mai ascoltato con attenzione gli ultimi lavori perché, una volta scoperto il post-punk, non sono tornato mai più indietro. Nonostante ciò, la mostra è da vedere perché i Pink Floyd sono un dato di fatto, fanno parte del nostro vissuto come la natura, le macchine, i treni, l’elettricità, i computer. Non so se mi sono spiegato ma spero di sì.

Ora vi do delle anticipazioni, quindi se preferite l’effetto sorpresa cliccate qui e andate sul sito del Museo d’Arte Contemporanea di Roma perché di arte contemporanea si tratta, a tutti gli effetti. Ci sono due cose bellissime (tra le tante), e lo avevo già scritto qui quando ho parlato della mia vacanza in UK: una sala dove puoi ascoltare per quante volte vuoi “The great gig in the sky” contemplando una versione rotante in 3D del prisma triangolare della copertina di “The dark side of the moon”, in cui ho pianto copiosamente, e un’area in cui hai a disposizione un mixer con le tracce separate di “Money” per divertirti a destrutturarlo come ti pare. Poi il salone finale in cui ti sdrai per vederli suonare un brano (non vi dico quale) dal vivo su tutte le pareti, una tecnica immersiva che avevo già apprezzato alla mostra di Bowie.

Vi segnalo anche questa recensione più autorevole della mia così, se volete un parere più esperto, siete serviti. Comunque, come vi dicevo prima, non perdetevela.

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